BACK TO MINE

All’inizio del secolo c’era questa collana di album intitolata “Back To Mine“. Band come gli Everything But The Girl, i Morcheeba, gli Orbital, gli Underworld o i Groove Armada apparivano in catalogo producendo quelle che allora si chiamavano compilation di brani altrui mixate insieme secondo il loro personale gusto. Per me erano un piccolo cult personale (ho adorato anche le uscite di Prodigy e Royksopp). Ma in questo post non voglio parlare di musica, era solo il gancio per giustificare il titolo.

Back to mine vuol dire “ritorno alla roba mia“, ritorno a qualcosa che magari avevi un po’ perso per strada e che invece hai improvvisamente voglia di ritrovare, di rivitalizzare. OK, ci metterò sicuramente un po’ a scrivere questo post, che arriva dopo circa 15 anni di tempo “diverso”. Quello che leggete adesso è il frutto di un work in progress mentale che dura da alcuni mesi.

Questo blog è un blog personale. La sua tagline è “cultura generale digitale” perché io sono sempre stato (e mi sono sempre sentito) una sorta di divulgatore di quella che è la digital culture in senso lato e poi sì, sono anche un nerd vecchio stampo, per cui adoro parlare di tutto quanto fa pop culture. Ma è comunque un blog personale.

Io lavoro nel campo da più di 25 anni, praticamente metà della mia vita. Faccio il digital communication specialist (almeno così sta scritto sul mio profilo LinkedIn) e insegno storia dei media digitali. Insegno… diciamo che coinvolgo, fornisco background e scenari per alimentare la curiosità e gli approfondimenti sulla materia. Quindi, OK, forse insegno veramente. Questo aspetto di me non è mai apparso in questa sede perché… non so nemmeno io perché.

A metà degli anni ’90 il web era il fenomeno del momento. Il concetto di ipertesto (che – seppur dato per scontato – ancora oggi mi sembra rivoluzionario nell’approccio ai contenuti) aveva la stessa portata mind blowing che oggi tendiamo a dare alle evoluzioni di OpenAI, di ChatGPT, di Midjourney e Dall-E.

Nel 1999 Douglas Adams (indiscutibilmente uno dei miei spiriti guida) scrive un breve saggio intitolato kubrickianamente “How to Stop Worrying and Learn to Love the Internet“. In questo saggio si inventa le famose tre regole sul nostro rapporto con la tecnologia che grosso modo si possono tradurre così:

1) Tutto quello che si trova nel mondo alla tua nascita è dato per scontato.
2) Tutto quello che viene inventato tra la tua nascita e i tuoi trent’anni è incredibilmente eccitante e creativo e se hai fortuna puoi costruirci sopra la tua carriera.
3) Tutto quello che viene inventato dopo i tuoi trent’anni è un’offesa all’ordine naturale delle cose, è l’inizio della fine della civiltà e solo dopo essere stato in circolazione per almeno dieci anni torna a essere abbastanza normale.
Douglas Adams

Queste tre regole (che ormai puoi trovare su tutti i siti di citazioni e frasi motivazionali un tanto al chilo) sono simpatiche, contengono una grande verità e al tempo stesso sono paradossali, un po’ come tutto quello che è uscito negli anni dalla penna di Adams. Se le applico alla mia esperienza personale, è ovvio che l’ascesa del web negli anni della mia formazione universitaria, tra il 1990 e il 1995 ha pesato molto sulle mie opportunità di carriera. Ho avuto la fortuna di immergermi fino alle punte dei capelli in quel tipo di cultura nonostante arrivassi da un liceo classico e da una scelta universitaria prevalentemente legata all’audiovisivo, al cinema e alla comunicazione pubblicitaria.

Sempre guardando alla mia esperienza personale, ancora oggi che ho più di 50 anni e faccio parte della prima generazione che sta “invecchiando in rete, non ho smesso di essere curioso e di analizzare ogni fenomeno che esce fuori (consapevole che il ciclo dell’hype è sempre più frenetico e famelico). Tra i 22 e i 32 anni ho avuto un sito web in cui immagazzinavo tutto quanto mi piaceva. A 33 anni ho scoperto il web 2.0 e me ne sono innamorato subito. Il web 2.0 mi permetteva di mettermi in gioco personalmente, era una bellissima utopia di come il mondo reale avrebbe potuto essere influenzato e plasmato da quello virtuale (perdonatemi, a quel tempo si faceva ancora questa distinzione ormai inutile).

Questo blog è on line da 20 anni (il compleanno lo festeggiamo al 10 novembre, data del mio primo post). Ma già dopo cinque anni il web 2.0 e la sorpresa insita nel fatto che non scrivevo più “solo per me” ma per un nutrito gruppo di impallinati che come me condividevano la passione per il blogging era un po’ scemata. Il Web 2.0 si stava trasformando in “social web” e prima Twitter, poi Facebook, poi Tumblr, e a seguire Instagram, Pinterest, Snapchat e TikTok hanno cominciato a spezzettare in tanti frammenti sempre più piccoli quell’attenzione che non a caso è protagonista del nuovo modello economico / di marketing prevalente.

Sebbene fossi già ben oltre i 30, mi sono buttato senza esitazioni nel social web, inizialmente convinto che questa potesse essere una “naturale” evoluzione di un web in cui i produttori di contenuto potessero trovare non dico un posto al sole, ma un’opportunità per far sentire la propria voce. Nel giro di una decina d’anni i blogger sono diventati prima youtuber, poi influencer, infine creator. Ovviamente i social (e il loro modello di business, perché ogni social è un’azienda con i suoi ricavi e i suoi bilanci, ma sembra che la maggioranza lo stia scoprendo solo negli ultimi anni) non hanno migliorato il mondo.

O meglio, il nostro utilizzo dei social non lo ha fatto. Perché sappiamo bene che si tratta di strumenti come altri, non dotati di per sé di una propria agenda – ma strumenti cui fare attenzione perché sono, diciamo così, in affitto e non di nostra proprietà.  Strumenti che possono essere facilmente piegati alla generazione di fango, odio, prevaricazione, radicalizzazione.

Se guardo agli ultimi 5 anni, e alla misura in cui la produzione di contenuti per i social è diventata una delle due parti preponderanti del mio lavoro quotidiano (l’altra fetta grossa se la prendono la grafica e i video, spesso comunque declinati in funzione social), mi rendo conto che a poco a poco è cresciuta una disaffezione personale nei confronti delle piattaforme. Oggi non provo più “piacere” a scorrere le timeline. Le notizie – nonostante tutte le vicissitudini decennali che hanno visto Facebook e Google interfacciarsi con il sistema dei media tradizionali – continuo da anni a leggerle sul mio (accuratamente settato) feed reader. Il senso dei social non è nemmeno più “seguire e farti seguire” dai tuoi amici / contatti / affini, ma è sostanzialmente il personal branding. Un concetto che al momento mi pesa più che interessarmi.

Ma ci sono state, nel tempo, delle spie. Ho iniziato a riportare su Facebook le recensioni che scrivevo su Letterboxd (piccolo inciso: Letterboxd è l’unico social che uso costantemente e che trovo utile, anche se molto verticale – se siete lì seguiamoci), solo per il fatto che comunque ho una base di follower sui social di Meta che spiacerebbe bruciare. Ho iniziato poi a raccogliere queste recensioni ogni mese qui sul blog e sul progetto gemello di Medium, che in sostanza è un mirror di questo blog e devo ancora capire se abbia più senso migrare lì e basta oppure no (ma, di nuovo: è una piattaforma proprietaria con le sue regole).

Nel frattempo, molti creator “storici” (chiamiamoli così, sono i miei fellow genxers o in alcuni casi illuminati millennial) hanno iniziato a proporsi come curatori di newsletter. Un mezzo che mi interessa molto ma che non ho ancora mai praticato per due motivi: primo, non credo proprio di avere la costanza di scrivere uno zibaldone alla settimana e secondo, quando comincio a digitare non riesco a staccarmi dal formato longform.

Ad oggi, di newsletter, ne seguo molte. Seguo Polpette di Vanz e Koselig di Mafe (ma ricordo ancora maestrinipercaso.it), seguo Ellissi di Valesio Bassan e Zio di Vincenzo Marino, seguo Heavy Meta di Lorenzo Fantoni e Link Molto Belli di Pietro Minto, [mini]marketing di Gianluca Diegoli e Between the Lines di Ella Marciello, Fuori le serie di Nicola Cupperi e Servizio a domicilio di Giulia Blasi, Slow News di Alberto Puliafito e Scrolling Infinito di Andrea Girolami… e potrei continuare. Insomma, questo se vogliamo è il mio nuovo blogroll, tutto ordinatamente archiviato su Gmail.

Questa tendenza in atto da qualche anno mi fa sempre più pensare a… no, non a iniziare una newsletter o un podcast (non so, eh… mai dire mai). Ma quantomeno a riprendermi ciò che è mio, a tornare al piacere della parola scritta e del flusso di coscienza, ché i reel sono fighi e sono anche loro nelle mie corde, ma i post lunghi di più.

Ecco, se mi avete letto fino a qui, tutto questo pippone era probabilmente per dire a me stesso e a voi (25) lettori che preferisco tornare alla roba mia e che vorrei spolverare queste stanze disabitate per troppo tempo e tornare a scrivere un po’ qui. Non semplicemente riciclando qui contenuti che ho prodotto per altre piattaforme, ma piuttosto (se è il caso) spammando sulle piattaforme contenuti che produco qui. A casa mia. Per me.
E anche per voi
, perché non è mai vero che si scrive solo per sé stessi.

FISSARE I PENSIERI AL MURO

Tra poco ricomincia la giostra e io non posso fermarla.

Morire durante le feste è una roba orribile, ma in effetti lascia a chi resta il tempo di stare in una sorta di bolla sospesa in cui ci stanno le onoranze funebri, i funerali, i rosari, le tumulazioni e tutte cose.

Ti lascia anche il tempo di affollarti la testa di pensieri confusi che rimbalzano nella testa e si mischiano. Per esempio, io mi sveglio e penso che ci sono un tot di robe da fare, che c’è la pratica dell’UVG per pagare meno la RSA, che c’è il problema del neuropsichiatra, che ci sono mille cazzi continui, e poi mi ricordo che no, che adesso sei morta, così, de botto, senza un perché.

E quindi sì, ci sono dei problemi da risolvere ma sono tutti altri problemi: la casa vuota, le utenze domestiche da sospendere, cosa vendere, cosa tenere. Problemi pratici, come la lapide che è ancora da mettere sulla tua celletta che poi cazzo non ti sbagliare a chiamarla loculo che parte un fraintendimento burocratico che lèvati.

E quindi questo 2023 comincia così: quella sensazione che potrei venirti a trovare incastrando i soliti tremila impegni settimanali ma poi no, non c’è più nessuno da andare a trovare. E comunque ogni volta che venivo a trovarti era sempre tutto una merda, volevi morire e infatti alla fine sei stata accontentata.

Però tutte le volte che passo davanti ai banchi del mercato dove vendono le famose maglie che ti piacevano penso “Peccato, non potremo più comprarti una maglia”. L’ultima che ti abbiamo regalato te l’ho fatta mettere nella cassa, un po’ come le sepolture egizie, fai il tuo viaggio con gli oggetti che ti piacciono. Volevo metterti le boccette di profumo nell’urna delle ceneri poi non ci stavano, ho optato per il tuo orologio. E a proposito di profumi, in farmacia hanno ricominciato a vendere quelle boccette a 5 euro di cui facevi collezione, ma non te le prenderò più.

La cosa strana è sentire che non sono più “figlio”. Sono “marito”, “padre”, “amico”, ma il ruolo di figlio non lo devo più interpretare. Che poi diciamocelo, negli ultimi 15 anni (soprattutto negli ultimi 5) è stato un ruolo bello scomodo, quindi da questo punto di vista per me è anche un sollievo. Ma sai che c’è. La persona muore, ma la relazione no, quindi posso essere titolato a sentirmi comunque anche figlio.

Purtroppo l’amore tra genitori e figli è costituzionalmente destinato a finire male. Prima i figli se ne vanno e poi i genitori muoiono. Pare sia l’ordine naturale delle cose.

Io mi butto nelle cose pratiche, perché sono fatto così. Anche perché le cose pratiche mi romperanno il cazzo per minimo un anno. Vorrei per esempio regalare il tuo pianoforte all’RSA che ti ha ospitato negli ultimi mesi. Tu non lo suonavi da più di 20 anni, ma lì magari può ancora rallegrare qualcuno.

Stavolta non è come quando è morto papà, lì c’era molto più sclero. Stavolta ci sono solo io, mi hai fatto lo scherzone ma io me lo aspettavo. Diciamo che era un anno che mi preparavo a questo momento e che lo vivevo un pochettino dentro di me. E quando è arrivato non è che ha fatto meno male, ma avevo più strumenti.

Mi spiace per le cose che potevamo ancora fare insieme e non faremo più, ma mi rendo conto che forse tu non avevi più voglia di fare niente.
E va bene così.

LO SPETTRO DELLA DIVERSITÀ

Di seguito c’è una serie di pensieri a volte confusi che devo buttare giù per fermarli, vedere se riesco a dargli un filo logico. Per esprimere quello che voglio dire sarò costretto a ricorrere anche a parolacce, insulti e termini poco politicamente corretti. Serve all’esposizione, sapete.

Spesso mio figlio mi chiede perché non ci si ama tutti al mondo. Una di quelle belle domande da bambino, che ti mettono in crisi. Già. Perché? Fino a qualche tempo fa, cinico e misantropo quale sono, ho sempre ritenuto che la condizione di natura fosse quella hobbesiana di homo homini lupus, cane mangia cane, mors tua vita mea. E che solo dopo un estenuante percorso di educazione, studio e repressione dei naturali istinti omicidi le persone potessero (se lo volevano) diventare “buone”, amorevoli, empatiche, rispettose. Ritenevo anche che il percorso di automiglioramento fosse una goccia nell’oceano di guerra, violenza e sopraffazione che è la razza umana. Ma una goccia che serviva.

Oggi, quando mi trovo a spiegare a mio figlio che ci sono persone cattive, che opprimono altre persone in vari modi e con varia intensità, non sono più così sicuro delle mie precedenti convinzioni. Prima pensavo che i bambini nascessero “cattivi”, cioè capaci di tutto per autoaffermare il proprio totale egoismo a scapito dell’altro, e che il percorso di educazione fosse un lungo viaggio verso la “raffinatezza” dell’uomo, sgrossando le parti “bestiali”. Non penso più in questo modo. Nell’ultimo anno in particolare, dentro di me c’è stata come una rivoluzione copernicana.

Oggi sono convinto che i bambini nascano “buoni”, ossia con una infinita capacità di dare e ricevere amore (certo, sono bambini, il loro egoismo è innegabile ma non c’è cattiveria gratuita), e che il loro percorso di educazione sia nel migliore dei casi un processo maieutico per “tirar fuori” in modo sempre più esplicito le buone qualità che già hanno innate. Nel peggiore (e purtroppo più comune) dei casi, una consapevole e sistematica “tarpatura” di queste buone qualità che trasformano il bambino in un uomo impaurito, arrabbiato, non in contatto con le sue emozioni, poco empatico, egoista e determinato a prevaricare i suoi simili.

Questa cosa la percepisco anche quando mi vengono raccontati piccoli episodi scolastici di bullismo (ad esempio, se chiamano mio figlio “ciccione”). Un commento estremamente comune ad una situazione del genere – un commento che io per primo avrei fatto fino a qualche tempo fa – è: “Ma certo, i bambini sono dei bastardi, la loro cattiveria è innata per cui tendono a comportarsi male tra loro”. Il commento che oggi farei è piuttosto: che esempio hanno dato i genitori ai loro figli che usano termini come “ciccione” in prima elementare? O “frocio”, “puttana”, “handicappato”, “negro”, “ebreo”, “pezzente”, “cessa”, e via dicendo dalla seconda elementare in su?

È questo il punto su cui dovremmo soffermarci, un problema che i bambini non percepiscono, perché per loro il mondo è COME DOVREBBE ESSERE. La diversità è l’assoluta normalità. Non c’è nessun problema se io sono ricco e tu povero, se a me piacciono le persone del mio stesso sesso e a te no, se io sono bello o brutto, magro o grasso, se ho un colore della pelle diverso o pratico una religione sconosciuta. Ma noi questo problema ce lo abbiamo ben stampato in testa. E in alcuni casi ci facciamo un punto d’onore di passare questa visione del mondo ai nostri figli, perché è comodo perpetuare la dominazione di un gruppo su un altro. Posso essere l’uomo più sfigato del mondo (e credetemi, nella maggior parte dei casi queste persone sono solo degli sfigati), ma troverò sempre qualcuno da opprimere.

Il gruppo dominante è chiaro da secoli: maschi bianchi etero di mezza età, in salute, più o meno ricchi, di bell’aspetto, possibilmente cristiani. Non c’è altro modo che partire da qui, da noi (a parte la riccanza, sto in pieno nel gruppo pure io). Gli altri gruppi, i gruppi in qualche modo oppressi, stanno già lavorando per cambiare le cose, per mettere sotto gli occhi di tutti le storture del sistema. Ma siamo noi a doverci sforzare di più per dare l’esempio.

A dover spiegare perché le donne guadagnano di meno a parità di lavoro. Che non esistono lavori o giochi “da femmine” e lavori o giochi “da maschi”. A rendere conto del perché molte donne vengono uccise da uomini che proclamano di amarle. A dover spiegare perché ci sono persone che provano paura e rabbia nei confronti di persone dal colore della pelle diverso. E le guerre, le torture e i genocidi che questa visione si porta dietro. A dover spiegare che è normale che si possano amare uomini, donne, persone transgender e che i matrimoni tra persone dello stesso sesso non sono una cosa eccezionale (per i nostri figli non lo sono, ma per i loro genitori a volte sì). Che fare la guerra a chi è più povero di noi non ci rende più ricchi. Che gli anziani, i malati o i disabili vanno aiutati e supportati e non ignorati o peggio picchiati, torturati o uccisi.

Per questo io provo una rabbia sorda anche solo a sentire un body shaming potenzialmente innocuo come “ciccione” (non è innocuo, ma facciamo finta che sia così, e comunque a quanto pare mio figlio non l’ha sentito).  L’ignoranza sempre più diffusa è la piaga da contrastare, e questo non è un cazzo facile. Quando ero piccolo io, quaranta anni fa, era normale chiamare “mongoloide” un compagno, o insultare le persone in base al loro (presunto) orientamento sessuale o dire di una ragazza che era una “zoccola” perché scopriva troppi centimetri di pelle.

Oggi se scoprissi che mio figlio usa certe parole gli farei la lectio magistralis (che poi è una cosa che ho imparato anche io negli anni): STRONZA sì, PUTTANA mai. PEZZO DI MERDA sì, FROCIO mai. Se vuoi insultare una persona perché ti ha causato un forte disagio devi riferirti al comportamento, non alla persona. E se invece vuoi insultare una persona per il puro gusto di farla stare male perché ha qualcosa di “diverso” da te, la vera merda sei tu. Con buona pace della cacca, che viene sempre tirata in ballo quando c’è da insultare qualcuno.

Il mondo di oggi è sempre più complesso, stratificato e fluido di quello di 50 anni fa, e se non lo vogliamo capire noi ci sarà sempre un pericoloso scollamento tra la realtà dei nostri figli e quella nella nostra testa. Abbiamo sempre più bisogno di spettri e sempre meno di binarismi per spiegarlo. I binarismi, peraltro, erano già inadatti a spiegare il mondo mezzo secolo fa e chiunque abbia superato con un certo successo l’adolescenza dovrebbe sapere che non esistono solo il bianco e il nero ma anche le famose sfumature di grigio.

Quando ero piccolo io, le mie brave discriminazioni le ho subite. Perché non ero conforme al canone di peso, bellezza o genere. Perché ero un bambino che giocava con le bambole, perché vestivo strano, perché ero un adolescente che si truccava, perché “andavo in giro mascherato” anche se non era carnevale. Perché non giocavo a calcio ma stavo con le femmine, o comunque in generale facevo cose considerate “da maschio” e cose considerate “da femmina” in ugual misura. Mi hanno sempre definito strano e mi sono sempre sentito strano, inadeguato a quello che probabilmente ci si aspettava da me.

Ho dovuto raggiungere l’anzyanità e studiare un po’ meglio le questioni riguardanti l’identità di genere per capire che anche questa mia caratteristica è semplicemente parte di uno dei tanti “spettri” che definiscono in maniera meravigliosa e sempre diversa ogni essere umano. Che puoi essere maschio ed etero ma non posizionarti – nella definizione di te che è nella tua testa – in una casella specifica uomo/donna e accogliere in egual misura caratteristiche dell’uno e dell’altro polo. Che anche l’identità di genere, come tutte le cose della vita, è una questione non binaria. Ma non lo dico per incasellarmi in una definizione, non è quello il punto, non ne ho bisogno e grazie al cielo sono sempre stato a posto con me stesso e me ne sono sempre fregato del giudizio altrui. Ma solo perché ho avuto una famiglia e dei buoni amici che mi hanno passato questa capacità.

E come quello del genere c’è lo spettro della neurodiversità, un altro concetto tutto interiore che difficilmente viene compreso perché non è immediatamente visibile come le sfumature di colore della pelle di una persona. Eppure dobbiamo saper distinguere un introverso da una persona che veleggia più verso l’autismo funzionale, e sono capacità che vanno raffinate col tempo e non vanno assolutamente trascurate, per poter vivere un mondo di relazioni sane e consapevoli. [Mentre scrivevo mi sono preso una pausa per fare il test sul Quoziente dello Spettro Autistico e ho totalizzato 25 su 50: da 25 in su sono le persone che cominciano ad avere dei tratti autistici, che bello].

In definitiva, non ricordo nemmeno più cosa volevo dire con questo lungo post. Sicuramente dovevo vomitare una palla di pelo, di certo era una cosa legata al ruolo di padre di figlio maschio nel ventunesimo secolo. Un filo logico forse non c’è, ma quello che so è che bisogna seminare amore.

Intolleranza e discriminazione?
Rispondiamo baciandoci in bocca.
E magari anche con un “Me ne frego” 😀