EVA CONTRO EVA MA BODY HORROR: THE SUBSTANCE

Dopo Revenge – e passato un numero sufficiente di anni da essersi dimenticati di Coralie Fargeat – ecco che la regista francese torna con The Substance, un film assolutamente matto e disperatissimo, lungo e “dettagliato” (riprese macro così le ricordo in Requiem for a Dream per citare un altro film pesantissimo) che però non lascia il tempo che trova. Proprio per niente. 

Demi Moore è immensa (e tendenzialmente quasi sempre nuda, ma il dettaglio anatomico è una cifra del film) nel ruolo della “vecchia gloria” Elizabeth Sparks. Prima di vedere lei, vediamo la sua stella nella walk of fame in una sorta di lunga e insistita metafora di quello che accadrà a lei. 

Elizabeth vive nel peggior ambiente patriarcale possibile, in cui il suo corpo, la sua bellezza (unico capitale spendibile) e la sua immagine vengono divorate digerite e sputate dal sistema, personificato in un laidissimo Dennis Quaid dirigente TV.  Ma Elizabeth viene in contatto con THE SUBSTANCE, un siero che promette di creare un suo “doppio” giovane e bello. Con alcune regole da seguire, però, tutte scritte in caps. Tipo USARE UNA SOLA VOLTA, STABILIZZARSI, ALTERNARSI OGNI 7 GIORNI SENZA ECCEZIONI e SCAMBIARSI. 

E niente, lÌ parte il body horror, che non sto nemmeno a citarvi Cronenberg perché nella seconda parte del film la Fargeat va in modalità “full Brian Yuzna”, gareggiando per effetti speciali prostetici con il campione indiscusso dell’anno (Terrifier 3).  Ma The Substance (anzi THE SUBSTANCE) non è proprio un film horror, è un dramma alla Eva contro Eva dal momento in cui la giovane doppelgänger Sue (Margaret Qualley, anche lei tendenzialmente quasi sempre nuda) non ci sta a seguire tutte le regole. 

Cosa potrà mai andare storto? Il finale vira sul lynchiano (il Lynch di The Elephant Man) prima di esplodere in un tripudio di sangue, urla e interiora. THE SUBSTANCE è un po’ cautionary tale, un po’ fiaba femminista nella misura in cui dipinge un mondo in cui la donna esiste solo per lo sguardo maschile (maschi tutti grotteschi senza eccezione alcuna) e un po’ character study di una donna che odia sé stessa a tal punto da voler rinascere e poi annientarsi, tutto da sola. 

La solitudine, la vecchiaia, il vuoto interiore: i temi sono questi. THE SUBSTANCE è un po’ una variazione al femminile sul tema del ritratto di Dorian Gray, ma – ripeto – con tante secchiate di sangue in faccia… e quindi il film è bellissimo.

PARTHENOPE, L’ARTE DEL VEDERE

Parthenope di Sorrentino ha fatto incazzare a morte la critica anglosassone, che lo ha definito “lo spot di un profumo lungo due ore“. Per onestà va detto che anche io, sui titoli di testa ho pensato la stessa cosa, e del resto tra i produttori figura anche la Saint Laurent Productions e questo vorrà pur dire qualcosa. Tutti si stracciano le vesti perché Sorrentino ha fatto un film con una protagonista donna, dove si fuma a pacchi, dove tutti quelli che vedono Parthenope in un modo o nell’altro se la vogliono portare a letto e dove ci sono le tradizionali scene sordide / assurde / blasfeme (ma sempre elegantissime) che abbiamo imparato ad amare.

Ma è Sorrentino, baby. Cosa pretendi. Non posso dire che Parthenope sia il mio film preferito di Sorrentino: ad esempio ho preferito È stata la mano di Dio (che in un certo senso è l’alter ego filmico sempre napoletano di Parthenope). Parthenope è letteralmente farcito di frasi ad effetto (le “sorrentinate”), di immagini bellissime e avvolgenti, di momenti di pura poesia visiva… pure troppo, al limite dell’autocitazione.

Però… Sorrentino stesso ha detto di fare in fondo sempre lo stesso film, e qui è come assistere a un suo flusso di coscienza che mescola metafore e personificazioni, ricerca della bellezza, della giovinezza, di un senso della vita che alla fine può stare solo nell’ironia. Il film non ha trama perché la vita non ha trama, e Partenope (Celeste Dalla Porta, magnificamente espressiva) passa attraverso innumerevoli esperienze, d’amore e di conoscenza, dal rapporto quasi incestuoso col fratello a quello con l’amico d’infanzia, dal camorrista (incredibile la scena della “fusione” tra famiglie criminali) all’attrice in disgrazia, dal ricco industriale al professore di antropologia (Silvio Orlando in uno dei suoi ruoli migliori), dal cardinale preposto al miracolo di San Gennaro (Peppe Lanzetta) all’incontro con il “mostruoso” che forse è il momento in cui – nella testa di Partenope – tutto acquista un senso.

In Parthenope ci si immerge come in un sogno liquido, in acqua e sale: è un film pieno di difetti, molto spesso autocompiaciuto, ma che riempie gli occhi. Magari non va al di là di questo, come invece succede in altri film di Sorrentino meno debordanti. Ma i film brutti sono altri, con buona pace del Guardian.

FROM DUSK TIL PRISCILLA: SLAY

Slay è una horror comedy canadese diretta da Jem Gallard. E niente, farebbe già ridere così. Ma Slay è anche un film di vampiri buzzurri le cui quattro protagoniste sono uscite da RuPaul’s Drag Race: Trinity the Tuck, Heidi N Closet, Crystal Methyd e Cara Melle. Come anche il più stordito di voi potrà immaginare, il film è un pazzo pazzo crossover (anche riuscito, devo dire) tra From Dusk Til Dawn di Robert Rodriguez e Priscilla Queen of the Desert di Stephan Elliott.

Anni ’90 a pacchi, insomma, per un divertimento che più camp non si può: si inizia con un succhiasangue che contagia un redneck e si prosegue con le quattro favolosissime drag queen che viaggiano in camper verso il successivo locale dove dovrebbero esibirsi, sbagliando clamorosamente posto e finendo nel buco del culo del mondo.

Lo spettacolo ovviamente è accolto male, nonostante un paio di superfan in prima fila, un tecnico luci interessato e un titolare non troppo omofobico. Il buzzurro vampirizzato all’inizio, però, ben presto fa irruzione nel locale e stacca un pezzo di collo a un altro avventore. I vampiri si moltiplicano e così le drag queen e i sopravvissuti devono barricarsi dentro, scegliendo di collaborare contro i non morti e di non farsi la guerra tra loro.

Assolutamente prevedibile e molto meta (spesso i personaggi commentano le soluzioni registiche “al risparmio”, all’insegna dell’odìmo, come ci insegna Boris), Slay ha una freschezza e una sfacciataggine che lo candidano a diventare un vero cult movie. Se lo trovate in giro, non perdetelo.