BACK TO MINE

All’inizio del secolo c’era questa collana di album intitolata “Back To Mine“. Band come gli Everything But The Girl, i Morcheeba, gli Orbital, gli Underworld o i Groove Armada apparivano in catalogo producendo quelle che allora si chiamavano compilation di brani altrui mixate insieme secondo il loro personale gusto. Per me erano un piccolo cult personale (ho adorato anche le uscite di Prodigy e Royksopp). Ma in questo post non voglio parlare di musica, era solo il gancio per giustificare il titolo.

Back to mine vuol dire “ritorno alla roba mia“, ritorno a qualcosa che magari avevi un po’ perso per strada e che invece hai improvvisamente voglia di ritrovare, di rivitalizzare. OK, ci metterò sicuramente un po’ a scrivere questo post, che arriva dopo circa 15 anni di tempo “diverso”. Quello che leggete adesso è il frutto di un work in progress mentale che dura da alcuni mesi.

Questo blog è un blog personale. La sua tagline è “cultura generale digitale” perché io sono sempre stato (e mi sono sempre sentito) una sorta di divulgatore di quella che è la digital culture in senso lato e poi sì, sono anche un nerd vecchio stampo, per cui adoro parlare di tutto quanto fa pop culture. Ma è comunque un blog personale.

Io lavoro nel campo da più di 25 anni, praticamente metà della mia vita. Faccio il digital communication specialist (almeno così sta scritto sul mio profilo LinkedIn) e insegno storia dei media digitali. Insegno… diciamo che coinvolgo, fornisco background e scenari per alimentare la curiosità e gli approfondimenti sulla materia. Quindi, OK, forse insegno veramente. Questo aspetto di me non è mai apparso in questa sede perché… non so nemmeno io perché.

A metà degli anni ’90 il web era il fenomeno del momento. Il concetto di ipertesto (che – seppur dato per scontato – ancora oggi mi sembra rivoluzionario nell’approccio ai contenuti) aveva la stessa portata mind blowing che oggi tendiamo a dare alle evoluzioni di OpenAI, di ChatGPT, di Midjourney e Dall-E.

Nel 1999 Douglas Adams (indiscutibilmente uno dei miei spiriti guida) scrive un breve saggio intitolato kubrickianamente “How to Stop Worrying and Learn to Love the Internet“. In questo saggio si inventa le famose tre regole sul nostro rapporto con la tecnologia che grosso modo si possono tradurre così:

1) Tutto quello che si trova nel mondo alla tua nascita è dato per scontato.
2) Tutto quello che viene inventato tra la tua nascita e i tuoi trent’anni è incredibilmente eccitante e creativo e se hai fortuna puoi costruirci sopra la tua carriera.
3) Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi trent’anni è un’offesa all’ordine naturale delle cose, è l’inizio della fine della civiltà e solo dopo essere stato in circolazione per almeno dieci anni torna a essere abbastanza normale.
Douglas Adams

Queste tre regole (che ormai puoi trovare su tutti i siti di citazioni e frasi motivazionali un tanto al chilo) sono simpatiche, contengono una grande verità e al tempo stesso sono paradossali, un po’ come tutto quello che è uscito negli anni dalla penna di Adams. Se le applico alla mia esperienza personale, è ovvio che l’ascesa del web negli anni della mia formazione universitaria, tra il 1990 e il 1995 ha pesato molto sulle mie opportunità di carriera. Ho avuto la fortuna di immergermi fino alle punte dei capelli in quel tipo di cultura nonostante arrivassi da un liceo classico e da una scelta universitaria prevalentemente legata all’audiovisivo, al cinema e alla comunicazione pubblicitaria.

Sempre guardando alla mia esperienza personale, ancora oggi che ho più di 50 anni e faccio parte della prima generazione che sta “invecchiando in rete, non ho smesso di essere curioso e di analizzare ogni fenomeno che esce fuori (consapevole che il ciclo dell’hype è sempre più frenetico e famelico). Tra i 22 e i 32 anni ho avuto un sito web in cui immagazzinavo tutto quanto mi piaceva. A 33 anni ho scoperto il web 2.0 e me ne sono innamorato subito. Il web 2.0 mi permetteva di mettermi in gioco personalmente, era una bellissima utopia di come il mondo reale avrebbe potuto essere influenzato e plasmato da quello virtuale (perdonatemi, a quel tempo si faceva ancora questa distinzione ormai inutile).

Questo blog è on line da 20 anni (il compleanno lo festeggiamo al 10 novembre, data del mio primo post). Ma già dopo cinque anni il web 2.0 e la sorpresa insita nel fatto che non scrivevo più “solo per me” ma per un nutrito gruppo di impallinati che come me condividevano la passione per il blogging era un po’ scemata. Il Web 2.0 si stava trasformando in “social web” e prima Twitter, poi Facebook, poi Tumblr, e a seguire Instagram, Pinterest, Snapchat e TikTok hanno cominciato a spezzettare in tanti frammenti sempre più piccoli quell’attenzione che non a caso è protagonista del nuovo modello economico / di marketing prevalente.

Sebbene fossi già ben oltre i 30, mi sono buttato senza esitazioni nel social web, inizialmente convinto che questa potesse essere una “naturale” evoluzione di un web in cui i produttori di contenuto potessero trovare non dico un posto al sole, ma un’opportunità per far sentire la propria voce. Nel giro di una decina d’anni i blogger sono diventati prima youtuber, poi influencer, infine creator. Ovviamente i social (e il loro modello di business, perché ogni social è un’azienda con i suoi ricavi e i suoi bilanci, ma sembra che la maggioranza lo stia scoprendo solo negli ultimi anni) non hanno migliorato il mondo.

O meglio, il nostro utilizzo dei social non lo ha fatto. Perché sappiamo bene che si tratta di strumenti come altri, non dotati di per sé di una propria agenda – ma strumenti cui fare attenzione perché sono, diciamo così, in affitto e non di nostra proprietà.  Strumenti che possono essere facilmente piegati alla generazione di fango, odio, prevaricazione, radicalizzazione.

Se guardo agli ultimi 5 anni, e alla misura in cui la produzione di contenuti per i social è diventata una delle due parti preponderanti del mio lavoro quotidiano (l’altra fetta grossa se la prendono la grafica e i video, spesso comunque declinati in funzione social), mi rendo conto che a poco a poco è cresciuta una disaffezione personale nei confronti delle piattaforme. Oggi non provo più “piacere” a scorrere le timeline. Le notizie – nonostante tutte le vicissitudini decennali che hanno visto Facebook e Google interfacciarsi con il sistema dei media tradizionali – continuo da anni a leggerle sul mio (accuratamente settato) feed reader. Il senso dei social non è nemmeno più “seguire e farti seguire” dai tuoi amici / contatti / affini, ma è sostanzialmente il personal branding. Un concetto che al momento mi pesa più che interessarmi.

Ma ci sono state, nel tempo, delle spie. Ho iniziato a riportare su Facebook le recensioni che scrivevo su Letterboxd (piccolo inciso: Letterboxd è l’unico social che uso costantemente e che trovo utile, anche se molto verticale – se siete lì seguiamoci), solo per il fatto che comunque ho una base di follower sui social di Meta che spiacerebbe bruciare. Ho iniziato poi a raccogliere queste recensioni ogni mese qui sul blog e sul progetto gemello di Medium, che in sostanza è un mirror di questo blog e devo ancora capire se abbia più senso migrare lì e basta oppure no (ma, di nuovo: è una piattaforma proprietaria con le sue regole).

Nel frattempo, molti creator “storici” (chiamiamoli così, sono i miei fellow genxers o in alcuni casi illuminati millennial) hanno iniziato a proporsi come curatori di newsletter. Un mezzo che mi interessa molto ma che non ho ancora mai praticato per due motivi: primo, non credo proprio di avere la costanza di scrivere uno zibaldone alla settimana e secondo, quando comincio a digitare non riesco a staccarmi dal formato longform.

Ad oggi, di newsletter, ne seguo molte. Seguo Polpette di Vanz e Koselig di Mafe (ma ricordo ancora maestrinipercaso.it), seguo Ellissi di Valesio Bassan e Zio di Vincenzo Marino, seguo Heavy Meta di Lorenzo Fantoni e Link Molto Belli di Pietro Minto, [mini]marketing di Gianluca Diegoli e Between the Lines di Ella Marciello, Fuori le serie di Nicola Cupperi e Servizio a domicilio di Giulia Blasi, Slow News di Alberto Puliafito e Scrolling Infinito di Andrea Girolami… e potrei continuare. Insomma, questo se vogliamo è il mio nuovo blogroll, tutto ordinatamente archiviato su Gmail.

Questa tendenza in atto da qualche anno mi fa sempre più pensare a… no, non a iniziare una newsletter o un podcast (non so, eh… mai dire mai). Ma quantomeno a riprendermi ciò che è mio, a tornare al piacere della parola scritta e del flusso di coscienza, ché i reel sono fighi e sono anche loro nelle mie corde, ma i post lunghi di più.

Ecco, se mi avete letto fino a qui, tutto questo pippone era probabilmente per dire a me stesso e a voi (25) lettori che preferisco tornare alla roba mia e che vorrei spolverare queste stanze disabitate per troppo tempo e tornare a scrivere un po’ qui. Non semplicemente riciclando qui contenuti che ho prodotto per altre piattaforme, ma piuttosto (se è il caso) spammando sulle piattaforme contenuti che produco qui. A casa mia. Per me.
E anche per voi
, perché non è mai vero che si scrive solo per sé stessi.

PARLIAMO DI CLUBHOUSE

Parliamo di Clubhouse? Ma certo, parliamone. Il nuovo social media (in realtà è in giro dal primo lockdown del 2020) è una curiosità, un oggetto strano. Per ora è un’app disponibile solo su iOS (su Android non si sa quando arriverà). Ha un’icona un po’ bizzarra e per nulla intuitiva, un nome che fa subito pensare a Mickey Mouse Clubhouse (lo so, deformazione da papà costretto a guardare le serie Disney) ma soprattutto funziona ad inviti. Cioè, se non c’è qualche anima buona che ti invita, non entri. Aspetti in coda all’ingresso.

E va bene, tutto è legittimo per creare l’hype: su Clubhouse, dalla fine del 2020 a oggi sono sbarcati i VIP, il popolo delle spunte blu, gli early adopter (ehi, ci sono anche io, anche se non mi sentirete spesso). Ho detto “sentirete”? Proprio così: Clubhouse è un social media basato esclusivamente sulla voce. Cioè, immaginatevi una di quelle belle riunioni (di lavoro o meno) su Teams, Zoom, Meet o Webex, ma senza la videocamera. Si sentono solo le voci delle persone. Fico, no? Vuol dire che posso partecipare a degli incontri su Clubhouse anche mentre sto facendo tutt’altro! Beh, sì. Ascoltare riunioni / conversazioni / panel su Clubhouse è un po’ come sentire la radio mentre si cucina, per dire.

Prima ancora di essere “ammesso” puoi scegliere uno username, poi se qualcuno ti invita puoi scegliere gli argomenti di tuo interesse, seguire i tuoi contatti e piombare a caso in chat di gruppo programmate da sconosciuti o magari dai tuoi amici. Nella timeline principale si vedono le conversazioni aperte, quelle programmate e si può – ovviamente – far partire una stanza pubblica o riservata per avviare una bella chiacchierata on line, o un panel, o una conferenza, o un delirio autoreferenziale interrotto dagli amici (si può alzare la mano e parlare come sulle app di videochat, anche se in qualunque stanza io sia entrato c’era sempre casino e gente che si parlava sopra come in un vecchio film di Woody Allen). Non si può commentare, non si può mettere “mi piace”: le notifiche servono solo a dirti che sta per cominciare una conversazione che ti potrebbe interessare, in base ai famosi temi che hai selezionato in partenza.

Se ne sentiva il bisogno? Non saprei dire. Nella timeline dei social media, dopo l’exploit di Snapchat nel 2011 e di TikTok nel 2017 non era più successo nulla di rilevante. Il mercato forse è troppo maturo, e per un decennio (fino al 2010) in cui ogni anno sono spuntate fuori una o più “sorprese” nel campo della comunicazione digitale, il decennio successivo non ha offerto molto su cui dibattere. Quindi, sì: Clubhouse è qualcosa di cui parlare. Ma è anche qualcosa attraverso cui parlare?

Faccio una riflessione: Clubhouse non poteva che nascere (e crescere: ci sono già investimenti per milioni di dollari e la base di utenti attivi ha raggiunto i 2 milioni) in tempi di pandemia. Tempi in cui per soddisfare il bisogno di socialità e confronto è stato necessario aumentare l’uso dei mezzi digitali. Su Clubhouse, quindi, la voce umana viene elevata a unico fattore di engagement (la parola che più piace a noi socialmediacosi). Bisogna stare in casa, molti lavori languono, è il momento buono per la formazione on line e quindi potenzialmente anche per i meeting o i cazzeggi su Clubhouse. Tanto più che nessuno noterà mai se sei in mutande.

Il punto è che Clubhouse ha due problemi, uno – come dire – intrinseco al mezzo e l’altro che sta diventando sempre più evidente man mano che gli utenti aumentano.
Il primo problema sta nel fatto che Clubhouse è necessariamente un medium sincrono (come il telefono, come le chat, come le live su Instagram, Twitch, YouTube o Facebook, come la radio o la televisione, come tutto ciò che ha un palinsesto da seguire). Questo, a mia opinione, è un punto a sfavore.

In due giorni su Clubhouse sono già stato invitato a una decina di riunioni, meeting, aperivoce (il neologismo è sempre in agguato), confronti su temi di lavoro, di piacere, di letteratura, di cinema. Ora, io capisco che siamo tutti creator e che in alcuni ambiti il lavoro langue. Ma io sinceramente non ho tempo e non ho modo di partecipare a questi incontri audio / chat in tempo reale così come non ho tempo e modo di seguire le live sui social, di guardare la televisione o di fare qualsiasi cosa che si svolga a un ora predefinita. Io guardo e ascolto tutto in differita. Di qualche ora quando va bene, di un paio di giorni quando va meno bene. Sono uno splendido cinquantenne il cui lavoro è casomai aumentato con la pandemia (lo stipendio no, ovviamente) che ha un bambino in casa da seguire e tutto ciò che faccio per me lo faccio dopo le 22. E attenzione: Clubhouse non permette di registrare le conversazioni avvenute in una stanza per un ascolto in differita. Per questo motivo, un social come Clubhouse mi lascia – se non indifferente – abbastanza scettico.

Il secondo problema sta cominciando poco a poco a emergere. Sì, va bene, su Clubhouse ci stanno le migliori menti delle generazioni più o meno giovani, puoi chiacchierare con Montemagno o con Camisani Calzolari, puoi infilarti in stanze in lingua inglese e sentire cosa dicono. Ma siamo sicuri che resteremo sempre così educati? Su Clubhouse ci sono stati fin da subito episodi di antisemitismo, razzismo, sessismo. A voce, ovviamente. Nulla viene archiviato su Clubhouse, ma è tranquillamente possibile registrare le conversazioni con applicazioni terze (l’equivalente dello screenshot). Dunque? Crediamo forse che i dementi nazisessisti che popolano gli altri social o che fanno zoombombing non arriveranno prestissimo anche qui? Arriveranno in massa, certo, e allora il problema della moderazione di Clubhouse esploderà, come sta esplodendo in tutti i social da un po’ di anni a questa parte e soprattutto negli ultimi due o tre mesi (peccato che Trump non si era iscritto anche qua, sarebbe stato interessante).

E va bene che sei un social nuovo e scintillante, ma proprio perché sei nato nel 2020 e hai determinate caratteristiche, semplicemente non puoi permetterti di non essere adamantino sulla moderazione delle conversazioni. Fin dall’inizio, lo abbiamo detto, Clubhouse ha avuto quest’aura elitaria per cui ci trovi sopra il rapper di tendenza, l’attore indie, e puoi starli a sentire mentre parlano – magari di argomenti controversi, e magari presentando un punto di vista controverso. Possiamo fare i campioni della libertà di espressione quanto vogliamo, ma siamo sicuri che i termini di servizio di Clubhouse siano meglio strutturati di quelli di Facebook o Twitter? Siamo sicuri che sia semplice ed efficace bloccare un certo tipo di contenuti (audio in questo caso)? O non sarà tutto lasciato alla discrezione dei moderatori di stanza? Ad oggi, nonostante abbia cercato in diversi anfratti dell’app, non esiste alcun documento con i Terms of Service (edit: hanno fatto un post sul loro blog, mah).

Cosa succederà nell’immediato futuro? Probabilmente Clubhouse permetterà ai creator più attivi di monetizzare il loro lavoro tramite abbonamenti a pagamento (modello Twitch, Patreon, etc). Ma attenzione a Twitter, che sta muovendo anche lui i primi passi nemmeno troppo incerti nel magico mondo della creator economy, con l’acquisto di Revue (piattaforma per newsletter tipo Substack) e il prossimo lancio di Spaces, un ambiente di chat vocale proprio come Clubhouse, ma distribuito ad una mole di utenti certamente più ampia e varia e – almeno a parole – con qualche funzionalità in più.

Quantomeno, possiamo dire che Clubhouse si sta candidando a diventare la casa delle più colossali figure di merda del 2021 – perché è inevitabile che ci saranno scandali e “intercettazioni”.

È la natura umana, e probabilmente Clubhouse non ci può fare proprio nulla.

ULTIMATE LIST PANDEMIC EDITION

Fan delle liste di fine anno? Perfetto. Detrattore delle liste di fine anno? Fottesega, le liste arrivano. Le liste travolgono. Le liste lasciano macerie.

Due parole di spiegazione sull’immagine che accompagna questo lungo post (mettiti comodo, ne avrai per un po’). Si tratta di un dettaglio del Codex Mexicanus, un agile volumetto che un gruppo di intellettuali aztechi decise di compilare qualche decennio dopo l’invasione spagnola, per raccogliere tutte le informazioni in loro possesso su questi strani “cristiani” e per testimoniare la storia e la civiltà azteca prima del collasso dovuto (anche) alle epidemie di malattie sconosciute. Non so, stavo pensando a come l’arte ci può in qualche modo salvare dalla pandemia e mi è venuto fuori questo.
Appropriato, no?
Andiamo a incominciare.

BEST MOVIES

JOJO RABBIT
Il primo film che ho visto quest’anno, resta il più amato. La satira toccante di Taika Waititi sul nazismo, supportata da attori (adulti e bambini) efficaci e ben diretti.

SWEET THING
Uno degli ultimi film visti quest’anno, capolavoro indie cassavetesiano (se si può usare questo aggettivo) di Alexandre Rockwell. Anche qui attori bambini molto in palla.

I’M THINKING OF ENDING THINGS
Charlie Kaufman ci ha regalato questo incubo surreale e labirintico su una storia d’amore tutta “mentale”, uno dei migliori film dell’anno.

MANK
David Fincher propone una riflessione sul cinema degli anni ’30 e ’40 mimetizzandosi completamente in quel mondo (un backstage romanzato di Quarto Potere che dice molto sulla macchina cinema).

WOLFWALKERS
Capolavoro arrivato a fine anno, il film di Tomm Moore prosegue il discorso sulle leggende irlandesi avviato con The Secret of Kells e ci regala una storia avvincente e profonda su due bambine-lupo.

A MACHINE TO LIVE IN
Il miglior documentario visto quest’anno, sulla città di Brasilia: si comporta come un film di fantascienza filosofico e ha delle punte di surrealismo estremo.

FAVOLACCE
Il miglior film italiano dell’anno, sognante, misterioso, dolorosissimo. Il sadismo, la passività, la disperazione. Bambini annichiliti. Fratelli D’Innocenzo bravissimi.

THE COLOR OUT OF SPACE
Nicholas Cage sbrocca nel nuovo film (dopo 12 anni!) di Richard Stanley tratto da Lovecraft (e ho detto tutto). Ah, no, gli alpaca!

WEATHERING WITH YOU
Il nuovo anime di Makoto Shinkai è un noir/fantastico/quotidiano che convince pur essendo meno ruffiano e “popolare” di Your Name.

PENINSULA
Quasi un sequel di Train to Busan, uno dei film asiatici più apprezzati quest’anno. Action / Horror con gli zombie coreani che – sia sa – sono velocissimi e snodatissimi.

FRIED BARRY
La rivelazione trash del Torino Film Festival, un trip psichedelico e disgustoso di un’ora e mezza su un alieno che prende possesso del corpo di un eroinomane. Imperdibile.

MOVING ON
Sempre dal TFF, un delicato film coreano che racconta storie familiari di lutti e quotidianità con un piglio che richiama alla mente Ozu.

DA 5 BLOODS
L’ipertrofico film di Spike Lee sui 5 G.I. di colore che vanno a ricercare un tesoro nascosto in Vietnam. Avventuroso, politico, è l’ultima interpretazione del compianto Chadwick Boseman.

CALAMITY
Animazione francese al suo top per la storia della bambina Martha Jane Cannary, da adulta conosciuta come Calamity Jane. Empowerment al femminile, vecchio west e ottima colonna sonora.

HAMILTON
L’outsider. Film di riprese in teatro che aggiunge una dimensione cinetica alla rappresentazione già fuori scala del più famoso musical degli ultimi anni. Coinvolgente.

BEST TV SERIES

THE MIDNIGHT GOSPEL
La serie animata da Pendleton Ward basata sul podcast di Duncan Trussell. Psichedelia, filosofia, chiacchiere e illuminazioni zen.

LOVECRAFT COUNTRY
Una delle serie più interessanti dell’anno, che coniuga orrore lovecraftiano e denuncia sociale. Non a caso prodotta da Jordan Peele e JJ Abrams

THE MANDALORIAN S2
Le avventure di Mando continuano ad essere la cosa più bella uscita dall’universo narrativo di Star Wars in almeno un decennio. Semplicità, coerenza, spade laser.

THE QUEEN’S GAMBIT
Miniserie che ha tutto al suo posto per piacere a tutti. Buona regia, sceneggiatura, recitazione, forse un po’ troppo leccata, ma interessante.

THE PROMISED NEVERLAND
La serie anime che mi ha colpito di più nel 2020, attendo con ansia il seguito. Bambini, orfanotrofio, demoni che si nutrono di bambini, istitutrici malefiche, fughe ed evasioni. Meraviglioso.

THE OUTSIDER
Da Stephen King, la serie HBO come da tradizione cupa e livida, molto azzeccata anche se ogni volta che si sente dire “El Cuco” scappa un po’ da ridere.

STEVEN UNIVERSE FUTURE
L’epilogo della saga di Rebecca Sugar esplora cosa succede all’eroe dopo il trionfo. Non sono tutte rose e fiori, e la miniserie animata esplora disagio psichico, accettazione di sé e traumi infantili.

TIGER KING
La serie documentaria dell’anno. Come sia possibile appassionarmi a personaggi così resta tuttora un mistero per me. Eppure da Tiger King si riesce a capire molto dell’America.

ON MY BLOCK S3
Serie molto sottostimata di Netflix che unisce teen drama e comedy, ambientata nei sobborghi di L.A. Dovrebbe essere la stagione conclusiva, purtroppo (finale un po’ tirato via): speravo in una quarta.

PEN15 S2
Sempre più cringe le avventure di Maya e Anna, le due tredicenni (interpretate però dai loro alter ego trentenni) in cerca di un posto nella durissima vita della junior high. Su Hulu.

COBRA KAI S2
Slowburner prima su YouTube poi su Netflix: Cobra Kai è tutto ciò che un cinquantenne di oggi può volere da una serie tv che riprende i suoi anni ’80 e li ripropone in un contesto “da cinquantenni”. Mazzate e nostalgia, cosa volere di più?

NORMAL PEOPLE
La serie Hulu tratta dal romanzo culto di Sally Rooney è spaccacuore tanto quanto il libro: la storia tra Marianne e Connell dalla high school al Trinity College è una lente di ingrandimento sulle relazioni sentimentali che non si vedeva da tempo.

SEX EDUCATION S2
Tra le serie comedy viste quest’anno certamente una delle migliori, grazie anche all’alchimia tra i personaggi interpretati da Asa Butterfield e Gillian Anderson. Il figlio nerd della sessuologa che fa da counselor ai compagni di scuola è sempre più nei casini…

LOCKE & KEY
Simpatico fantasy horror per famiglie che ha contrassegnato l’inizio del mio 2020, quando ancora non si parlava di lockdown.

BEST ALBUMS

FETCH THE BOLT CUTTERS
Fiona Apple in modalità “uragano creativo” durante il lockdown ha prodotto certamente l’album dell’anno e uno dei suoi più memorabili.

A HERO’S DEATH
La rinascita del post punk (dopo un album d’esordio già folgorante) a cura degli irlandesi Fontaines D.C. Epico.

MISS COLOMBIA
Electronica e Cumbia: Lido Pimienta sa come mescolarle e offrirci una delle migliori sorprese del 2020.

SET MY HEART ON FIRE IMMEDIATELY
Perfume Genius al suo quinto album si riconferma un degno erede di quel modo di scrivere canzoni che è anche di Antony / Anohni.

ULTRA MONO
Sempre post punk, sempre chitarroni, sempre più fighi. Gli Idles sono quelli che quest’anno mi hanno dato parecchia carica.

THE ASCENSION
Un Sufjan Stevens al suo meglio, che dall’electro ricca di glitch sonori riesce a tirar fuori il suo album più pop.

FUTURE NOSTALGIA
Parlando di pop, quest’anno nulla eguaglia il lavoro di Dua Lipa, che partendo dalle sue influenze più evidenti (Madonna, Daft Punk) e con l’aiuto di una produzione ineccepibile sforna una serie di canzoni che rimarranno nelle orecchie a lungo…

MISS ANTHROPOCENE
Grimes confeziona un quarto album con risultati altalenanti ma molto interessante nella commistione di pop, electro, ambient e dance-rock. A volte un po’ pesante, ma godibile.

3.15.20
L’album del lockdown per Childish Gambino, uscito proprio con la prima ondata del Covid, è un caleidoscopio di ritmi e beat da capogiro. In particolare “algoritmi” 🙂

1995
L’album “perduto” di Kruder e Dorfmeister è costituito da tracce realizzate appunto nel 1995. Eppure, suona come una cosa di oggi, ed è uno dei dischi più belli dell’anno.

AFTER HOURS
The Weeknd esce con un concept album che è l’epitome del pop / urban / elettronico del decennio, immerso in luci da Las Vegas e tematiche pulp.

FOLKLORE
Taylor Swift durante il lockdown ha pubblicato due album (questo è il primo) che in qualche modo ribaltano la percezione di diva pop che negli ultimi anni l’ha accompagnata. Songwriting pulito, atmosfere rarefatte, una sorpresa.

THE SLOW RUSH
I Tame Impala proseguono nel loro pastiche psichedelico da camera, con un album meno interessante dei precedenti ma sciolto, fluente, soft. Comunque molto godibile.

BIR TAWIL
Lo so, avrei dovuto mettere Bloody Vinyl 3 come exploit italiano dell’anno, ma la più recente fatica di Dargen D’Amico (uscita proprio a dicembre) mi riconcilia con i beat nostrani e mi fa riscoprire un po’ di spirito hip hop e di STILE a palla.

MAP OF THE SOUL: 7
Il paradigma del K-pop ormai assurto a fenomeno mondiale nel concept album dei coreani BTS, ormai più famosi di Gesù Cristo. Un prodotto confezionato ad arte, un po’ ipertrofico ma interessante.

BEST BOOKS

IL BUIO OLTRE LA SIEPE
Il classico di Harper Lee. Non lo avevo mai letto, ne ho trovato una prima edizione italiana su una bancarella, e me ne sono innamorato. Completa la visione del film.

MANUALE PER RAGAZZE RIVOLUZIONARIE
Il saggio “vecchio” (nel senso che adesso ce n’è uno nuovo) di Giulia Blasi sul patriarcato e come combatterlo. Un manuale che dovrebbero leggere tutti indipendentemente dal genere e dall’età.

VIVERE MILLE VITE
Saggio autobiografico/filosofico di Lorenzo Fantoni a tema videogames. Leggibile a sprazzi o tutto d’un fiato, comunque affascinante – anche per chi non è molto addentro al tema.

ANDRÀ TUTTO BENE
La raccolta delle vignette su Instagram di Leo Ortolani legate alla pandemia, al lockdown è fondamentale per capire l’Italia del 2020.

Andrà tutto bene di [Leo Ortolani]

SCHELETRI
Chevvelodicoaffà, l’ultimo di Zerocalcare è una spanna sopra i precedenti. Sarà per il filtro “thriller” che Zero ha applicato al suo consueto autobiografismo. Più sangue, più droga, più violenza, ma sempre nelle corde del fumettista di Rebibbia.

Scheletri di [Zerocalcare]

NEL CONTAGIO
Il libello (che bella parola) di Paolo Giordano è il degno compagno (serio) delle vignette di Ortolani. Molto lucido.

SVUOTA IL CARRELLO 
Il saggio di Gianluca Diegoli che fa capire il marketing anche alle capre (come me) e funziona sia da agile manuale per i marketer in erba, sia da strumento di difesa per il consumatore consapevole.

A PROPOSITO DI NIENTE
L’autobiografia di Woody Allen. Che insomma, a me è piaciuta.

MERCEDES
Il graphic novel di Daniel Cuello che ha vinto il premio Micheluzzi legge la società odierna attraverso la lente di un personaggio “odioso”, una donna di potere caduta in disgrazia.

Mercedes di [Daniel Cuello]

OPERETTE MORALI
Il classico che non ti aspetti, l’unico libro che vale veramente la pena leggere in questo 2020. Leopardi is the way.

BEST OF WEB / SOCIAL / NEWSLETTER

PUBLIC DOMAIN REVIEW
La newsletter sorprendente del 2020, ricevo via mail immagini e grafiche sensazionali di due o tre secoli fa.
https://publicdomainreview.org

CORONAVIRUS DAL POST
La newsletter del Post ha segnato il 2020 con aggiornamenti puntuali, corretti, esplicativi e mai ansiogeni sulla pandemia.
https://ilpost.us8.list-manage.com/subscribe

DECADE 77-87
Una delle pagine Facebook che amo di più, ogni giorno propone clip commentati di canzoni post punk / new wave / goth / electro / industrial / synthpop scelte in quel range temporale.
https://www.facebook.com/decadeclub77

POLPETTE
La newsletter del Vanz non è una novità del 2020 ma mi piace citarla perché è diventata un appuntamento molto atteso (ambiente, clima, Asia, nerdate varie).
https://vanz.substack.com

DRUSILLA FOER
I video di Drusilla su Facebook Watch sono una delle cose che ha reso più leggero il 2020.
https://www.facebook.com/drusilla.foer

VENTENNI PAPERONI
Per me è diventato in pochi giorni dal lancio un sito di riferimento: si parte da Disney e dai trivia legati a fumetti e animazione per leggere il mondo contemporaneo.
https://www.ventennipaperoni.com

BE UNSOCIAL
Il gruppo / pagina / ora anche newsletter dell’antropologa digitale Alice Avallone offre sempre spunti interessanti per analizzare il sistema dei media digitali.
https://www.facebook.com/beunsocial.it

PRACTICAL EFFECTS GROUP
Uno dei rarissimi gruppi Facebook cui mi sono iscritto, e uno dei migliori. Ci sono sempre dei backstage dedicati agli effetti prostetici da urlo.
https://www.facebook.com/groups/165380038268

GOLDEN AGE OF ILLUSTRATION ARCHIVE
Il secondo gruppo Facebook imprescindibile cui mi sono iscritto quest’anno, il nome dice più o meno tutto.
https://www.facebook.com/groups/423796811729266

151EG
Seguo poco gli youtuber in generale, ma seguo moltissimo 151EG. Un produttore seriale di video a tema animazione dalla cultura sterminata e dall’approccio molto onesto.
https://www.youtube.com/user/151eg

C’È POSTA PER CASTO
Immanuel Casto è un personaggio che seguo da anni, ma nel 2020 ha lanciato questo format di posta del cuore (un po’ stile Dan Savage su Internazionale) che spacca.
https://www.twitch.tv/immanuel__casto

KOSELIG
Altra newsletter che seguo da anni ma mi piace ricordare perché nel 2020 è diventata più agile e più necessaria, Koselig di Mafe De Baggis (comunicazione, digital, libri, acquisti).
https://mafedebaggis.us1.list-manage.com/subscribe

HELLA NETWORK
Come dice il nome, un network di professionist* della comunicazione dedit* a smontare l’intreccio tra comunicazione e patriarcato. Dalla loro pagina Facebook, diversi spunti interessanti per il lavoro del giornalista / copywriter.
https://www.facebook.com/HellaNetwork

EXTRACOLAS
La newsletter di Emiliano Colasanti. Lui di musica ci capisce sul serio. E anche quando racconta i cazzi suoi è illuminante.
https://extracolas.substack.com

ARCHIVIO STORICO LA STAMPA
Uno dei miei siti di riferimento, sembrava dovesse sparire a fine 2020 ma è di pochi giorni fa la notizia del salvataggio. Siamo tutti molto grati.
http://www.archiviolastampa.it

Poi ci sarebbero mille altri libri, dischi, film, serie tv, siti, newsletter e pagine da citare che magari non mi sono venuti in mente, o che non ho fatto in tempo a vedere, o che magari sono usciti dopo il 15 dicembre e quindi finiranno d’ufficio nel listone 2021. Intanto però direi che di roba da recuperare ne avete, sempre che vi fidiate del vostro amichevole blogger di quartiere.