Wes Anderson o lo ami o lo odi. A volte lo odi e lo ami nello stesso tempo. Asteroid City è sicuramente un viaggio più a fuoco che non The French Dispatch, che mi aveva lasciato un po’ indifferente.
In Asteroid City chiunque potrà trovare ciò che più ama o ciò che più odia di Anderson: i colori pastello, la fotografia desaturata (comunque qui è tutto anamorfico con pellicola Kodak vintage), i salti di formato da anamorfico a 4:3 e da colore in bianco e nero, la recitazione brechtiana, veloce e monotona, le carrellate a destra e a sinistra a svelare, i frame dentro ai frame, la mise en abÎme, lo split screen, la costruzione maniacale dell’inquadratura per accumulo e l’ossessione per il “tutto in campo”, l’animazione in stop motion, i modellini, il cast all-star, i costumi improbabili (comunque Milena Canonero, mica pizza e fichi).
Fatto tutto questo elenco molto andersoniano, com’è Asteroid City? Verso la fine gli attori intonano un canto del tipo “non ti puoi svegliare se non ti sei prima addormentato“. Diciamo che alcuni spettatori potrebbero correre il rischio (di addormentarsi, dico). Stai sempre sul sottile confine che separa il capolavoro dal “ma vaffanculo” ogni volta che vengono recitate battute come “Io amo la gravità”.
Come quasi tutti i film di Anderson, anche Asteroid City procede per accumulo: di personaggi, di storie, di momenti slegati, e ci aggiunge l’espediente della costruzione a matrioska. Stiamo assistendo a un film che in realtà è un’opera teatrale dalla scenografia molto ben realizzata, che si svolge in un teatro di New York dove un commediografo scrive e pensa, un regista dirige, il cast di attori entra ed esce dal personaggio e una sorta di presentatore extradiegetico illustra la storia e la storia nella storia (trovandosi poi in un momento esilarante in campo durante una scena del film nel film).
Gli attori di grandissimo richiamo li vedete tutti nel trailer: per chi si chiedesse dove diamine stanno Jeff Goldblum e Margot Robbie, li si vede pochissimo perché hanno un ruolo fondamentale ma con poco screen time. La loro presenza riguarda gli unici due spoiler che è meglio non fare sul film.
Insomma, se vi piace Wes Anderson (se vi piace il controllo visivo maniacale su un mondo che è frutto della mente di uno che si veste di velluto a coste nel 2023, per dire) è sicuramente da vedere, se lo odiate… ehm, magari no. Io l’ho amodiato (o odiamato) come sempre
Ora che siamo entrati definitivamente nell’autunno, che è scemata un po’ la fotta di Oppenheimer e il prodotto audiovisivo più visto e chiacchierato è la Pesca dell’Esselunga, posso dirvi che sì, quest’estate è stata per me devastante ma non è che ho smesso di vedere film, anzi. Ho solo smesso di scriverne.
Ma adesso ho ricominciato. Perciò vorrei mettermi in pari con voi e raccontarvi di qualcosa che magari avete visto anche voi ma magari vi siete persi.
Partiamo da Armageddon Time di James Gray, un film che è stato poco in sala ma che secondo me spaccava. Il genere è “coming of age” e il protagonista è il giovane Banks Repeta, quello che adesso fa Percy Jackson… ah, no, quello è Walker Scobell, diamine questi attori pubescenti si assomigliano un po’ tutti. Scherzo, Repeta è molto bravo e gli auguro una carriera luminosissima. Duetta alla grande con il nonno Anthony Hopkins e soprattutto scopre il razzismo sistemico vivendo avventure un po’ alla Truffaut con il suo amico di colore. Dolceamaro, a me è piaciuto assai, se volete recuperarlo.
Poi ho visto Sisu, un meraviglioso film di Jamari Helander (finlandese, probabilmente, per citare il titolo di un bel libro del mio amico Stefano Boni). Immagina John Wick nella tundra e durante la seconda guerra mondiale. Anzi no, immagina Inglorious Basterds di Tarantino però muto. Anzi, no… Immagina Iron Sky ma invece che sulla luna in Finlandia. Insomma, avete capito. Sisu è un cercatore d’oro lappone detto “l’immortale”. I nazisti gli rubano l’oro. Lui non la prende bene. Godimento assicurato.
Nimona su Netflix, chevvelodicoaffà: tra Spider-Man nuovo e i TMNT questo è stato il film d’animazione più bello di mezza estate. Tratto dall’ottimo e spigoloso graphic novel di ND Stevenson e adattato da Nick Bruno e Troy Quane, Nimona si presenta come un urban fantasy più “arrotondato” rispetto all’originale ma senza perdere di efficacia. Il personaggio di Nimona, aspirante spalla del cattivo di turno è esilarante, l’animazione è perfetta e la scrittura approfondita il giusto per piacere a grandi e piccini. Dietro c’è anche una trama politica anti-inclusività, i protagonisti sono gay, insomma, dai. Ce n’è.
Indiana Jones and the Dial of Destiny, oh, a me è piaciuto. Cioè, mi sono divertito assai, pur nella consapevolezza che il film è stato appositamente studiato per far divertire me, cinquantenne che da piccolo sbavava dietro all’Arca perduta e al Tempio Maledetto. Se è tutto un fan service, è un fan service fatto maledettamente bene, mai noioso, forse un filo prevedibile (ma il colpo di scena finale è comunque da applauso). Harrison Ford è sempre lui, sia vecchio che ringiovanito digitalmente e anche Phoebe Waller-Bridge non stona per nulla.
Elemental, subito in sala mi ha lasciato un po’ perplesso (pur amando molto Peter Sohn e il suo stile dai tempi di Arlo). L’ho rivisto pochi giorni fa su Disney+ in originale e mi ha convinto di più. La storia d’amore è bella, il world building è un po’ debitore del concept di Zootropolis ma regala comunque sequenze straordinarie, il sottotesto sull’immigrazione e il classismo è ben centrato. Quello che mi è mancato soprattutto alla prima visione è stata la mancanza di un villain, magari di un complotto per diffondere inondazioni a Element City, ma Peter Sohn è così, che ci vogliamo fare.
Ho visto anche Guardians of the Galaxy Vol. 3, e mi sono pure commosso, perché Rocket Raccoon è più figo di tutti e la sua storia malatissima è stata un bel viaggio. Quello che mi piace del terzo film di James Gunn è il caleidoscopio di riferimenti pop che si nota proprio nelle scenografie o nei costumi, che in più di una sequenza mi hanno fatto pensare a Barbarella, o alla reinterpretazione di Moebius via Luc Besson nel Quinto elemento. Un po’ lungo, come tutti i film Marvel, ma accettabile.
Poi vabbè, ho visto Barbie e Oppenheimer ma questo ve l’ho già detto.
Ho recuperato Fast X di Louis Leterrier. Beh, ormai i film del franchise di Dominic Toretto li si guarda un po’ per affetto, un po’ per completezza enciclopedica. Motivo campanilistico in più per guardarlo: diverse scene della “missione a Roma” sono in realtà girate a Torino ed è buffissimo vedere il ponte sul Po che sbocca a Città del Vaticano e la bombona infuocata che rotola in corso Fiume spaccando a metà un bus della GTT. Per il resto, sempre uguale, macchine veloci, esplosioni, familia, mazzate, ritmo accettabile, cattivo esecrabile (Jason Momoa in modalità smodata), cliffhanger finale con Gal Gadot e The Rock, quindi nel 2025 avremo pure loro, in Fast X parte 2. Allegria!
E infine ho finalmente visto un film che tenevo lì a invecchiare dal 2016, Moonlight di Barry Jenkins (uno dei pochi film A24 che mi mancavano). Tutti gli Oscar e i premi che ha vinto sono meritatissimi e ovviamente il mio disagio nel guardarlo era solo che temevo l’effetto Boys Don’t Cry – cioè, io i film queer li guardo a manetta, ma se scoppia il drammone mi sento malissimo. Invece qui – in un contesto total black – il protagonista Chiron viene mostrato per un terzo del film da piccolo, poi da adolescente e infine da uomo adulto vivere le contraddizioni di un afroamericano di famiglia disagiata alle prese con la sua sessualità ancora tutta da scoprire. Nell’ultima parte il film si trasforma in un mélo sorprendente e luminosissimo – sicuramente uno dei migliori film del decennio. E poi c’è Mahershala Ali.
Un horror australiano che ci crede tantissimo, e alla fine non è nemmeno male, dai. Il problema è che è un film assolutamente di adolescenti e per adolescenti. Il che alla fine è un po’ strano per essere un film A24.
Non è una roba parodistica alla Scary Movie, sia chiaro. Talk to Me è secco quando deve esserlo e ritrae in modo impietoso questi giovinastri che giocano (letteralmente) con la morte e tu che guardi li vorresti vedere schiattare male uno ad uno (tranne quello che se la passa peggio, poverino, che sta così per colpa dei suoi amici buzzurri.
Comunque. Nella ridente provincia australiana gli adolescenti australiani ascoltano trap australiana, bevono birra australiana e si divertono a giocare con una mano imbalsamata che se la tocchi e dici “Talk to Me” vedi la gente morta (male). Se poi dici “I Let You In” gli spiriti ti possiedono e fai le cose pazze che poi vengono riprese col cellulare dai tuoi amici adolescenti stronzi che il giorno dopo ti fanno cyberbullismo caricando tutto sui social.
Capirete anche voi che prevedibilmente ci sono gli spiriti incazzosi che si stufano e pretendono di possedere gli adolescenti australiani in modo permanente.
Da qui casini, jumpscare e qualche bel trucco prostetico. Insomma, caruccio, dai.
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