COMPANION: LA ROMCOM CON UN TWIST

Companion di Drew Hancock è un film onesto. Fondamentalmente un episodio lunghetto di Black Mirror, ma onesto. C’è un po’ di sangue, un po’ di mistero, un po’ di LOL (molto LOL a mio avviso) un po’ di distopia, un po’ di critica sociale ma senza esagerare che non siamo pesantoni, ed è in fondo un buon film di intrattenimento. 

Per i primi 15-20 minuti Companion fa finta di venderti la classica commedia romantica (primo LOL: nella locandina la brava Sophie Thatcher, già vista in Heretic, ha gli occhi della morte quindi è chiaro che non ci troviamo di fronte a una romcom). Anzi, è tutto spoilerato già nel trailer.

Dopo, quando viene rivelato che Iris, la protagonista femminile, è in realtà un sofisticatissimo robot da compagnia – loro lo chiamano proprio fuck-robot – comandato da un’app sul cellulare di Josh (Jack Quaid, figlio di e già visto in The Boys) tutto comincia a prendere velocità. Il film si trasforma in un “thriller” tecnologico in cui Josh fa perfettamente la parte dello stronzo manipolatore e maschilista (interessante la parte in cui si scopre il “livello di intelligenza” che assegna ad Iris). 

Companion è abbastanza prevedibile da poterlo guardare mentre stiri le camicie ma anche abbastanza divertente da poggiare un po’ il ferro e dargli una chance. C’è poco da spoilerare ma eviterò, dicendo soltanto che Iris è al centro di un piano diabolico ordito da Josh per accaparrarsi tanti dollaroni, ma ovviamente tutto andrà in vacca.

Alle volte Companion si compiace di essere un film più furbo di quello che in realtà non è, e ci sono diversi punti in cui si sente la voglia di fare il commento sociale però a livello terra terra: alla fine diventa Barbie meets Terminator e la sospensione dell’incredulità va un po’ a farsi friggere. Però è divertente.

THE LAST SHOWGIRL E IL SOGNO AMERICANO

Gia Coppola è la nipote di Sofia e di Roman, nel senso che è la figlia di un altro figlio di Francis Ford, morto prima che lei fosse nata. Ma va beh, era solo per dare un contesto di “famiglia” a chi si chiedesse da dove esce questo nuovo talento che ha sfornato un film così particolare come The Last Showgirl, tutto girato con lenti anamorfiche e con un amore sfrenato per le sfocature, i controluce e le aberrazioni ottiche di vario genere

In The Last Showgirl protagonista assoluta è Pamela Anderson in uno di quei ruoli che di solito si definisce “della vita” in cui capiamo finalmente quanto il suo talento avrebbe potuto essere sfruttato anche in passato. Shelly (Anderson) è una ballerina di fila nello spettacolo di Las Vegas “Le Dazzle Razzle”, uno di quegli show di varietà tutto piume e lustrini che fanno tanto anni ’70-’80 e che infatti è sulla via della chiusura.

Intorno a lei si muovono le colleghe più giovani (come Kiernan Shipka) e quelle ormai in pensione (c’è una monumentale Jamie Lee Curtis in pieno stile white trash che non avrebbe sfigurato in un vecchio film di John Waters). C’è anche un dolente direttore di scena interpretato da Dave Bautista, uno che a me sorprende sempre per quanto è bravo.

Ovviamente la chiusura dello spettacolo mette in crisi le già precarie finanze di Shelly che è anche alle prese con una figlia che non vede più e con la quale non c’è l’intimità che lei vorrebbe. Il sogno americano, qui declinato nell’ambiente “bello fuori e squallido dentro” dello show business, viene sviscerato nelle sue luci e nelle sue ombre. A 57 anni Shelly deve fare altri provini e viene umiliata da un regista pragmatico interpretato da Jason Schwartzman (hey, è il cugino di Gia!).

Finale onirico e dolceamaro con canzone inedita di Miley Cyrus e Lykke Li, ma la cosa migliore è l’utilizzo di Total Eclipse of the Heart in una scena di montaggio alternato tra Curtis e Anderson che vale come epitaffio sui sogni di gloria di chi è cresciuto nell’edonismo reaganiano e nel 2025 si guarda intorno e vede solo macerie.

OPUS, A24 VA IN CONFUSIONE

Odio doverlo dire di un film A24, ma Opus è una cagata coi fiocchi. O sono io che non ho capito la sottile arte di mescolare un po’ di Get Out, un po’ di Blink Twice, un po’ di Midsommar e tirar fuori un film che vorrebbe essere un inquietante horror e che invece è un noioso e prevedibile thriller da cestone delle offerte.

Regista alle prime armi (ma ex giornalista di GQ), Mark Anthony Green ha a disposizione un gigantesco John Malkovich nel ruolo di Alfred Moretti (LOL) divo del pop anni ’90 che è disposto ad andare in modalità full-Nicolas Cage tra urletti, movenze sexy e recitazione sopra le righe e una bravissima Ayo Edibiri nel ruolo della giornalista alle prime armi Ariel Ecton, unica outsider tra gli invitati alla straordinaria presentazione del nuovo album di Moretti dopo un silenzio ventennale. 

Quello che gli manca è la storia, che si sfilaccia tra un’inquadratura e l’altra. Malkovich e Edibiri sono ai poli opposti della recitazione (sopra le righe lui, in sottrazione lei), tutto appare assurdo e posticcio, c’è un mistero ma manca la suspence, quando c’è il primo morto ammazzato nessuno si scompone più di tanto.

C’è una sequenza esaltante e cringe al tempo stesso in cui Moretti fa ascoltare la sua nuova hit ai presenti, poi succedono un altro paio di cose allarmanti, Ariel vorrebbe fuggire ma… no, dai, prima vieni a vedere uno spettacolo di marionette creepy a forma di roditori decomposti che mettono in scena la storia di Billie Holiday (!!!). Da lì in poi, complice una poltrona a sacco che non è quello che sembra, parte la locura horror che però è costantemente depotenziata.

Non ho menzionato il fatto che gli invitati alla presentazione del disco di Moretti si trovano nella sua tenuta che è abitata / gestita da una sorta di setta che venera Moretti come una divinità e che fa cose un po’ alla Manson, un po’ alla Jonestown, un po’ alla fiera dell’artigianato di Verbania

C’è un finale messo lì apposta per far dire “minchia ma allora non avevo capito nulla ed era tutto predisposto in un certo modo diabolico fin dall’inizio”, ma anche questa rivelazione è confusa e convince poco. Spiace, perché Opus poteva essere molto più incisivo se non si fosse perso tra gigioneria e indecisione.