IF: AMICI IMMAGINARI E LACRIME AMARE

Pensavo che IF fosse un ottimo film per famiglie da vedere con la Creatura: mi sbagliavo. Cioè: è comunque un buon film, John Krasinski è un grande e sa il fatto suo, c’è un’ottima CGI che mescola il mondo degli IF (Imaginary Friends) con quello reale e soprattutto uno spunto preso di peso da una delle idee più di successo della Pixar. Ma è un film che non va bene per i bambini.

Mi spiego. IF prende la storia di Bing Bong, l’amico immaginario di Riley nel primo Inside Out, che già di suo faceva piangere a mille, espandendola in una sorta di universo parallelo in cui vivono tutti gli amici immaginari dei bambini che nel frattempo sono diventati adulti e che quindi si sono dimenticati di loro. Tutti questi IF vivono in una RSA per amici immaginari nei sotterranei di Coney Island. Cioè, ma vi immaginate una roba più triste di così?

In più il film comincia con la protagonista, la dodicenne Bea, che ha visto la madre morire di tumore, tornare nel temutissimo ospedale perché adesso è il padre (John Krasinski) a dover subire un’operazione al cuore. Lei quindi sta con la nonna (Fiona Shaw, meravigliosamente svagata) nell’appartamento in cui tutta la famiglia viveva anni prima. 

Metteteci un primo atto un po’ lento e confuso, fino al momento in cui non entrano in scena i primi IF (Blue, doppiato da Steve Carrell e Blossom, da Phoebe Waller Bridge) e capite che i bambini si deprimono e si rompono le palle. Almeno, il mio vuole vedere solo cose divertenti pazze e spensierate e l’accoppiata tumore, malattia di cuore, amici immaginari tristi perché i bambini crescono e non li pensano più… l’ha trovata un po’ deprimente.

Io ho pianto moltissimo (piangiometro direi almeno a 9.2) e devo dire che nonostante il film venga venduto come una commedia, ci ho trovato pochissimo da ridere. C’è piuttosto molta curiosità nel sentire le diverse voci, tutte di attori famosi e molto amati, della comunità di IF che nella parte migliore del film si scatena a New York. Sono tutti diversissimi l’uno dall’altro e mi hanno ricordato i personaggi di Gumball, animati in modo differente su sfondi realistici.

E per quanto riguarda il “mistero” che circonda il personaggio di Cal (Ryan Reynolds) che aiuta Bea a ricongiungere IF e adulti bisognosi: lo svelano sul finale ma si capisce dal primo momento in cui Reynolds è in scena, quindi boh. Comunque interessante. E, ripeto, perfetto per farsi un bel pianto. Senza bambini.

L’ATTO DI VEDERE: CIVIL WAR

Mi aspettavo che Civil War di Alex Garland fosse essenzialmente un film distopico su dove può finire politicamente l’America nel 2025. In realtà il focus è leggermente diverso. Garland riesce a prendere questo spunto, distillarlo fino a fargli perdere quasi ogni connotazione politica o legame con l’attualità (giusto Nick Offerman nel ruolo del presidente all’inizio è vagamente trumpiano) e infine proporre un film “semplicemente” sull’idea di guerra, o meglio sull’idea visiva della guerra che hanno i fotografi di guerra.

Civil War è indubbiamente un film molto crudo, diverso da altri film incentrati su reporter di guerra e – per dire – più simile all’isteria visiva di un film come The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Il lavoro sulla fotografia e sul sonoro è incredibile, e del resto l’insistenza è proprio sull’atto del vedere. I tentativi di capire la situazione, come spiegano i due soldati alle prese con un cecchino a metà del film, sono inutili. Tutto si riduce a “c’è uno che mi vuole uccidere, lo uccido io per primo”.

Lee (Kristen Dunst) è la fotoreporter navigata, che dopo decenni di orrori testimoniati ha l’anima atrofizzata. Jessie (Cailee Spaeny) è invece la novellina che vorrebbe farsi le ossa e comincia ora a guardare la morte negli occhi, sentendosi terrorizzata ma “mai così viva”. Insieme a Sammy, un vecchio reporter del NYT e a Joel, le due fotografe attraversano gli states per una sorta di missione impossibile: intervistare il presidente a Washington prima che venga ucciso da un non meglio identificato esercito secessionista.

Il cuore del film – peraltro una lunga sequenza di orrori che culmina in una scena agghiacciante con Jesse Plemons – è la battuta di Lee a Jesse che più o meno recita: non sta a noi porci delle questioni morali, noi documentiamo, poi sta alla gente che guarda le nostre foto farsi delle domande.

Evidentemente, come scopre Lee nel film, la gente comune queste domande se le pone troppo poco.

ORLANDO, MY POLITICAL BIOGRAPHY: UN FILM NON BINARIO

Questo Orlando, My Political Biography di Paul B. Preciado è un film… non binario. Nel senso che è in equilibrio precario (e non decide mai per una parte o per l’altra) tra il documentario e la fiction. Rispetto al precedente Orlando di Sally Potter (1992), una trasposizione del romanzo di Virgina Woolf che comunque è già di suo intitolato “Orlando: a biography”, il film di Preciado si struttura invece come una “risposta” a Woolf.

“Perché non scrivi la tua autobiografia?” Chiedono a Preciado. “Perché quella stronza di Virginia Woolf l’ha scritta al posto mio nel 1928“, è la risposta. Dato il noto status di culto nella comunità trans di Orlando, Preciado costruisce un racconto godardiano a più voci in cui 25 attori trans tra gli 8 e i 70 anni interpretano il protagonista dichiarando ogni volta “Sono nome, cognome e in questo film interpreto Orlando di Virginia Woolf”.

Ci sono brani del romanzo messi in scena con piglio antinaturalistico e teatrale ma molto suggestivo (le catacombe, l’incontro invernale con Sasha, il risveglio dopo sette giorni di sonno nei panni di una donna). Ci sono poi diversi momenti in cui con naturalezza gli attori gettano la maschera e parlano delle loro esperienze personali di uomini e donne trans.

Orlando è una biografia politica, come dice il titolo, anche nella misura in cui secondo Preciado il mondo si sta orlandizzando sempre di più, e la legge dovrebbe seguire naturalmente questa evoluzione. A proposito di legge: al termine del film, cameo gustosissimo di Virginie Despentes nei panni del giudice di Orlando. Si trova da pochissimo, miracolosamente, su Mubi.