L’ESORCISTA: IL MISCREDENTE

Ehm, dunque. Sono qui a parlarvi di Exorcist: The Believer di David Gordon Green ma è, come dire… imbarazzante.

Cominciamo col dire che non fa paura e non c’è tensione. Proseguiamo dicendo che volendo agganciarsi come sequel direttamente al primo film, capolavoro di Friedkin, ragiona secondo due direttrici.

La prima è quella del “copiamo il copiabile” ma in formato compitino (lunghe sequenze apparentemente intense e metaforiche che non vogliono dire un cazzo, angolazioni alla Friedkin in momenti ingiustificati, frame subliminali messi lì per dirti li faceva William, mo’ li faccio anche io). E sappiamo tutti cosa pensava Friedkin di questo progetto prima di morire, pace all’anima sua.

La seconda è quella tipica del sequel di un franchise, e cioè: raddoppiamo tutto. C’era la bambina indemoniata? Ne mettiamo due (una bianca e una di colore, per la diversity). C’era un prete che praticava l’esorcismo? Mettiamo una intera comunità con rappresentanti di religioni diverse tra loro tra cui una ex suora (diversity).

Produce Blumhouse, ma non è una garanzia. Effetti speciali troppo “digital” e assolutamente non spaventosi come quelli del 1973. Una grande delusione, anche se ci sono ben due cameo storici, uno dei quali arriva solo nell’inquadratura finale ma lascio a voi scoprirlo – essenzialmente fan service, come il frammento di Tubular Bells che parte sui titoli.

LO SBLOCCO DELLO SCRITTORE

Ciao, tutto bene? Io abbastanza.
Non ci leggiamo da inizio giugno, precisamente da tre mesi.
Cos’è successo? Mi sono bloccato.

Questa estate è stata pesante, sotto più di un punto di vista. Evidentemente il contraccolpo della morte di Madre è arrivato, e con esso la necessità di svuotare la casa dei miei genitori, cosa che ho fatto in vari step tra giugno e luglio fino ad arrivare prima delle agognate vacanze al capitolo sgombero/distruzione mobilio/centro di raccolta rifiuti ingombranti.

Poi appunto sono stato un po’ in ferie, e talmente il mese di giugno mi ha prosciugato le energie che a fine luglio e inizio agosto, complice anche la calura spropositata, ho “vegetato” tra il mare e la collina, tra l’Abruzzo e le Marche, senza scrivere nemmeno una riga ma leggendo moltissimo.

Poi ho ricominciato a lavorare e ad avere problemi di salute (un grande classico delle vacanze o dell’immediato periodo post-vacanze) e intanto è morta Michela Murgia. Poi sono successe delle cose sgradevoli e forse – dico forse – mi sono sbloccato.

A fine agosto ho lanciato la mia prima newsletter su Substack, si chiama Patrilineare.
La meditavo da qualche anno (perché io sono un po’ bradipo nei miei progetti), ma mi è sembrato che farla uscire adesso fosse la cosa migliore. Peraltro non nasceva nemmeno come una newsletter, non so nemmeno io come nasceva. Comunque è tutta roba di gender, di femminismo, di patriarcato, roba che secondo me (e a quanto pare anche secondo i 130 iscritti in una settimana) serve.

Ad ogni modo, qui sotto vi lascio il testo del “numero zero”, poi se volete vi iscrivete direttamente. Per adesso, un bacio.

LE COLPE DEI PADRI
Questo è un numero zero. Patrilineare deve ancora prendere forma e sinceramente devo ancora capire dove voglio andare a parare…
…detto ciò, forse è meglio che per prima cosa mi presenti.
Mi chiamo Pietro Izzo, ho superato i 50 anni e sono un maschio etero cis.
Più o meno, dai: lo sappiamo che queste etichette non sono mai così nette.
Soprattutto, ai fini del contesto in cui ci troviamo, sono un padre.
Ovviamente non è tutto. Sono anche un professionista della comunicazione con una trentina d’anni di esperienza nel digitale (fa subito boomer dire una cosa del genere, ma tant’è). Di spazi per comunicare le mie cose, volendo, ne ho parecchi. Ho cominciato venti anni fa con un blog che esiste ancora ma che sinceramente ha un po’ fatto il suo tempo, ho proseguito con “n” canali social dove da qualche mese non mi manifesto più per sopraggiunta nausea.
Ha senso buttarsi in una newsletter? Me lo sono chiesto molte volte negli ultimi tre anni (sì, sono un po’ lento quando si tratta di portare avanti i miei progetti segreti). Da diverso tempo ormai, il mio interesse si è focalizzato sulle questioni di genere e su tutto quanto ruota intorno al tema, dal linguaggio inclusivo alla violenza sulle donne, dagli studi sul genere maschile all’analisi dei femminismi e in particolare del femminismo intersezionale.
Come padre di figlio maschio ormai decenne, sento moltissimo la responsabilità (non la “colpa”, quello era solo un modo per produrre un titolo ad effetto) che come padri abbiamo, tutti, nel trasmettere alle nuove generazioni valori ed esempi diversi da quelli che sono stati trasmessi a noi. A me per primo, che ho dovuto compiere 50 anni prima di riconoscere e poter chiamare per nome i lacci e le catene che il patriarcato mi impone.
Negli ultimi tre anni ho scritto, cestinato, riscritto, lasciato riposare, rimodellato un po’ di cose. Non sapevo dove metterle e ho pensato di raccoglierle qua. A seconda del mood del momento.
Perché ora? C’è l’imbarazzo della scelta, in questa estate infernale. Gli ultimi casi di cui ho letto, con grandissimo disagio: la sentenza di assoluzione arrivata dopo cinque anni per due stupratori di Firenze (“non avevano capito che il consenso era stato negato”) e naturalmente il caso aberrante dei sette stupratori di Palermo (quello dei “cento cani sopra una gatta”).
Una persona che seguo e stimo ha scritto riguardo alle “colpe delle madri”, invocate dalla stampa e dall’opinione pubblica in particolare sul caso di Palermo. E la domanda, molto chiara, era: “I padri, dove sono?”.
Sono qui. Siamo qui, se volete.
Se vi iscrivete, io proverò a raccontarvi cose, cose che vivo, cose che leggo e che vedo, cose che mi toccano (o come si dice oggi “mi triggerano”) come padre, come maschio, come femminista. Se ci riuscirò, se renderò interessanti questi temi per altri maschi, mi riterrò soddisfatto.
Ah, un’ultima cosa. Faccio un ringraziamento preventivo ad una serie di persone che in molti casi non conosco de visu ma che mi hanno influenzato molto nei famosi ultimi tre anni: Lorenzo Gasparrini, Alessandro Giammei, Ella Marciello, Giulia Blasi, Flavia Brevi, Lorenzo Fantoni, Mafe De Baggis, Vincenzo Marino, Valerio Bassan, Manolo Zocco, Andrea Barbera, Gabe Silvan, Daniela Losini.
E naturalmente, Michela Murgia.

PERCHÉ IL MET GALA?

Come spesso accade quando posto qualcosa sulla moda, anche ieri c’è stato chi mi ha chiesto “perché la moda” (sottintendendo ovviamente “…e non il calcio“, o uno sport qualsiasi, per essere democratici). In effetti, perché la moda? Ovvero, perché un maschio etero e cisgender di mezza età (quando dico così mi viene sempre in mente la “vecchia checca raffreddata” di Robert Preston in Victor Victoria) dovrebbe seguire qualcosa come il Met Gala?

Il sottotesto chiarissimo è che il maschio si deve interessare solo allo sport (in quanto pratica agonistica in cui un singolo o una squadra prevalgono e danno dimostrazione di forza/abilità), mentre interessarsi alla moda (cioè ad una forma di espressione artistica che più di ogni altra è soprattutto “espressione di genere”) ha una forte connotazione “da femmine”.

Ora. Siamo nel 2023 e a me pare persino fuoriluogo ricordare che l’espressione di genere ognuno se la vive come gli/le pare, che l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono due cose ben diverse tra loro e che comunque ognuna delle due non è un interruttore off/on tipo maschio/femmina, etero/omo ma è piuttosto un dimmer (come quello delle luci led, vedete che riferimenti maschi che c’ho) che passa attraverso una regolazione piuttosto fine in uno spettro che va da “l’omm ha da puzza’” a “esco fuori conciato come Lil Nas X” (all’interno del quale ci stanno tante posizioni come “mi metto lo smalto e mi trucco anche se ho la barba perché sto bene così e non rompetemi il ca**o, grazie“).

Un dimmer che peraltro non ha una sua regolazione fissa nel tempo, perché in diverse fasi della vita (o della giornata, se è per questo) un maschio può oscillare tranquillamente in diverse posizioni sugli assi cartesiani del genere e dell’orientamento.

Detto ciò, lasciatemi approfondire. Secondo l’interpretazione corrente (diciamola come sta: secondo il patriarcato) la moda vista come strumento di seduzione è appannaggio femminile perché… perché è la donna che “deve sedurre”. La donna esiste per lo sguardo maschile e deve impegnarsi in una continua corsa alla seduzione del maschio che non fa nulla se non “attivare” il suo desiderio e porsi come destinatario “passivo” della seduzione.

Ma usciamo per un momento dalla gabbia mentale che il patriarcato impone al maschio. Perché spero siamo tutti d’accordo che il patriarcato impone “gabbie” tanto al genere femminile quanto a quello maschile, costretto a vivere in una parodia di sé stesso nella costante e insensata celebrazione del proprio privilegio. Perché il maschio non dovrebbe usare la seduzione? Il desiderio femminile esiste, possiamo autorappresentarci come un soggetto attivo destinato allo sguardo femminile. Perché no? Non siamo “costretti” a interpretare il ruolo che la società vuole che interpretiamo.

Questo vuol dire essere queer? Forse. Taika Waititi e Pedro Pascal sono gay? Non lo so, e credo che non ci dovrebbe interessare (Lil Nas X sì, ma quella è un’altra storia e un altra modalità espressiva che impone una rappresentazione, una affermazione di “presenza” agli occhi del mondo).

Non è importante l’orientamento sessuale o l’identità di genere nel momento in cui voglio usare l’espressione di genere in modo fuori dagli schemi. Questo vuol dire non farsi inquadrare dal sistema patriarcale che detta la legge non scritta dell’uomo che deve vestirsi solo di nero, blu e marrone (armocromia, anyone?), vuol dire – anche se in minima parte e su un tema considerato frivolo – combattere il patriarcato dall’interno e ricercare una vera parità di genere. OK, magari non sarà il salario, ma è comunque una parità di “sguardi desideranti”.

Non importa che questi outfit siano considerati poi – anche da molte donne – inguardabili. Il punto è ribaltare la prospettiva e riappropriarsi del corpo (e dei vestiti) come mezzo di seduzione (di donne o di uomini, non importa). Oppure possiamo decidere di andare decisamente oltre l’umano, e allora lì non ci resta che Jared Leto.