TRASFORMARE LA PORNOGRAFIA IN ARTE

La mostra di Robert Mapplethorpe che sta passando a Torino in questi mesi è assolutamente da vedere. Intanto è "la" mostra, nel senso che c’è praticamente tutto quanto è uscito dal suo obiettivo nei circa quindici anni della sua carriera di fotografo. E poi soprattutto per provare a vedere il mondo e noi stessi attraverso il suo occhio. Mapplethorpe è noto per essere il fotografo degli eccessi sessuali e omosessuali, il fotografo di Patti Smith, il ritrattista della New York off, il fotografo di omoni di colore con enormi attributi fallici, il fotografo sadomaso e perverso, il fotografo della purezza della forma. Per me Mapplethorpe è tutto questo insieme, ma in più la mostra evidenzia per così dire il suo debito nei confronti dell’arte classica, ponendo a confronto certi suoi stilemi con la scultura di Canova (e prima ancora quella classica greco-romana), con la pittura di Ingres, Géricault e Courbet, con la fotografia di Von Gloeden e Man Ray (altri due maestri dell’erotismo ambiguo). Come ha fatto Mapplethorpe a trasformare la pornografia estrema in arte? Semplice: ha trovato delle foto porno e ha pensato "Perché non potrei renderla arte studiandone la forma? In fondo non ci ha mai provato nessuno". Ed ecco che nasce il mito. Un percorso come il suo non sarebbe più possibile oggi, lo riconosceva lui stesso poco prima di morire nel 1989. Adesso intorno a noi c’è solo pornografia e purtroppo senza nessun filtro "artistico" o di forma. La sua frase che più ho apprezzato, riportata su un muro della mostra, è (parafrasando perché non la ricordo a memoria): "Fotografare un fiore o un pene per me è la stessa identica cosa: è tutta una questione di luce e di contorni". Certo è che la mostra ha il suo coté pruriginoso (hanno creato "la stanza nera" vietata ai minori con gli scatti più estremi)…! Per me l’unico problema è che un uomo si potrebbe anche sentire inadeguato vedendo tutte queste gioiose efflorescenze genitali. Comunque vale la pena. Anche il catalogo è bellissimo. Andateci.

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