L’INTERESSE PER IL FUORI CAMPO

The Zone of Interest di Jonathan Glazer, tratto dal romanzo di Martin Amis, è un capolavoro. Nello stesso tempo, è un film che mi ha fatto desiderare di uscire dalla sala. Poi l’interesse ha prevalso sull’angoscia, ma diciamo che ho dovuto fare un bello sforzo di astrazione per pensare “guarda che meravigliosa scelta registica” evitando di soffermarmi sui significanti e sui significati.

The Zone of Interest racconta la storia vera e banalissima di un uomo che ha una villetta meravigliosa accanto al suo posto di lavoro e ha una famiglia felice con cui condividere feste in piscina nel giardino curatissimo dalla moglie, pranzi e cene con gli amici, gite al fiume, feste di compleanno e quant’altro.

Solo che l’uomo è Rudolf Hõss e il posto di lavoro è il campo di concentramento di Auschwitz. Questa cosa non è nemmeno che venga fuori come un colpo di scena, a un certo punto. No. Semplicemente, alla quarta o quinta inquadratura dal giardino della villa, si vede il muro di cinta col filo spinato e le ciminiere dei forni che emettono costantemente fumo e fiamme.

La storia procede, Rudolf deve essere trasferito, la moglie Hedwige monta su un litigio coi fiocchi, perché non vuole andarsene: quale miglior posto per crescere i bambini che questo eden in cui i bambini giocano con i denti delle persone cremate nel campo e lei e le amiche possono appropriarsi delle pellicce e dei vestiti delle donne ebree sterminate?

A un certo punto arriva anche la suocera e la cosa prende una piega surreale, quasi da commedia. Ma sempre con le ciminiere dietro. E attenzione, non si vede mai nulla se non l’idillio. La cosa intollerabile è questa: Johnnie Burn, il sound designer che ha lavorato molto con Lanthimos, complice la musica atonale e dissonante di Mica Levi, riempie ogni inquadratura con rumori assortiti di spari, cani che abbaiano, gente che urla, che supplica, che muore.

I rumori sono attutiti quando gli Hõss sono in casa, ma abbastanza forti quando sono in giardino, o nei sentieri che portano al fiume. Ed è il contrasto tra il sonoro fuori campo e quello che vediamo in campo che crea un disagio fortissimo.

A contrappunto della banalità del male vediamo inserti totalmente neri, bianchi o rossi con la musica di Levi protagonista, e spezzoni onirici in cui una giovane servetta polacca lascia delle mele in un terrapieno (per i prigionieri?) tutte girate con camera termica, virate in bianco e nero e in 4K, che contribuiscono al disagio complessivo con una sensazione di “fuoriposto” raramente provata al cinema.

Il finale, in cui le piccole vicissitudini lavorative di Rudolf si intrecciano con la Storia (e con la memoria) può sembrare antidrammatico, ma i conati di vomito che lo sottolineano non lasciano dubbi sul fatto che The Zone of Interest è una mazzata in piena faccia.

Ovviamente è “il” film da vedere quest’anno, ed è una delle rare cose che vedremo che – come diceva Godard – ci dice qualcosa sul mondo e ci dice qualcosa anche sul cinema.

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