LONGLEGS: IL DIAVOLO, PROBABILMENTE

Longlegs di Osgood Perkins è un film che nei primi 20 minuti ti fomenta in un modo assurdo, poi per un’ora circa non capisci bene dove vuole andare a parare ma ti avvolge comunque in una confortevole cappa di disagio e infine, negli ultimi 20 minuti esplode, ma con un problemino che più sotto vediamo. Non è che l’hype che circonda il film non sia giustificato (c’è comunque Nicolas Cage che nicolascageggia alla grandissima), però, ecco… non credete al marketing. Longlegs è “diverso”.

Longlegs è il nome del personaggio interpretato da Cage, una nuova meravigliosa maschera horror che per me va subito a finire nel pantheon dei Freddy, dei Jason, dei Leatherface e insomma, ci siamo capiti. Una sorta di Joker invecchiato e cento volte più sopra le righe del Joker stesso, animato da intenti demoniaci e con una certa familiarità con “Mr. Downstairs”. Questa è la componente horror del film di Perkins che per il resto è invece un “solido” thriller anni ’90 che fa (molto) il paio con Silence of the Lambs di Jonathan Demme.

C’è infatti una agente speciale dell’FBI alle prime armi ma con un “sesto senso e mezzo” che viene messa dai suoi responsabili sulle tracce di una serie di cold cases: stragi familiari accomunate da alcuni elementi chiave apparentemente firmati da “Longlegs” con una serie di messaggi cifrati lasciati sulle scene del crimine

Lee Harker (il nome dell’agente interpretato da Maika Monroe, vista in It Follows) è un personaggio ambiguo, poco empatico, che evidentemente nasconde qualcosa. Il prologo con lei bambina la collega a Longlegs, ma non sappiamo come. Il film procede accumulando poco a poco pezzi del puzzle e scivolando via via nel soprannaturale.

Dove sta la chiave dell’enigma? Lo si scopre nell’ultimo atto del film, incisivo ed inquietante ma… a mio avviso troppo “raccontato” (la tecnica dello spiegone, insomma, che contraddice lo “show, don’t tell” che per me è una regola inderogabile). 

Comunque, Longlegs va visto perché ha un approccio fresco e disturbante a un certo tipo di storia molto battuta negli anni ’90 ma soprattutto per vedere Nicolas Cage che con voce stridula canta le canzoncine di compleanno urlando “Hail Satan“. Lui è proprio difficile da dimenticare.

LA STELLA DI MAXXXINE

Ti West e Mia Goth, ma che coppia fighissima sono? Già i nomi sono fantastici, e se li rimettiamo insieme una terza volta dopo X e Pearl, questo nuovo MaXXXine è un film che fa discretamente il botto… non a livelli di Pearl, ma ci siamo quasi. MaXXXine è il sequel diretto di X (laddove Pearl era l’esplorazione della giovinezza di un altro personaggio di X sempre interpretato da Mia Goth). Ma è un sequel che si svolge nel 1985 e tutto (dai titoli di testa alla colonna sonora, dagli insistiti split screen depalmiani agli inserti VHS) urla “operazione nostalgia”.

Solo che non è un’operazione nostalgia alla Stranger Things, che prende gli elementi più pop e corny del decennio per rimetterli in scena frullandoli. Oddio, forse un po’ sì, ma è un film di Ti West, diamine, quindi si parla di porno e horror, di una New Hollywood che è ormai finita e di un’industria del porno pronta a macinare e sputare starlet, di rivalsa, di vendetta, di una discesa agli inferi che sta tra Hardcore e Omicidio a luci rosse con spruzzate di Dario Argento (soprattutto uno degli omicidi) e un approccio cazzone alla storia che in sé è molto anni ’80.

Non aspettatevi un film come Pearl, qui la furia teorica è un po’ smorzata, e si capisce anche che chiudendo la trilogia West e Goth si volevano anche un po’ divertire, magari citando a piene mani Polanski, Argento, De Palma, Carpenter, Hitchcock e quant’altro. Un C’era una volta ad Hollywood più imbastardito, con una serie di attori che non ti aspetti (su tutti Kevin Bacon, Giancarlo Esposito ma anche la regista algida e stronza Elizabeth Debicki).

Il “tiro” horror lo danno soprattutto i flashback con le sequenze di X (MaXXXine è più un thriller anni ’80 che uno slasher anni ’70) e due o tre momenti estremamente splatter molto ben dosati. Si nota il gusto per gli effetti prostetici (nel film compare anche un personaggio che legge Fangoria, mitico) e i maschi in sala dovranno coprirsi gli occhi in una determinata scena.

Maxine Minx è determinata a fare tutto quello che serve per diventare una star, proprio come Pearl prima di lei, e scopriamo fin da subito che non è il serial killer che infesta le notti di Hollywood a essere il personaggio più pericoloso. Bella la sequenza dei titoli di coda che richiama il primo piano interminabile sul finale di Pearl con una testa prostetica di Mia Goth buttata su un letto.

Dal mio punto di vista – al netto di qualche piccola furberia (il citazionismo esasperato dopo un po’ rompe) – uno dei migliori horror film dell’anno.

TRISTE, SOLITARIO Y FINAL: IN A VIOLENT NATURE

Come Venerdì 13 ma girato da Terence Malick, o Gus Van Sant. Il trick di In a Violent Nature, l’horror pensoso e lentissimo che fa impazzire il mondo, è tutto qua.

Il regista canadese Chris Nash ha concepito questo film come un omaggio agli slasher più pecioni: basti dire che la trama è “zombi risorge da sottoterra perché gruppo di teenager stronzi si appropria di un ciondolo che lo teneva magicamente sepolto”. Poi lo zombi ha una backstory, che viene peraltro raccontata a voce da uno dei suddetti teenager (“grosso tizio con disagio mentale fa a pezzi squadra di boscaioli dopo che questi hanno ucciso la sua famiglia”).

Allora, ci siamo: è uno slasher pecione. Però… invece di avere suspence, jumpscare o quant’altro abbiamo attese, lunghissimi piani sequenza in cui seguiamo il killer inquadrandolo sempre di spalle (salvo primo piano orripilante ad un certo punto), in cui vediamo tanti alberi e tanta foresta, in cui di base non succede (quasi) mai nulla.

Ma è ovvio che i teenager dovranno pagare con una morte orribile il fatto di aver rubato il ciondolo, e le morti orribili arrivano (oh! se arrivano). Una in particolare è probabilmente la morte più elaborata e disgustosa che avrete visto negli ultimi anni in un horror. Un’altra è talmente esplicita, esasperata e tirata in lungo che invece di suscitare paura (o schifo, perché non è che In a Violent Nature sia un film che incute paura) da diventare, semplicemente, triste.

Tutto ciò senza contare un finale anticlimatico che gioca con i luoghi comuni dello slasher in modo a mio avviso un po’ antipatico, mettendo la final girl in una situazione potenzialmente pericolosa dove poi… ma vabbè, il finale non ve lo dico. Basti sapere che è uno di quelli sul quale fioriscono on line gli articoli tipo “In a Violent Nature ending explained“.

Ecco, In a Violent Nature è essenzialmente un film triste. Un po’ come A Ghost Story. Il che però è strano, dato che non è prodotto da A24 ma da Shudder.