Nei giorni scorsi ho avuto modo di (ri)vedere tre film epocali. Intendiamoci, niente di trascendentale. Si tratta però di tre film che rappresentano con estrema precisione me stesso, o forse la mia generazione (anche se dubito che altri miei coetanei la penserebbero così). Il primo è Gli anni in tasca di Truffaut. Rappresenta la mia infanzia: lo vidi per la prima volta nel 1979, tre anni dopo la sua uscita, in una proiezione scolastica temo epurata di alcune scene (dubito che ci fosse la scena in cui si descrivevano le masturbazioni sotto il banco in classe, eravamo già abbastanza iperattivi senza bisogno di ispirazioni da parte dei film). Rivisto oggi, con quei pantaloni a zampa e le magliette attillate, le visite mediche tutti in fila con gli slippini e le colonie da poco "miste", l’ossessione di guardare le tette e i culi delle giovani mamme dei compagni, le bravate e le giornate spese in strada a raccattare monete perdute e tesori nascosti, le giostre con gli aeroplanini e le macchine d’epoca, mi fa talmente tanta tenerezza da farmi quasi star male. Ovviamente è un film che ho visto diverse volte negli anni, più che altro per motivi di studio. Oggi lo rivedo con l’occhio dello spettatore normale, cogliendo gli echi del ’77 nello splendido discorso finale del maestro. E penso che Truffaut aveva capito tutto, che vorrei che fosse ancora tra noi e che io sono terribilmente e irrimediabilmente invecchiato. Il secondo film è The Breakfast Club di John Hughes – il re Mida dei teen movie. Rappresenta la mia adolescenza. Basta dire che il pezzo clou della colonna sonora del film è Don’t You (Forget About Me) dei Simple Minds. Che sarà pure un pezzo tamarro, ma purtroppo per me e per voi che mi leggete fece da colonna sonora al mio primo vero bacio e al mio primo vero amore totalizzante e larger than life (lei adesso fa la traduttrice dallo spagnolo per qualche comitato zapatista… la meraviglia di Internet sta anche nello scovare le ex). Da noi uscì se non erro nell’85, un anno per me fondamentale: l’ultimo a Torino al ginnasio Gioberti, prima di partire per una trasferta di tre anni di liceo a Ivrea. Nel film cinque "tipi" anni ’80 sono rinchiusi per punizione in palestra a fare un tema dal titolo "Chi sono io?". Kammerspiel dalla sceneggiatura per me folgorante all’epoca (e comunque la reputo tuttora non banale), The Breakfast Club mi è rimasto impresso dentro più di La Boum e lì è rimasto, assopito, fino a questa nuova visione più di vent’anni dopo. Cortocircuito. Groppo in gola. Chapeau a John Hughes. Il terzo è Giovani, carini e disoccupati – un titolo di merda per tradurre il ben più significativo Reality Bites di un giovane Ben Stiller. Rappresenta la mia giovinezza, i miei anni ’90, il cazzeggio all’università, le canne sempre e comunque anche al posto del pranzo e della cena, lo stare svegli nel monolocale gelido a parlare bere e fumare fino alle 6 del mattino, vagare per la città, fare discorsi assurdi e non sentirsi parte di nulla (nemmeno quando ci hanno catalogato come Generazione X). Non sapendo ancora che più avanti sarei stato catalogato come Generazione 1000 Euro. Poi la laurea, e dietro l’angolo quattro stupendi anni di disoccupazione, sottooccupazione, lavori un giorno sì e due no, ma tutto sommato responsabilità zero. Con finale comunque amaro, perché la realtà morde, e fa male. A questo punto mi domando se esista (forse lo scoprirò col senno di poi) un film che mi rappresenti come sono adesso. Trentasei anni alla deriva, con qualche punto fermo che ogni tanto rischio di non vedere, uno che guarda la sua vita più spesso dall’esterno che non dall’interno (almeno più spesso di quanto vorrebbe), convinto di meritare qualcosa dalla vita quando in realtà non fa nulla per meritarlo, spesso scazzato, sempre meno incline ad approfondire, appassionarsi, discutere. In una parola sempre più vecchio. Se qualcuno ha il fim per me, me lo segnali. Io vado a scazzarmi da un’altra parte.
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