CUCKOO CRAZY SULLE ALPI BAVARESI

Cuckoo di Tilman Singer è uno di quei film che rientra a pieno titolo nella categoria “cosa cazzo ho appena visto“. Anche, uno di quei film che guardo solo perché a) ha un manifesto figo e b) c’è Hunter Schafer e quindi vediamo un po’. Per il resto, boh. 

La storia è quella di una famiglia che va in un resort sulle Alpi Bavaresi (!) allo scopo di costruire un altro resort sempre sulle Alpi Bavaresi per un manager losco e inquietante interpretato da Dan Stevens (che per me sarà sempre “quello di Downton Abbey”). Solo che questo particolare resort sulle Alpi Bavaresi nasconde un orribile segreto: una razza di umanoidi che sono un incrocio tra uomo e cuculo (l’uccello, proprio, capito?) piazza i suoi cuccioli in famiglie umane per farli allevare, e/o tenta di inseminare le ospiti con dello slime cuculico.

Hunter Schafer è Gretchen, la figlia maggiore della allegra famigliola composta da padre, matrigna e Alma, la sorellastra muta in odore di cuculitudine. C’è una donna-cuculo con gli occhi rossi e la bocca deformata che urla come un cuculo (ma urlano i cuculi?) e che fa un po’ la stalker con Gretchen. Alla fine è tutto un enorme complotto cuculico in cui tutti cercano di uccidere tutti mentre Gretchen cerca di salvare Alma anche se lei è a tutti gli effetti una bimba-cuculo.

Effetti psichedelici, loop temporali e una sceneggiatura che ti fa esclamare “ma minchia” ogni 5 minuti completano il quadro. Dimenticabile.

ACTION HEROINE A 93 ANNI CON THELMA

Thelma di Josh Margolin è un interessante esperimento di action comedy senile. Sfacciatamente modellato sulla serie di Mission: Impossible con Tom Cruise, più volte citata esplicitamente, il film è la trasposizione cinematografica di un’esperienza realmente accaduta alla vera Thelma, la nonna del regista, che appare in una scena dopo i titoli di coda. Ma – e qui sta il bello del film, Sullo schermo Thelma è la mitica June Squibb, che alla veneranda età di 94 anni ha qui il suo primo ruolo da protagonista assoluta.

Thelma Post è una placida nonnina che si fa spiegare il mouse, il computer e la mail dal suo nipote ventiquattrenne. Vive da sola, con qualche difficoltà, ma è orgogliosa e testarda. Un giorno viene truffata al telefono da dei malintenzionati che la convincono a versare 10.000 dollari in contanti per pagare la cauzione al nipote finito in prigione. Ovviamente non è vero, e dopo lo spavento iniziale, Thelma medita vendetta.

Con l’aiuto dell’amico Ben (Richard Roundtree, l’indimenticato detective Shaft), ora in una casa di riposo ma possessore di uno scintillante scooter elettrico da senior citizen, parte alla ricerca del covo dei truffatori determinata a riprendersi i suoi soldi.

Al di là di una fastidiosa fotografia tutta incentrata sul fisheye e sulla sfocatura costante di tutto ciò che non è al centro dell’inquadratura, Thelma è un’ottima ora e mezza di intrattenimento che sa giocare benissimo sia la carta della suspence (geniali gli stunt di June Squibb, che “ha fatto tutto da sola”) sia quella della famiglia disfunzionale – la figlia di Thelma è Parker Posey, psicoanalista ultranevrotica.

La comicità sta soprattutto nell’assecondare i manierismi di Thelma – che sono poi quelli di molte nonne – tipo quello di chiedere a perfetti sconosciuti (anziani anch’essi) dove possono essersi già visti, perdendosi in lunghe conversazioni sul nulla. Per chi proprio non può fare a meno del “messaggio”, Thelma non si risparmia anche qualche riflessione sul ruolo degli anziani nella società contemporanea.

In sala, secondo me soldi ben spesi.

L’INTIMITÀ MASCHILE IN CLOSE

Close di Lukas Dhont è un dramma belga il cui titolo dice molto sull’argomento del film: la vicinanza. Vedere Close è una mazzata sui coglioni per un motivo molto particolare: come Monster di Kore’eda, è un film su una ipotetica relazione queer tra due ragazzi. Ed è sull’ipotesi che si gioca tutto, nel film di Dhont in modo molto più lineare, diretto e drammatico.

Léo e Remi sono amici da una vita, sono “vicini”, sono “intimi”, come due fratelli, dormono nello stesso letto confidandosi paure e aspirazioni. Si vogliono bene come si possono voler bene due persone che si sono scelte da anni e che sentono una fratellanza tra loro. Quando iniziano le scuole superiori arriva la domanda fatidica: “state spesso molto (troppo) vicini, siete una coppia?”. Arriva la polizia del genere, arriva l’omofobia, arriva il cameratismo come antidoto patriarcale allo spettro della frociaggine.

Léo su questa cosa se la prende moltissimo, e decide a poco a poco di allontanarsi da Remi, per far mostra di essere un maschio etero e cisgender. Remi, che è il più sensibile dei due, comprensibilmente la prende peggio ancora. I due litigano furiosamente, come solo due persone che si vogliono bene fanno, senza forse nemmeno capire bene il perché.

Poi succede l’irreparabile e Close si trasforma in una riflessione sul lutto, la colpa, le emozioni annodate di chi rimane. E tutto questo è originato solo da una semplice immagine-scandalo: quella di due giovani maschi che si addormentano abbracciati.

Close è un film che dovrebbe essere visto da tutti i genitori di figli maschi, nonché proiettato in tutte le scuole: è un boccone difficile da digerire, ma è importante per capire cosa trasmettiamo in termini di valori alle nuove generazioni – cosa continua a trasmettergli tutta la società. Come in Monster, anche qua è il gruppo dei pari ad innescare la miccia della tragedia – e anche quando c’è l’intervento della psicologa scolastica, è too little, too late.

Tematiche a parte, il film di Dhont è delicato e impressionante nell’uso di primi piani molto insistiti e di lunghi piani sequenza in cui emergono molto chiaramente le tempeste di emozioni e sentimenti sotto la superficie degli sguardi impassibili dei due giovani attori Eden Dambrine e Gustav de Waele (bravissimi).

Consigliabilissimo, ma non se siete già in depressione.