PICCOLI GAMERS CRESCONO

È un po’ di mesi che non vi cago il ca vi delizio con qualche perla di saggezza uscita dalle labbra della Creatura. In effetti non v’è dubbio alcuno che egli è – quando decide di parlare e di non limitarsi ad esprimersi a gesti per risparmiare le sue preziose energie vitali – un sorprendente agglomerato di idee da seienne mescolate con profondissime e nietschz niesztz niecch nietzschianissime riflessioni sulla vita, l’universo e tutto quanto.

Il grosso problema è che a sei anni, la Creatura, tendenzialmente apre bocca solo per farti incazzare. Ma furiosamente, eh. In genere perché pretende di passare il 99,9% del tempo di veglia attaccato alternativamente a un device a sua scelta, che ultimamente è – di preferenza – un vecchio cellulare che ha trovato in casa e di cui si è impossessato (fortunatamente senza SIM, con YouTube Kids impostato in modo da non indicizzare i video degli youtuber più molesti e il blocco dello scaricamento di App).

Proprio il blocco dello scaricamento me lo sono ricordato in ritardo, dopo aver notato con un mezzo infarto che aveva scaricato due o tre giochi (“Signore iddio, aiuto, qualcuno mi ha hackerato il cellulare, vedo apparire app da me non scaricate”… e poi era lui che ha il mio stesso account, vabbè). Uno in particolare di questi giochi ha sollevato il mio disappunto e mi ha fatto andare in quella modalità che io odio, quella del genitoresignoramiadoveandremoafinire™. Però il tema un po’ mi è caro. Ed ecco come si è svolto il confronto. (Che per ora ha vinto lui). (Ovviamente).

– Amo, ti devo parlare.
– Mm.
– Ti prego, posa sto cellulare.
– Mm. Aspetta.
– HO. DETTO. POSA. STO. CAZZO. DI…
– Va bene, va bene, dovevo collezionare le monete per prendere il lanciafiamme… uffa.
– Ecco, tesoro, amore, proprio di quello ti volevo parlare.
– Cosa?
– Il tuo giochino.
– Quale?
– Quello che stavi giocando.
– Dici questo?
– POSALO… Non era un invito a riprenderlo.
– Uffa ma che c’è?!?!
– Te lo dico subito. Quel gioco lo cancelliamo. Non è un gioco adatto a bambini della tua età. Mi spiace non averti bloccato lo scaricamento delle app prima, è colpa mia, ma ho visto come funziona e non va bene per niente.
– Ma perchéééééééééééééééééééé…?!?
– Ho appena detto “non è un gioco adatto a bambini della tua età”.
– Ma perchééééééééééééé… Ce l’ha anche Isabellaaaaaaaahhhhhh…!!!
– Guarda amore, il fatto che ce l’abbia Isabella a me non interessa, Isabella può fare quel che vuole e se la vede con i suoi, tu no.
– AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
– Tesoro…
– AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
– Amore…
– AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
– LA PIANTI DI URLARE, CRISTO!
– …
– Oh. Allora. Lascia che ti spieghi. Si tratta di un gioco in cui fai punti torturando un personaggio.
– Ma è un PUPAZZO VOODOO.
– Non importa. Tu lo martelli, lo affetti, lo schiacci…
– Ma certo! Poi se mi facevi prendere le monete, lo bruciavo col lanciafiamme! Poi gli posso lanciare contro le api che lo pungono, i piraña che lo spolpano… è FIGHISSIMO. Guarda ti faccio ved…
– POSA. IL. CELLULARE.
– Ma non è giusto!
– Ora ti spiego cosa è giusto. Giusto è giocare a Super Mario o a qualunque altro videogame tu voglia giocare dove ci sono delle liete missioni da compiere, personaggini malvagi che ti tolgono i punti vita e che tu elimini con un grazioso saltello o con una palla di fuoco ben calibrata e che prevedano un congruo equilibrio tra azioni e reazioni. Non giusto è torturare un personaggio sullo schermo finché non muore e collezionare più o meno monete a seconda di quanto è durata la sua agonia, monete che ti servono per comprare altre armi per torturarlo in una continua spirale di violenza e sadismo, ma cosa sei, il PD?
– Ma papà… a me piace!
– Ma giustappunto, cosa sei, un mostro? Ho forse io generato un mostro che brama uccidere personaggi indifesi? Non ti ho forse io abbeverato alla fonte di Legend of Zelda? Basta, quel gioco va cancellato.
– Ma no papà, ascolta…
– No, ascolta tu: io non avrei problemi a farti giocare con giochi più “per grandi”, a patto che la violenza sia giustificata da un’oggettiva situazione di pericolo. Mi spiego. Immagina di giocare a un videogame dove esplori delle grotte in penombra, e dietro ogni angolo potrebbe essere appostato un alieno con un fucile al plasma pronto a farti saltare la testa. In questo caso io sarei lì, dietro di te a urlarti “UCCIDIQUELBASTARDOALIENO” con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno. Ma così non è etico. Non hai nessun antagonista, solo mutilazioni e soldi, violenza e soldi.
– Adesso posso parlare?
– Sì.
– Sai quando c’è qualcuno che ti fa arrabbiare, no?
– ECCOME, SE LO SO.
– Ecco, a me tanti bambini e tanti grandi mi fanno arrabbiare, tutti i giorni. Ma io mica li accoltello, o li picchio, o faccio queste cose nella vita vera.
– Mmmmmsì…? Dove vuoi arrivare?
– Questo gioco mi serve! Scarica la mia aggressività (ve lo giuro, ha detto proprio così, ndr). Mi fanno arrabbiare, vengo a casa, maltratto un po’ il pupazzetto voodoo e mi rilasso.
– …
– Non me lo cancellare, ti prego, ho tantissime armi, le uso solo nel gioco, per far andare via la rabbia… non vuoi che io sia sempre arrabbiato come te, no?
– …
– Anzi, forse dovresti giocarci anche tu!!!
– Vabbè, per ora va bene così, basta che ne parliamo. Comunque per sfogare la mia rabbia ci va qualcosa di un tantino più elaborato di un pupazzo voodoo.

PS: il richiamo a Chucky, la bambola assassina di Child’s Play, è essenzialmente messo lì ad arte perché la Creatura, quando vede un bambino dall’aria un po’ imbronciata (o meglio, diciamo, un bambino che non vuole giocare con lui) lo definisce “Chucky la bambola assassina”. Giuro che non gli ho mai fatto vedere il film, deve aver visto una foto da qualche parte su un mio libro. Tutto ciò ha dell’inquietante. Signora mia, le sfide dei genitori di oggi…

LA SCUOLA DELL’ASSENZA

L’altro giorno l’ennesimo post che ho letto sulla situazione della scuola (era un post di Luca De Biase, come sempre riflessivo e stimolante) mi ha tirato fuori un commento un po’ lungo, così lungo che poteva essere un post a sé stante sulle meraviglie della didattica a distanza e sul miraggio di una scuola in presenza a settembre. E allora, eccolo qua.

Premetto che io ho un figlio che quest’anno ha fatto (si fa per dire) la prima elementare, quindi le mie riflessioni sono per forza di cose molto legate all’esperienza personale e familiare. Lo dico perché non ho alcuna pretesa di essere più di tanto universale nel mio ragionamento. Con tutta probabilità ogni scuola, proprio come ogni bambino, fa storia a sé.

E quindi, cosa è successo? Lo sappiamo tutti, a fine febbraio scatta l’emergenza Covid-19, così, da un giorno all’altro. La risposta della scuola, dopo qualche giorno di sconcerto, è la famosa didattica a distanza. Cosa vuol dire, nella pratica? La prima settimana passa attraverso la comunicazione di compiti su un gruppo WhatsApp di classe. Poi i docenti si confrontano tra loro e la scuola decide di adottare un sistema di DAD univoco, scegliendo WeSchool. Hanno evidentemente vagliato sia Google Classroom che altri sistemi, per concludere che – per l’età dei bambini e la maneggevolezza dello strumento – WeSchool era la soluzione più adatta.

WeSchool si configura come una specie di Gruppo Facebook di classe, con un Wall dove tutti possono postare, una Board dove gli insegnanti possono inserire lezioni, video, dispense, esercizi in forma di gioco (generalmente presi da Scratch), un ambiente di Test dove inserire delle verifiche con valutazione integrata e una Live Classroom basata su Jitsi. Ben presto l’ambiente viene “rodato”: non si sa per quanto tempo dovremo utilizzarlo (al momento sono 11 settimane), ma le cose almeno tecnicamente procedono bene, soprattutto a confronto con altre scuole in cui – veniamo a sapere – gli insegnanti si rifiutano di ricorrere alla DAD, probabilmente più che altro per scarsa competenza loro.

Perché vedete, il fatto è che nelle prime settimane di lockdown la maggior parte dei genitori (salvo uno sparuto gruppo di pessimisti cosmici di cui mi pregio di far parte) premeva e sbuffava e fremeva di malcontento perché “non si fa abbastanza DAD”, ossia non si fanno abbastanza videolezioni, i docenti non sono abbastanza preparati, sono “vecchi dentro”, non sanno affrontare la situazione e non si può rimanere indietro col programma e dove andremo a finire signora mia. Noi genitori “da elementari” (ribadisco che qui il punto di vista personale comanda la narrazione) eravamo già oltre, e capivamo già allora che il punto non era quello. Ma intanto la Ministra trionfalmente annunciava che la DAD si fa, la DAD funziona, e dove non funziona la facciamo funzionare.

A conti fatti, basandomi su una risposta “emergenziale” e considerando la cosa da un punto di vista prettamente tecnico, io da genitore e nerd sono soddisfatto di come è stata affrontata la DAD dai maestri di mio figlio, pur vedendo notevoli criticità nello strumento usato. In una società come quella italiana, fatta di piccole corporazioni tutte in lotta tra loro e tutte pronte a tirare la giacchetta al ministro di turno, non si può ignorare che alcuni docenti erano e sono tuttora “contro” la DAD per il semplice motivo che li porta fuori dalla loro comfort zone pedagogica. Da noi però tutti i maestri (di italiano, matematica, inglese e perfino quella di religione) si sono formati al volo sullo strumento, ne hanno testato potenzialità e limiti, hanno creato esercizi, cercato video e giochi accattivanti su YouTube e Scratch, anche se prevalentemente hanno continuato a distribuire le maledette “Schede” – in sostanza dei documenti in PDF da stampare e compilare per esercizio (le vecchie abitudini sono dure a morire).

Ecco il primo limite: la DAD presuppone che ogni famiglia abbia in casa una stampante funzionante e TANTA carta. Per non parlare poi dell’elefante nella stanza: la DAD ha messo in luce più di qualsiasi rapporto o studio accademico il digital divide italiano. Il 30% degli allievi non ha un PC o un tablet per collegarsi alle lezioni live (che da noi sono stabilite in 3 ore a settimana, una di inglese, una di italiano, una di matematica). Se non ce l’ha, può collegarsi dallo smartphone di un genitore, ma non è detto che la fruibilità sia la stessa. L’accesso all’istruzione improvvisamente va a due velocità: molti “restano indietro”. Anche qui, la nostra scuola è venuta molto velocemente in aiuto degli studenti in situazioni di disagio, fornendo tablet a chi ne aveva bisogno (fun story: hanno dato tablet con account da admin, per cui i bambini che li usano possono a loro piacimento zittire o espellere dalle lezioni on line tutti gli altri bambini, haha).

In definitiva: la DAD è stata un’esperienza per certi versi positiva, se non altro nella misura in cui ha forzato la mano a docenti, genitori e allievi a familiarizzare con una tecnologia utile e a costruirsi un’alfabetizzazione digitale (di ritorno per i docenti e i genitori, fresca per i bambini) che magari non avrebbero avuto occasione di avere, non così presto e non così in fretta. Abbiamo capito che si può fare, con un po’ di sforzo e di impegno, ma abbiamo anche realizzato molto in fretta che non è la stessa cosa per tutti gli ordini di scuola.

Per molti versi infatti la DAD nella mia esperienza è stata negativa, per una semplice questione che oggi, dopo tre mesi di lockdown delle scuole, è evidente a tutti. La scuola non è solo “istruzione”, è soprattutto “educazione” e “relazione”. I bambini di prima elementare, a differenza degli studenti delle medie e delle superiori, soffrono la videolezione. Tentano in ogni modo di interagire one to one, sono insofferenti, hanno uno span di attenzione molto basso, trovano difficile rispettare le regole che pure hanno imparato dei microfoni spenti, dell’alzata di mano, etc. Interrompono la lezione per raccontare una storia, dicono ai maestri che gli vogliono bene, a volte piangono o si scollegano, ma soprattutto devono essere costantemente seguiti da un genitore mentre sperimentano questa cazzo di relazione a distanza che da un lato ti illude di avere un amico o un adulto di riferimento vicino a te e dall’altro non fa che ribadirti quanto sei fottutamente solo. Inutile negare che il lockdown ha avuto un effetto pesantissimo su di loro, anche se non lo danno a vedere (lo capiremo meglio dai conti degli psicologi tra una decina d’anni).

Per questo le proteste dell’ultimo weekend, quelle organizzate sull’onda della campagna #noncisiamo di Mammadimerda (che a sua volta mette l’accento sul pericolosissimo problema sociale del peso che ricade sui genitori che lavorano in un momento in cui i bambini sono costretti a stare a casa) sono state particolarmente sentite soprattutto da chi come me ha i bambini alle elementari. La questione non è se la DAD sia stata un successo o meno. Nell’emergenza ci ha messo una pezza, e tutti quanti hanno imparato qualcosa. La questione è stata (ed è ancora) la totale mancanza di discorso pubblico sulla scuola, salvo la tradizionale sequela di minchiate vaghe della serie “abbiamo istituito una task force” e “rifletteremo su come riaprire”.

Ora arriva il punto chiave, e vi prego di non pensare che questa affermazione mi contraddistingua come un genitore no-vax, un babbo pancino, un irresponsabile runner padrone di cane e amante della movida, un veterosindacalista amico dei docenti che non vogliono impegnarsi. Sono solo un genitore di un bimbo di sei anni, e dalla mia posizione particolare penso questo: la scuola DEVE riaprire in presenza. La scuola avrebbe dovuto riaprire in presenza già a metà maggio, almeno per far finire l’anno con una parvenza di normalità. In presenza, ma in sicurezza. All’aperto, dato che la stagione lo consente. A piccoli gruppi, a turni, distanziati, con mascherine, insegnando ai bambini le regole della sanificazione, spedendoli a lavarsi le mani almeno 4 volte al giorno, invitandoli a pulire da soli i loro banchi come in Giappone, gestendo diversamente il sistema di ristorazione scolastica. Ci avete fatto caso? I protocolli di sicurezza sono stati scritti per le aziende, per i parchi, per i bar e i ristoranti, per gli stabilimenti balneari, per i negozi, a quanto pare addirittura per i centri estivi, ma NESSUNO ha scritto un protocollo di sicurezza per le scuole. Evidentemente è troppo difficile.

Se la riapertura per la fine dell’anno – lo abbiamo capito – è un’utopia, adesso che ci sono 4 mesi per studiare un protocollo di riapertura a settembre, la sensazione è quella che a Viale Trastevere pensino molto semplicemente di rivolgersi a una forma più o meno estensiva di DAD, vedendo solo il lato positivo dei successi ottenuti tra marzo e giugno. Ma questa cosa non può e non deve passare. Occorre una profonda ristrutturazione organizzativa, ma vorrei dire prima ancora proprio una ristrutturazione a suon di mattoni e calce della scuola italiana. Si può fare, se si ha la volontà di farlo.

Ma io sono un pessimista cosmico, e credo purtroppo che questa volontà non ci sia.

I MIEI PRIMI SEI ANNI

Francamente, alla fine non so come siamo arrivati qua
Me lo chiedo spesso, ma ogni volta mi rispondo che non me ne sono nemmeno accorto. 

Tu hai sei anni, il mio ruolo di papà ha sei anni, e quel che resta guardandosi indietro è una nebbiolina che rende difficile distinguere le cose. Sei anni fa, quando eri appena nato, mi sono preso un periodo sabbatico da lavoro perché volevo conoscerti, annusarti, assaggiarti, fare parte del tuo mondo se non quanto la mamma, almeno un po’. Un neonato in casa fa più che altro paura, sai? La mamma era terrorizzata, io intimorito e curioso. A poco a poco ci siamo acclimatati l’uno all’altro. Quel che ricordo sono le interminabili canzoni e/o i percorsi in passeggino per farti addormentare, la tua predilezione nell’usarmi come materasso vivente, la pappa che entrava e la cacca che usciva. Il moccio, anche. Si riusciva ancora, tutto sommato, a gestire la vita familiare. Bastava essere pronti, organizzati come una caserma, e tutto filava liscio.

Poi hai iniziato a gattonare, a camminare, a parlare. A manifestare tutte le adorabili caratteristiche che ancora oggi ti contraddistinguono. La fiera opposizione a qualsiasi cosa, la testardaggine, l’ostinazione nel non voler sentire nulla di quello che ti potevamo dire io o la mamma. Di più, la profonda convinzione che tutto quello che usciva dalla nostra bocca – dalla bocca degli adulti, in generale – erano bugie. Sei sempre stato un piccolo cospirazionista. La tua fame di indipendenza ti ha fatto sembrare per anni un quindicenne intrappolato nel corpo di un bambino piccolo. Gli altri bambini hanno mille paure, cercano rifugio nei genitori, tu quasi mai. Sei una continua fonte di stupore. Probabilmente ti abbiamo amato troppo, ma non possiamo farci nulla. Sei adorabile.

Sono passati gli anni. Tra i tuoi due e i tuoi sei anni è stato tutto un vortice senza sosta di scuole, giardinetti, corse, tuffi, wurstel, cartoni animati, abbracci di famiglia, il nostro lessico famigliare, il mare, i nonni, il ballo, le notti a infilarsi nel lettone – e te lo lascio fare perché so che tra breve non lo vorrai più fare, e anche perché sei un perfetto peluche umano – le domeniche in pigiama, la maionese e il ketchup, tutti i tuoi meravigliosi interessi e la difficoltà che hai nel rapportarti con gli altri bambini.

Ecco, tra pochi giorni compirai sei anni e mai come in questi ultimi mesi mi hai riportato alla mente – e al cuore – come ero io quando ero piccolo, come te. Si dice che non sia possibile ricordarsi della propria vita prima dei quattro anni, o giù di lì. Per me è tuttora molto difficile ricordare cose successe prima dei miei 10 anni. Ricordo solo le cose che hanno carattere di eccezionalità, perché legate a traumi o esperienze piacevoli, qualche schiaffone particolare, i primi baci o le prime carezze. Posso sforzarmi, ma non riesco. Invece vedo te, e capisco molte cose.

Tu hai una tremenda voglia di esprimerti, con i tuoi disegni, i tuoi colori, il glitter, le tue coreografie, i discorsi strampalati e le canzoni buffe. Lo fai in punta di piedi e nei tuoi spazi protetti, perché dentro di te sai che non sempre le persone sono buone o bendisposte. Ti piacciono cose che non piacciono a nessun altro, e per me va bene così, è sempre stato così anche per me. Ma questo ti farà sentire sempre molto solo. Finché non troverai un amico o un’amica che apprezza le stesse cose, e allora sarà veramente un tesoro, come dicono i proverbi.

Ti guardo con ammirazione e tenerezza e di nuovo ho paura, ma è una paura diversa da quella che hai con un neonato in casa. La mia paura adesso è che tu venga a contatto in modo traumatico con il brutto del mondo, e non intendo per forza di cose la guerra, la carestia, la violenza (arriveranno anche queste cose, ne sono convinto, ma spero che tu abbia i mezzi per andare via, il più lontano possibile). Il brutto del mondo è anche, soprattutto, vivere in una società che fa di tutto per appiattire le diversità, per schiacciare chi non è omologato, per soffocare la creatività, per stroncare l’entusiasmo. Questa bruttura la vivi e la vivrai anche tu ogni giorno, a modo tuo me ne stai parlando già oggi e io posso solo promettere che sarò sempre lì per aiutarti a capire che come sei tu va bene. Che ognuno è diverso, ognuno fa storia a sé. E che palle se fossimo tutti uguali. 

Va bene. Per i miei primi sei anni (da papà) esprimo qualche desiderio. Mi piacerebbe che potessi ascoltarmi di più, che abbandonassi almeno un po’ questa ossessione per le scoregge e le chiappe, che ti sforzassi di mangiare appena un po’ di verdura. Per il resto sei un bambino perfetto.

E, nel caso ti chiedessi chi è il bambino nella foto, eccoti una pillola di cultura pop di quelle che ti piacciono tanto. Questo è Danny Bonaduce, che nella fortunata sitcom La famiglia Partridge in onda quando papà tuo era piccolo, interpretava il bassista (poco carismatico) Danny Partridge. La sua particolarità è aver inciso una canzone in cui con la sua allegra voce bianca cantava “Sarò il tuo prestigiatore, ti toccherò piano con la mia bacchetta magica e tu non resisterai più, sarò il tuo mago, e dopo averti stregata ti farò l’ammore”.

Non lo so, mi ha fatto pensare a te.