PUNTO ZERO

PUNTO ZEROOspedale ostetrico ginecologico, ore 7.15. C’è già tutta un’umanità che vive e lavora mentre per me è ancora notte fonda.
Ci registriamo in accettazione e saliamo in reparto.
La coppia italo thailandese di fianco a noi si stupisce che Stefi debba già partorire, data la “sindrome della pancia invisibile”.
Gli dico “Yes, you know, my wife lost a lot of weight in the last few months”. La ragazza thailandese ha messo su 29 kg. Mi guarda con occhi spalancati e mi dice “My baby… My baby, you know… She’s a girl, she’s 4 kilos”.
C’è un capannello di papà con la polo color pastello, sembrano comunque più vecchi di me. Questo mi consola. Anche se può darsi che siano invecchiati qua, nell’attesa.
Noi siamo come anestetizzati. Stefi è terrorizzata ma parla e si comporta come se tutto accadesse ad un’altra persona. Io siedo sulla mia panca.
Il primo tracciato, il primo gel, il secondo tracciato. Rischiamo di andare parecchio x le lunghe, dicono.
Io vengo immediatamente escluso e messo di guardia alle borse.
Poi vengo spedito al bar dove siedo accanto a un gruppo di anziani che discutono animatamente su “le bigioie rasá ch’a smiu ‘na testa calva” (le vulve rasate che somigliano a una testa senza capelli) e concordano sul fatto che è il pelo a fare la vera donna.
Immagino sia un argomento consueto nel bar di fronte all’ospedale.
Quando torno, la ragazza thailandese è sola e devo aiutare le ostetriche a parlare con lei, che continua a guardarmi con un sorridente sguardo interrogativo dal momento che il marito, che traduceva per lei, è andato a fare qualche documento.
Un bambino in lontananza piange con insistenza.
Ostetriche e ginecologi passano avanti e indietro avanti e indietro di fronte alla mia panca.
Da più di un’ora sono in mezzo alle mogli degli altri, ma della mia non c’è traccia.
Dopo un’iniziale incredulità (“Incinta? Io?”), avevamo avuto il nostro tempo per abituarci all’idea. Negli ultimi giorni però, la prospettiva del parto sembrava una cosa irreale, nonostante i discorsi di coppia, in famiglia e tra amici vertessero principalmente su quell’unico, ingombrante argomento.
Questione di ore, e invece di una pancia dura e semovente, poserò le mani su un essere nuovo. Al quale, ovviamente, potrei non piacere.
Ai bambini difficilmente piacciono le barbe e gli occhiali.
Cerco di distrarmi osservando le tette delle pazienti in giro per il reparto, calcolando mentalmente le misure, una quarta coppa D, una quinta coppa C…
Quando Stefi esce è già iniziato il travaglio. Siccome però il posto letto sarà a disposizione solo dopo le 14.00, la mandano a fare una passeggiata. Rigorosamente nello squallore del cortile dell’ospedale. Sono le 10.30, e più che una coppia in attesa di un figlio sembriamo due carcerati durante l’ora d’aria. Rettifico: le quattro ore d’aria.
La mia utilità in questo frangente è quella di misurare durata e frequenza delle contrazioni grazie ad una apposita app per iPhone.
Quando torniamo su, c’è la prima di una lunga serie di mamme e/o suocere che telefona ad alta voce nel corridoio: “No, Pasqua’, non è MORTO piccolo, ho detto che è MOLTO piccolo, molto…! Vabbuò ci sentiamo tra dieci minuti”.
Il tempo si scolora in toni di grigio tra una vasca in corridoio, una bottiglietta d’acqua al distributore, qualche sms, una nuova passeggiata in cortile, un tramezzino, una contrazione. Si fanno le 11, le 12.30, le 14.
La thailandese è sempre lì, immobile e sorridente con le mani sul pancione. Dice a Stefi “Room almost ready, I hope together, me and you…”.
Ma le stanze sono separate. Stefi finisce in una stanza con Deborah e Fatma, entrambe fortunatamente fautrici della finestra spalancata.
Le contrazioni sono sempre più forti. Grande è l’impotenza del maschio di fronte al dolore, che comunque la donna sa gestire in modo ineccepibile, limitandosi ad arpionare una coscia o una maniglia dell’amore del suo uomo (laddove io avrei probabilmente chiesto di “essere portato in ospedale” non rendendomi nemmeno conto di esserci già).
La soluzione delle ostetriche, superefficienti nel loro modo dolce e materno, è quella di continuare a collegare la pancia di Stefi a un cardiotomografo per seguire il tracciato di battiti e contrazioni. Solo che il cardiotomografo è vecchio, e i sensori sono un po’ ballerini. Ecco dunque che il maschio ha un nuovo importantissimo compito. Stare fermo stoicamente per 40 minuti con una mano piazzata sul sensore per non farlo muovere nemmeno quando la moglie si contorce come un verme preso all’amo. Nemmeno quando la moglie tenta di arpionargli i gioielli di famiglia.
Alle 16 La dilatazione è 2 cm, troppo poco per passare alla fase analgesia peridurale (nel frattempo Stefi riesce solo a biascicare la parola “Analgesiahhhhhh“, ma viene amorevolmente ignorata da tutti).
Si suggerisce una bella doccia calda di mezz’ora, al termine della quale, alle 18, la dilatazione è di 4 cm. Le ostetriche sembrano molto contente e dopo l’ennesimo tracciato cominciano a dire “Bravissima, dai che andiamo dall’anestesista” (un bieco trucco per placare Stefi, dato che ci voleva ancora una mezz’ora).
Alle 19, la frase magica: “Andiamo in sala parto“. Noi, che in sala parto ci aspettavamo di andare al più presto alle 22, subiamo un veloce reboot del cervello. Improvvisamente il compito più importante del marito (mi chiamano proprio così, “Marito, venga qua! Marito, vada di là”) è quello di trovare le mutande di rete e portarle strette strette in mano fino alla fine.
La frase magica seguente, come nel più trito dei luoghi comuni è “c’è una notizia buona e una cattiva: la buona è che in mezz’oretta sarà tutto finito, la cattiva è che ormai non c’è più tempo per l’anestes… OMMIODDIO si vede già la testa!!!“.
Poi un turbine di emozioni, urla demoniache, spinte, dammi più rabbia, soffia, ancora spinte, il tutto in dieci minuti in cui io avevo il compito di tenere la testa di Stefi ferma come nelle scene di elettroshock dei film di serial killer.
Alla fine esce questa creatura nuova. C’è il taglio del cordone, altro compito che spetta a me: non posso fare a meno di notare che sembra un budello di salsiccia, ed è anche un bel po’ resistente alle forbici chirurgiche.
Poi le prime due ore insieme da soli, la prima poppata, il bambino in braccio al papà, una nuova vita, un nuovo ruolo, una cosa per noi assolutamente incredibile eppure vera.
Adesso è il giorno dopo. Da qui si ricomincia.

5 risposte a “PUNTO ZERO”

  1. Grazie a tutti dell’immenso affetto che ci fate arrivare, è tutto amore che entra in circolo e che vi rimandiamo come un raggio fotonico carico di cuoricini e gattini che fanno le fusa!!!

  2. La descrizione delle vostre emozioni non potrebbe essere più vera. .. la paura e l’emozione di una nuova vita. Buon inizio ragazzi, il bello deve ancora arrivare!!! 🙂

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