DAMSEL: GIRL MEETS DRAGON

Damsel sulla carta è anche carino, non è il solito film col drago cattivo da ammazzare (cioè, sì, un po’ lo è ma non fino in fondo), ha un bel piglio e a parte una premessa tipicamente fiabesca un po’ campata in aria che giustifica tutto l’impianto narrativo seguente, ha anche un bel ritmo.

Il problema potrebbe essere che Millie Bobby Brown è un po’ troppo sfruttata da Netflix come la next big thing del cinema commerciale e lei povera ci si impegna di brutto, ma non riesce a bucare lo schermo come dovrebbe.

Perché per il resto siamo di fronte a un fantasy per ragazzi che mette insieme suggestioni da Alien e The Descent e che porta avanti un discorso di empowerment femminile che sì, OK, non ci può portare a definire il film “femminista” ma almeno mette in scena un’eroina interessante.

Millie deve sposarsi per forza con un principe belloccio, ma non si tratta del solito matrimonio combinato per dare un erede a un regno quanto piuttosto per dare una vittima sacrificale al drago che sta nascosto nella montagna. Che poi è un drago femmina, che negli anni ha divorato tante damigelle (“damsel”, appunto) per via di un accordo perverso con il re della premessa di cui sopra.

Senza spoilerare troppo (anche perché il film è un filo prevedibile), Millie e la draghessa ne faranno di tutti i colori spaccando culi e bruciando posti. Innocuo.

FOO FIGHTERS SPLATTER!

Ovviamente il film horror dei Foo Fighters è una solenne vaccata, questo va detto subito. Però è innegabilmente divertente la riproposizione di quelle vibe stile “Morte a 33 giri” e a tutto l’ambaradan da slasher demoniaco anni ’80.

Comunque: Dave Grohl e soci devono fare il nuovo disco, lo vogliono con un suono che spacca e cosa c’è di meglio che andarlo a registrare in una villazza a Encino dove 30 anni prima una oscura band grunge/metal aveva evocato un demone che – impossessatosi del corpo del leader – aveva trucidato male tutti i membri?

Studio 666 ha dalla sua – ovviamente – una notevole colonna sonora, un altissimo tasso di demenza e effetti prostetici allo stato dell’arte, con una spinta sul pedale del gore più estremo che mi ha fatto pensare a Terrifier di Damien Leone. Occhio: crani sfondati a manetta, cannibalismo, organi interni “sviscerati” e quant’altro. Divertente.

LA SATIRA BLACK DI AMERICAN FICTION

American Fiction, dell’esordiente Cord Jefferson è l’ultimo film candidato agli Oscar che vi manca di vedere, e allora vedetelo (si trova su Prime Video). Ah, non fatevi ingannare dal trailer che lo fa sembrare l’ennesimo insulso film comico.

C’è un motivo per cui questo film è piaciuto così tanto in patria, ed è (secondo me) questo: è un film che parla di razza e di stereotipi, di rappresentazione e di senso di colpa bianco, mescolando la satira sociale ad una storia familiare disfunzionale drammatica e comica al tempo stesso e che mantiene sempre il ritmo e il tono giusto mescolando materiali potenzialmente poco mescolabili e aggiungendoci anche un pizzico di metacinematografia.

Vado a spiegarmi illustrando la trama: Thelonious Ellison, detto (ovviamente) Monk, interpretato da un Jeffrey Wright in stato di grazia, è un professore universitario nero che insegna storia della letteratura americana sudista. Il film comincia con lui che scrive alla lavagna il titolo di un libro da analizzare che contiene la parola “nigger”

Una studentessa bianca e woke dice “ma quella è una parola che non si usa, è offensiva e mi mette a disagio”. Lui replica che il libro da studiare è quello, e che cento anni prima quella parola era di uso comune. La studentessa replica che lei proprio non ce la fa a vederla scritta. Lui le dice in sintesi “scusa ma se ci passo sopra io direi che puoi farlo anche tu”. Ovviamente viene sospeso dall’insegnamento.

Avete capito dove si va a parare, il sottile confine tra l’uso di un linguaggio politicamente corretto e la follia di voler in qualche modo censurare il passato. Ma soprattutto il senso di colpa bianco portato al parossismo.

Il tema viene sviluppato in modo veramente gustoso nel momento in cui Monk, scrittore sopraffino che però non pubblica e che ha bisogno di soldi per via delle sue questioni familiari, decide di dare alle case editrici wasp quello che il mercato chiede: un vero romanzo afroamericano.

Che ovviamente è tutto a base di ghetto, spaccio, periferie degradate, gravidanze indesiderate, sgrammaticature e stereotipi portati all’eccesso: tutto quello che Monk odia e disprezza. Lo propone per scherzo firmandolo con lo pseudonimo Stagg R. Leigh (capito la finezza) e ovviamente piace TANTISSIMO.

Da qui in poi, nella parte satirica del film, parte una ridda di situazioni sempre più allucinanti che portano a premi letterari, adattamenti cinematografici e un sempre maggiore scorno e imbarazzo di Monk,

Nella parte “familiare” del film, una serie di personaggi di contorno amabili (nel senso che ci viene voglia di amarli, un po’ come i personaggi di The Holdovers, altra grandissima commedia americana dell’anno scorso) ruotano intorno a Monk. La sorella da cui si era allontanato, il fratello minore gay e in bancarotta, la madre con l’alzheimer (è per i soldi della casa di cura che Monk accetta di scrivere un libro che odia), la governante che si sposa in terza età, la vicina di casa che diventa fidanzata, confidente e che a causa delle tensioni provocate dalla vita lavorativa di Monk si estrania. 

Ci sono diverse scene memorabili nel film, intessute nella storia in modo perfetto (la mia preferita è quando Monk, nei panni di Stagg R. Lee propone di intitolare il suo libro “FUCK” e la direttrice della casa editrice gli dice “sì, è coraggioso, è molto black”).

Ovviamente non vincerà l’Oscar come miglior film, ma tra Jeffrey Wright e Cillian Murphy non avrei dubbi sul miglior attore. Magari vincerà la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale (è tratto da un romanzo inedito in Italia), anche se credo che quello sarà il premio di consolazione per The Zone of Interest. Comunque vedetelo, che vale.