BOUND, IL NEO-NOIR QUEER CHE HA INIZIATO TUTTO

A vedere Bound (che è del 1996) adesso, si capiscono un po’ di cose degli allora fratelli, adesso sorelle Wachowski che sarebbero sfociate in Matrix prima e poi nel resto della loro produzione fino a quel capolavoro di serialità televisiva “imperfetta” che è Sense8.

Bound rientra perfettamente nel revival neo-noir degli anni ’90, anzi prende spunto dallo stesso concept di Blood Simple dei Coen, che già nel 1984 aveva dettato il canone. C’è un pacco di soldi sporchi che è lì apposta per essere rubato, c’è un criminale di mezza tacca (Joe Pantoliano) che deve custodirli, c’è una dark lady (Jennifer Tilly) che vuole rubarli e chiede aiuto a Corky (Gina Gershon) che diventa complice del furto. Solo che, appunto, Corky è una lesbica “butch” che ripara le tubature nel palazzo, e la storia d’amore e di sesso che ne consegue, nel 1996 era una assoluta novità.

Bound incrocia il neo-noir con il thriller erotico (ricordiamo che sono gli anni di Basic Instinct) rinnovando però gli stilemi con inquadrature visivamente ardite che anticipano il cinema del nuovo millennio (zoom onnipresenti, carrellate macro a seguire i cavi telefonici che anticipano gli “operator” di Matrix, un’ossessione per gli abiti di pelle nera, una certa estetizzazione nelle sparatorie).

Quello che emerge in Bound, al di là dell’abbondanza di suspence e colpi di scena nell’ultima mezz’ora, è che si tratta di una storia d’amore queer a lieto fine in un periodo in cui i personaggi queer erano genericamente destinati a una brutta fine o comunque erano sempre tragici. Non qui. Dopo solo tre anni le Wachowski danno vita alla più grande metafora transgender in fantascienza, quindi ci sta.

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