NO ONE WILL SAVE YOU: E GLI ALIENI, MUTI!

No One Will Save You è il film che Disney+ non sta promuovendo moltissimo ma che invece dovreste vedere, se non altro perché è un thriller completamente muto. Cioè, i rumori ci sono, ma è senza dialoghi. Cioè, qualche parola forse la dicono ma evidentemente mi ero distratto mentre la dicevano perché a me è sembrato proprio muto muto.

Vabbè, questo per quanto riguarda il gimmick, che ormai se non c’è il gimmick (film girato senza stacchi un un unico piano sequenza, film illuminato solo con candele di sego, film la cui colonna sonora è fatta solo di rumori organici) non li vogliamo.

A parte gli scherzi, No One Will Save You è abbastanza una gradita sorpresa, perché è un thriller del sottogenere “home invasion” che fa stare col culo stretto anche nei suoi momenti più prevedibili e che ha un suo perché anche per il fatto che i visitatori sono… alieni. No, dai, non è uno spoiler, si capisce dal raggio traente che è già nel poster, figuratevi dal trailer.

Al regista Brian Duffeld non gli davo due lire, e invece. Vedi cosa succede a prendere il soggetto di uno dei più famosi film mai realizzati della storia del cinema (Night Skies di Spielberg) e fare il film sui rapimenti alieni che tutti aspettavano?

Poi il film ha anche dei difetti, tipo che non potendo fare gli spiegoni a voce cerca goffamente di farli per iscritto, oppure non spiega e tu ti chiedi perché la protagonista (la pur bravissima Kaytlin Dever) si diletta nel costruire diorami di leziose città in miniatura.

Gli extraterrestri arrivano con i dischi volanti (giuro, quelli “tradizionali”) e hanno un design a metà strada tra i classici omini verdi e il Mind Flayer di Stranger Things. Inoltre fanno lo scherzone del parassita inserito negli umani che fa molto “invasione degli ultracorpi”.

Insomma, se vi piace la fantascienza hardcore e vi siete rotti di sentire tutti questi dialoghi interminabili nei film, No One Will Save You è il film che fa per voi!

EL CONDE: LA DITTATURA IMMORTALE

Passato a Venezia e approdato su Netflix, ecco El Conde di Pablo Larrain, un regista che mi aveva fatto gridare al miracolo quando nel 2008 vinse a Torino con Tony Manero e che poi non ho più seguito (o meglio, quando l’ho seguito avevo un po’ storto il naso per i suoi biopic femminili, tipo Jackie o Spencer).

El Conde è una sorta di pietra tombale (è proprio il caso di dirlo) sulla dittatura cilena di Pinochet, un apologo surreale e a tinte horror sulla vecchiaia del “conte” – che è effettivamente un vampiro con mantello, canini appuntiti e tutto – tra gli intrallazzi dei familiari che vorrebbero i suoi soldi, le velleità della moglie che lo tradisce con il maggiordomo russo (vampiro anche lui) e l’assurda missione in incognito di una suora/esorcista mandata dal vaticano a distruggere i Pinochet un po’ con i crocifissi un po’ con l’analisi dei libri contabili.

Formalmente El Conde funziona benissimo, ha una fotografia molto interessante, soluzioni visive debitrici di un tardo Bunuel, diverse sequenze che rimangono impresse (la catena di omicidi all’inizio, i frullati di cuori umani, l’epilogo della relazione tra suora e vampiro, per esempio). Se si guarda meramente al lato horror bisogna ammettere che Larrain non lesina sull’ultraviolenza e sugli effetti splatter.

C’è secondo me un po’ di confusione nel racconto che però essendo “fantastico” procede su binari suoi e forse va bene così. Molto divertente la genesi del supervillain Augusto Pinochet nato Claude Pinoche durante la rivoluzione francese dalla relazione tra una donna e uno strigoi. Quando si scopre chi è la donna in questione (che è anche la narratrice del film) c’è da cappottarsi.

L’epilogo – amarissimo – è nella Santiago di oggi, a colori, e non lascia presagire molto di buono: i fascismi si rigenerano sempre.

ASTEROID CITY E IL CONTROLLO VISIVO

Wes Anderson o lo ami o lo odi. A volte lo odi e lo ami nello stesso tempo. Asteroid City è sicuramente un viaggio più a fuoco che non The French Dispatch, che mi aveva lasciato un po’ indifferente.

In Asteroid City chiunque potrà trovare ciò che più ama o ciò che più odia di Anderson: i colori pastello, la fotografia desaturata (comunque qui è tutto anamorfico con pellicola Kodak vintage), i salti di formato da anamorfico a 4:3 e da colore in bianco e nero, la recitazione brechtiana, veloce e monotona, le carrellate a destra e a sinistra a svelare, i frame dentro ai frame, la mise en abÎme, lo split screen, la costruzione maniacale dell’inquadratura per accumulo e l’ossessione per il “tutto in campo”, l’animazione in stop motion, i modellini, il cast all-star, i costumi improbabili (comunque Milena Canonero, mica pizza e fichi).

Fatto tutto questo elenco molto andersoniano, com’è Asteroid City? Verso la fine gli attori intonano un canto del tipo “non ti puoi svegliare se non ti sei prima addormentato“. Diciamo che alcuni spettatori potrebbero correre il rischio (di addormentarsi, dico). Stai sempre sul sottile confine che separa il capolavoro dal “ma vaffanculo” ogni volta che vengono recitate battute come “Io amo la gravità”. 

Come quasi tutti i film di Anderson, anche Asteroid City procede per accumulo: di personaggi, di storie, di momenti slegati, e ci aggiunge l’espediente della costruzione a matrioska. Stiamo assistendo a un film che in realtà è un’opera teatrale dalla scenografia molto ben realizzata, che si svolge in un teatro di New York dove un commediografo scrive e pensa, un regista dirige, il cast di attori entra ed esce dal personaggio e una sorta di presentatore extradiegetico illustra la storia e la storia nella storia (trovandosi poi in un momento esilarante in campo durante una scena del film nel film). 

Gli attori di grandissimo richiamo li vedete tutti nel trailer: per chi si chiedesse dove diamine stanno Jeff Goldblum e Margot Robbie, li si vede pochissimo perché hanno un ruolo fondamentale ma con poco screen time. La loro presenza riguarda gli unici due spoiler che è meglio non fare sul film.

Insomma, se vi piace Wes Anderson (se vi piace il controllo visivo maniacale su un mondo che è frutto della mente di uno che si veste di velluto a coste nel 2023, per dire) è sicuramente da vedere, se lo odiate… ehm, magari no.
Io l’ho amodiato (o odiamato) come sempre