DIMENSIONE PARALLELA

DIMENSIONE PARALLELATogliamoci subito il dente: un bebè in casa è meraviglioso, un momento lo riempiresti di baci il momento dopo lo metteresti nel forno a gas. Ma prevalentemente lo riempiresti di baci. Sì, abbiamo le nottate insonni, i pianti inconsolabili, i rigurgiti, le ansie, lo sconforto e la gioia. Come tutti.

Ma quello che mi sta colpendo di più è l’ingresso in questa dimensione parallela. Una dimensione che, prima, probabilmente coesisteva con la nostra – solo che non abbiamo mai avuto modo di vederla. Noi stessi, in questa dimensione, prima eravamo come invisibili, non venivamo notati. Adesso siamo “svelati” agli occhi dei suoi abitanti. Mi spiego partendo dal mio condominio. Fino ad agosto, noi conoscevamo solo due persone in tutto il palazzo: i nostri vicini del piano di sotto (quelli che non si sa mai, mi guardi la gatta, mi annaffi le piante) e l’ex vicina di pianerottolo affettuosamente soprannominata “la strega cattiva dell’ovest”. D’accordo, mettiamoci pure Gandalf il grigio, in fondo sta sul nostro pianerottolo ed è inevitabile conoscerlo. Ma nel palazzo ci sono 21 appartamenti.

Nell’ultima settimana abbiamo conosciuto quasi tutti. Perché? Per via del bambino, e della carrozzina. La peculiarità del nostro condominio, infatti, è quella di avere una rampetta di scale a tradimento tra l’ascensore e l’androne. Detta rampa costituisce croce e delizia di tutti gli anziani claudicanti e adesso anche del vostro affezionatissimo che ogni volta che deve uscire per la passeggiatina deve sollevare carrozzellabimboborsacambio (e a volte anche borsaspesa) e portarla a livello marciapiede. Ed ecco che in questo frangente, persone che prima non ti hanno mai degnato non dico di un saluto, ma nemmeno di uno sguardo, ti attaccano il bottone del “ma che bel bambiiiiiiiiiiino, ma com’è piccoliiiiiino” etc. Io rimango frastornato: è veramente come se avessimo squarciato la sottilissima membrana tra due differenti universi. Nell’universo A nessuno ti caga, nell’universo B tutti ti fermano e si interessano alla tua vita. Potere dell’infanzia.

La cosa non si ferma qui: per strada, gli anziani mi avvicinano chiedendomi se possono vedere il bambino. La prima volta mi sono fatto anche una discreta figura di merda: si avvicina questa signora canuta e io le dico nel più elegante stile sabaudo “non ho spiccioli, mi spiace”. Deve essersi anche un po’ offesa. Poi ci sono le mamme con carrozzina o passeggino, che trasportano bimbi quasi sempre più vecchi del mio, che allo stato attuale ha solo dieci giorni di vita. La qual cosa sembra deliziarle (la frase magica qui è “ooooh non ricordavo quasi più quanto sono belli a questa età”). Ho anche fatto la prova di andare ai giardinetti da solo con la carrozzina per vedere se è vero che le mamme che frequentano questi luoghi sono delle creature affamate di sesso pronte a sciamare sui neo papà incautamente soli. Ma ho attirato soltanto le solite vecchiette.

Intendiamoci, non è che mi dia fastidio, solo non ci sono abituato. È uno dei vari aspetti rispetto ai quali la nostra vita sta cambiando. In due, nessuno si sarebbe mai sognato di abbordarci e dirci “ma come state bene insieme, siete proprio una bella coppia”. In tre, sembra quasi che si sentano obbligati.

Il prossimo step: verificare se in questa dimensione parallela, di cui il pupo sembra essere il pass, si possono ottenere sconti. Lo proporrò ai commercianti della zona: vuoi fare una carezza a mio figlio? Mettimi i salatini a 9 euro al Kg.
O improvvisami un tre per due sul momento. A me sembrerebbe equo.

PUNTO ZERO

PUNTO ZEROOspedale ostetrico ginecologico, ore 7.15. C’è già tutta un’umanità che vive e lavora mentre per me è ancora notte fonda.
Ci registriamo in accettazione e saliamo in reparto.
La coppia italo thailandese di fianco a noi si stupisce che Stefi debba già partorire, data la “sindrome della pancia invisibile”.
Gli dico “Yes, you know, my wife lost a lot of weight in the last few months”. La ragazza thailandese ha messo su 29 kg. Mi guarda con occhi spalancati e mi dice “My baby… My baby, you know… She’s a girl, she’s 4 kilos”.
C’è un capannello di papà con la polo color pastello, sembrano comunque più vecchi di me. Questo mi consola. Anche se può darsi che siano invecchiati qua, nell’attesa.
Noi siamo come anestetizzati. Stefi è terrorizzata ma parla e si comporta come se tutto accadesse ad un’altra persona. Io siedo sulla mia panca.
Il primo tracciato, il primo gel, il secondo tracciato. Rischiamo di andare parecchio x le lunghe, dicono.
Io vengo immediatamente escluso e messo di guardia alle borse.
Poi vengo spedito al bar dove siedo accanto a un gruppo di anziani che discutono animatamente su “le bigioie rasá ch’a smiu ‘na testa calva” (le vulve rasate che somigliano a una testa senza capelli) e concordano sul fatto che è il pelo a fare la vera donna.
Immagino sia un argomento consueto nel bar di fronte all’ospedale.
Quando torno, la ragazza thailandese è sola e devo aiutare le ostetriche a parlare con lei, che continua a guardarmi con un sorridente sguardo interrogativo dal momento che il marito, che traduceva per lei, è andato a fare qualche documento.
Un bambino in lontananza piange con insistenza.
Ostetriche e ginecologi passano avanti e indietro avanti e indietro di fronte alla mia panca.
Da più di un’ora sono in mezzo alle mogli degli altri, ma della mia non c’è traccia.
Dopo un’iniziale incredulità (“Incinta? Io?”), avevamo avuto il nostro tempo per abituarci all’idea. Negli ultimi giorni però, la prospettiva del parto sembrava una cosa irreale, nonostante i discorsi di coppia, in famiglia e tra amici vertessero principalmente su quell’unico, ingombrante argomento.
Questione di ore, e invece di una pancia dura e semovente, poserò le mani su un essere nuovo. Al quale, ovviamente, potrei non piacere.
Ai bambini difficilmente piacciono le barbe e gli occhiali.
Cerco di distrarmi osservando le tette delle pazienti in giro per il reparto, calcolando mentalmente le misure, una quarta coppa D, una quinta coppa C…
Quando Stefi esce è già iniziato il travaglio. Siccome però il posto letto sarà a disposizione solo dopo le 14.00, la mandano a fare una passeggiata. Rigorosamente nello squallore del cortile dell’ospedale. Sono le 10.30, e più che una coppia in attesa di un figlio sembriamo due carcerati durante l’ora d’aria. Rettifico: le quattro ore d’aria.
La mia utilità in questo frangente è quella di misurare durata e frequenza delle contrazioni grazie ad una apposita app per iPhone.
Quando torniamo su, c’è la prima di una lunga serie di mamme e/o suocere che telefona ad alta voce nel corridoio: “No, Pasqua’, non è MORTO piccolo, ho detto che è MOLTO piccolo, molto…! Vabbuò ci sentiamo tra dieci minuti”.
Il tempo si scolora in toni di grigio tra una vasca in corridoio, una bottiglietta d’acqua al distributore, qualche sms, una nuova passeggiata in cortile, un tramezzino, una contrazione. Si fanno le 11, le 12.30, le 14.
La thailandese è sempre lì, immobile e sorridente con le mani sul pancione. Dice a Stefi “Room almost ready, I hope together, me and you…”.
Ma le stanze sono separate. Stefi finisce in una stanza con Deborah e Fatma, entrambe fortunatamente fautrici della finestra spalancata.
Le contrazioni sono sempre più forti. Grande è l’impotenza del maschio di fronte al dolore, che comunque la donna sa gestire in modo ineccepibile, limitandosi ad arpionare una coscia o una maniglia dell’amore del suo uomo (laddove io avrei probabilmente chiesto di “essere portato in ospedale” non rendendomi nemmeno conto di esserci già).
La soluzione delle ostetriche, superefficienti nel loro modo dolce e materno, è quella di continuare a collegare la pancia di Stefi a un cardiotomografo per seguire il tracciato di battiti e contrazioni. Solo che il cardiotomografo è vecchio, e i sensori sono un po’ ballerini. Ecco dunque che il maschio ha un nuovo importantissimo compito. Stare fermo stoicamente per 40 minuti con una mano piazzata sul sensore per non farlo muovere nemmeno quando la moglie si contorce come un verme preso all’amo. Nemmeno quando la moglie tenta di arpionargli i gioielli di famiglia.
Alle 16 La dilatazione è 2 cm, troppo poco per passare alla fase analgesia peridurale (nel frattempo Stefi riesce solo a biascicare la parola “Analgesiahhhhhh“, ma viene amorevolmente ignorata da tutti).
Si suggerisce una bella doccia calda di mezz’ora, al termine della quale, alle 18, la dilatazione è di 4 cm. Le ostetriche sembrano molto contente e dopo l’ennesimo tracciato cominciano a dire “Bravissima, dai che andiamo dall’anestesista” (un bieco trucco per placare Stefi, dato che ci voleva ancora una mezz’ora).
Alle 19, la frase magica: “Andiamo in sala parto“. Noi, che in sala parto ci aspettavamo di andare al più presto alle 22, subiamo un veloce reboot del cervello. Improvvisamente il compito più importante del marito (mi chiamano proprio così, “Marito, venga qua! Marito, vada di là”) è quello di trovare le mutande di rete e portarle strette strette in mano fino alla fine.
La frase magica seguente, come nel più trito dei luoghi comuni è “c’è una notizia buona e una cattiva: la buona è che in mezz’oretta sarà tutto finito, la cattiva è che ormai non c’è più tempo per l’anestes… OMMIODDIO si vede già la testa!!!“.
Poi un turbine di emozioni, urla demoniache, spinte, dammi più rabbia, soffia, ancora spinte, il tutto in dieci minuti in cui io avevo il compito di tenere la testa di Stefi ferma come nelle scene di elettroshock dei film di serial killer.
Alla fine esce questa creatura nuova. C’è il taglio del cordone, altro compito che spetta a me: non posso fare a meno di notare che sembra un budello di salsiccia, ed è anche un bel po’ resistente alle forbici chirurgiche.
Poi le prime due ore insieme da soli, la prima poppata, il bambino in braccio al papà, una nuova vita, un nuovo ruolo, una cosa per noi assolutamente incredibile eppure vera.
Adesso è il giorno dopo. Da qui si ricomincia.

CAMERETTA BLUES

Cameretta BluesAlcuni di voi – i meno cinefili, suppongo – potrebbero chiedersi il perché di una siffatta illustrazione per questo post. Gli altri avranno colto al volo il riferimento. Si tratta della faccia del futuro genitore in contemplazione del mistero della cameretta (poco importa che qui Mia Farrow abbia appena scoperto la natura infernale della sua progenie, la cameretta ha in sé comunque qualcosa di diabolico).

Manca un mese al lieto evento: fino a qui tutto bene. Ma ormai da qualche settimana la donna è in preda alla sindrome del nido. E il futuro padre ha due possibilità. Se ne batte il culo, come si suol dire, o si fa trascinare nel vortice della follia. Io, nel timore di essere marchiato come un porco maschilista che ha una visione antiquata della paternità e che non capisce che oggi la parità sessuale richiede un cambiamento di paradigma nella genitorialità, non ho avuto cuore di battermene il culo, credetemi. E quindi, ho dovuto capitolare.

Dunque, bisogna preparare il nido, la nursery, la famosa “cameretta” – o comunque un angolo di casa dedicato al nascituro, nell’ingenua convinzione che quello sarà il suo spazio, e lui/lei non uscirà dal suo recinto fatto di pupazzetti e lenzuolini colorati. Solo l’osservazione e il confronto con altri padri vi fanno giungere ben presto alla realizzazione che “la sua cameretta” sarà in realtà l’intera superficie di casa vostra (e della vostra macchina, e delle case dei nonni, etc).

Ma non divaghiamo. Nelle ultime settimane un manipolo di amici dal cuore d’oro ci hanno prestato una quantità di materiale che potrebbe tranquillamente riempire un container. All’inizio pensi che vogliano svuotare le cantine affibiandoti una serie di oggetti dall’utilizzo poco chiaro (la “sdraietta”, il “cuscino allattamento”, gli “sterilizzatori”, il “paracolpi”), ma dopo pochi giorni, complice la lettura di qualche libro sul magico mondo dei neonati, ti trovi a guardare questi amici con gli occhi a forma di cuore, prostrandoti dinnanzi a loro perché, diciamolo, ti stanno risparmiando un esborso che possiamo stimare in almeno un migliaio di euro. Per un futuro padre in preda al cameretta blues non c’è niente come le amiche e gli amici che prestano cose: in fondo è tutta energia genitoriale che si rimette in gioco in un circolo virtuoso.

Se avete uno spazio dedicato – una camera in più, insomma – tutte queste cose vengono ammassate lì e lì rimangono, fino al momento della sindrome del nido. Poi, bene o male, arriva il momento di organizzare tutto perché mica vuoi spostare mobili e montare armadi mentre il pupo è appena tornato a casa dall’ospedale? Il futuro padre medio qui assume uno sguardo del tipo “No?” e viene sistematicamente fulminato. Perciò, ecco cosa ho fatto in questa settimana di vacanza: ho svuotato parte dei mobili già presenti nella cameretta, buttando o stipando da qualche altra parte le mie cose. Ho spostato i suddetti mobili in modo da liberare un paio di pareti. Ho strategicamente posizionato uno di questi mobili accanto al fasciatoio (ricordate, senza fasciatoio non è vera cameretta). Ho riempito il suddetto mobile di pannolini, creme, detergenti, salviettine, perché qui non scherziamo mica, si vis pacem para bellum. Successivamente, organizzata una spedizione all’Ikea, ho acquistato un armadio componibile della serie Stuva, ho cooptato un giovane e prestante amico per montarlo limitando al massimo il numero e l’intensità delle bestemmie e infine l’ho riempito disordinatamente di micro-body, tutine, pigiamini, pantaloncini, scarpine e cappellini (all’ordine ci penserà poi la futura mamma). Infine ho posizionato la culla in mezzo alla stanza che dà quel tocco finale e diciamo così “definitivo” alla cameretta (nota bene, la culla è vagamente simile a quella di Rosemary’s Baby, per cui abbiamo evitato la copertura in tulle, se no sai che angoscia).

Quindi, adesso c’è tutto. L’angolo nanna, l’angolo allattamento, l’angolo cambio pannolino, l’angolo svago. È pieno di angoli. Come futuro padre, sono soddisfatto di aver fatto la mia parte, e guardo con un misto di tenerezza e orrore la mia primipara attempata che in preda ad un raptus lava tutto col Napisan e stira (un’azione che a onor del vero non compiva da 6 o 7 anni) financo i lenzuolini e i teli assorbi pipì. Lei ha il suo punto di vista, la sua borsa per il reparto maternità da preparare e una pancia che sobbalza ad ogni movimento del pupo. Io ho il mio, che è maschile e non verrà mai tenuto adeguatamente in considerazione. Perciò mi sfogo qui e vi propinerò una serie di post sui momenti chiave della paternità.

Ora vi saluto. Domattina devo svegliarmi presto perché alla Prenatal fanno un corso sulla perfetta organizzazione delle camerette.
Stamattina ci hanno fatto una telefonata minacciosa per ricordarci di essere presenti. Secondo me alla fine, tipo dimostrazione delle pentole, tenteranno di venderci qualcosa.
Ma noi siamo a posto: ci hanno già prestato tutto… 😉