VAFFANCOUVER 2010

OK, alla fine anche se la maggior parte di noi torinesi sfigati lavora durante le Olimpiadi mentre la città è presa d’assalto da ragazzini e pensionati che si godono la vita e stranieri che fanno "oooh" e "aaah" di fronte ad ogni chiesa ogni palazzo ogni negozio ogni caffè, la kermesse olimpica ha portato qualcosa di buono anche a noi. In termini di scambio culturale, intendo. A due giorni dalla fine io, Teo e Paola abbiamo incontrato Robert e Kris, due canadesi che stanno documentando le loro avventure torinesi su Flickr. Un po’ difficile non notarli, dato che impazzano con obiettivi smisurati proprio sotto il nostro naso, qui alla Canada House davanti alla Camera di commercio. Bastardi: loro vanno in giro e si divertono e io qui, a lavorare, che li vedo attraverso il vetro mentre fotografano di tutto e si ammazzano a forza di street hockey. Da Robert e Kris apprendiamo che l’erba del vicino è veramente sempre più verde. Che Torino è bellissima e vitale. Che Vancouver è "come Torino solo che là piove sempre". Che, come in una vecchia canzone di Dalla, i due riescono a perdersi nel centro di Torino che notoriamente è una scacchiera poggiata in riva al Po. A me vengono in mente i canadesi dei film di Michael Moore, poi mi viene in mente "Blame Canada" da South Park: Bigger, Longer, Uncut. Li invidio sempre più. Glielo dico. Loro mi confermano che soprattutto in questo momento sono odiati da quelli come me e dai loro connazionali rimasti a casa. "Quando mando i miei scatti su Flickr per farli vedere ai miei amici di solito ottengo un bel ‘fuck you!‘ come risposta", dice Kris. Robert e Kris piantano i loro obiettivi in faccia a passanti, negozianti, baristi e poliziotti, con educata sfacciataggine. Gli spiego che noi torinesi in genere siamo un po’ "shy" e che manteniamo preferibilmente un "low profile" e che io non mi sognerei mai di mettere il mio "cannone" a due centimetri dal naso di un civich e forse mi irriterei se qualcuno lo facesse a me. Loro mi spiegano increduli che la gente è quasi sempre contenta di farsi ritrarre da loro, ma io sono certo che se ci provassi anch’io otterrei una bella manganellata sui denti. Intanto scopro mentre scrivo che i due pazzoidi hanno postato un buon numero di foto che ritraggono il sottoscritto in tutte le sue espressioni più belluine. Comunque Robert e Kris vogliono comprare una casa a Torino. Hanno scoperto che i prezzi sono equiparabili a quelli di Vancouver. Io, da bravo non-americano, ho un certo riserbo a chiedergli quanto guadagnano. Ma di certo abbastanza per pensare di acquistare tranquillamente un appartamento. Perciò, forse, è ora di trasferirsi a Vancouver. Pioverà sempre, ma almeno c’è l’Oceano Pacifico. E invece di stare a due ore da Milano stai a due ore da Seattle. E da Kelly Osborne.

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LA METRO CHE FA INTERNAZIONALE

Io ci arrivo tardi, ma ci arrivo. Un po’ come Valentino Rossi con Fastweb. E alla fine sono riuscito a fare due cose che mi incuriosivano: visitare l’Olympic Megastore (detto dai torinesi "il pollaio") e fare un giro sulla MetroTorino (la metro attende ancora un simpatico soprannome sabaudo, ma sono sicuro che arriverà a breve). L’esperienza del Megastore di Piazza Vittorio la sconsiglierei anche ai peggiori nemici. Intanto arrivi fiducioso e scopri che per entrare devi circumnavigare la piazza sotto l’occhio attento dei poliziotti. Poi entri e resti impigliato in una massa caotica eppure fluida di giapponesi, americani e soprattutto tamarri autoctoni che affollano il luminoso spazio interno. Che tanto spazioso non è, dato che il Megastore appare tanto grande da fuori quanto è piccolo e soffocante dentro. Comunque, forte della mia compulsione all’acquisto, mi informo da una commessa se siano presenti magneti olimpici di Torino 2006. Mi risponde che i magneti non ci sono. Mi avvio sconsolato vero l’uscita, con l’idea che il mio frigorifero sarà più povero, e mi imbatto in una parete intera piena di magneti. Mah. Per prenderne un paio devo sgomitare con americani e canadesi con cestelli pieni di tute, campanacci da mucca olimpici (!!!), orologi e quant’altro. Immagino quanto pagheranno dato che i miei due magneti costano 6 euro l’uno. Decido di posarne uno, ma voltandomi mi accorgo che il muro dei magneti è letteralmente preso d’assalto da una folla che mi ricorda in modo allarmante gli zombi dell’ultimo film di Romero. Quindi mi avvio alla cassa. Dove si può pagare SOLO con la VISA. Ora: fortunatamente avevo una VISA con me. Ma se avessi avuto una Mastercard? O se avessi voluto utilizzare un normale Bancomat? Capisco lo sponsor olimpico, ma qui mi sembra che si esageri. Uscito da lavoro mi reco (sperimentando percorsi stradali alternativi) alla stazione di Porta Susa, dove da qualche giorno fa bella mostra di sé la stazione della Metro, con la sua M rosso fiammante che fa tanto internazionale. Naturalmente la Metro di Torino chiude alle 18, perché vogliamo mica esagerare… Quindi tento di procurarmi un biglietto (ma le biglietterie automatiche sono già entrambe fuori uso). Un gentile impiegato della GTT mi fornisce un biglietto, consigliandomi però, a scanso di rimanere bloccato nei meandri dei tunnel, di scendere dopo due fermate e tornare indietro. In ogni caso la Metro è bella, asettica, vagamente inquietante (è tutto automatico) e ha una vocazione artistica e cinematografica che temo verrà devastata ben presto (ci sono vetrofanie di Ugo Nespolo in tutte le stazioni e dietro le seggiole per chi aspetta il treno ci sono dei monitor che programmano i più importanti film italiani del dopoguerra). Anche la Metro è affollata dagli stessi soggetti che affollavano il Megastore. Con l’esclusione degli stranieri. In effetti, salire a fare un giro di prova sulla Metro è la stessa cosa che fare un giro sul 35 nella tratta Lingotto – Nichelino. Con la differenza che qui tutti guardano fuori invece di guardare il proprio cellulare. 

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HAVE A NICE EVENING IN TORINO

Un altro edificante ed avvincente aneddoto olimpico dal vostro affezionato. Mi trovo nel pieno dell’ingorgo dovuto all’indesiderata presenza del ministro Pisanu nelle vicinanze dell’ufficio e decido che sarà meglio approfittare del trasporto pubblico. Il 18 tra l’altro non è più il 18 che va da Piazza Sofia a Corso Settembrini ma è "X18" (la "X" non si sa per cosa stia) e sul frontalino segna un percorso "Da Oval Lingotto a Medals Plaza". Fa lo stesso. Davanti a me siede un americano medio, con una moglie sorprendentemente simile ad una donna italiana, anzi torinese (vestita in modo non appariscente, con un taglio e un colore di capelli non appariscente, occhiali, rughe di rassegnazione e aria mesta del tipo "cosa volete che sia, siamo tutti nella stessa barca"). Invece è americana media anche lei. L’americano è chiaramente uno sponsor olimpico, con mille spillette appuntate su giacca, maglione e portabadge. Alcune di queste hanno dei led luminosi intermittenti che mi ipnotizzano. L’americano medio ha un tic. Per la verità ne ha più di uno. Allunga improvvisamente il collo in avanti come un tacchino. Scopre la gengiva inferiore con uno spasmo dei muscoli della mascella. Strizza gli occhi ripetutamente. Che le olimpiadi facciano veramente questo effetto? Mentre lei si atteggia a casalinga torinese appena uscita dal DixDi (ma senza la borsa della spesa) lui sfoglia una cinquantina di fogli diversi con mappe, indicazioni scarabocchiate e roba stampata da Internet. Vedendo che i tic aumentavano in frequenza e intensità, decido di farmi i cazzi suoi (il seguente dialogo dimostra la mia splendida dimestichezza con la lingua inglese).
"May I help you?"
"I beg your pardon?"
"I mean… You need to go to a specific place?"
"Oh, yes… Please, I’m looking for Corso Dante."
"You’re lucky. That’s my stop too."
"Oh! Grrraziiiiey!"
Il tempo delle restanti quattro fermate lo impiega a ripiegare tutti i suoi fogli e a rimetterli in otto tasche diverse. Per un po’ mi trastullo con l’idea di farli scendere molto più avanti e lasciarli sperduti in Piazza Carducci, tanto per andare in controtendenza rispetto alle statistiche del torinese gentile e poliglotta che ama i turisti e le olimpiadi. Poi decido che è tardi anche per me, e scendo seguito dalla strana coppia.
"Bye!"
"Hey!"
"What?"
"You collect pins?"
"Wha… No, not really…"
"Come on, take one of my pins… You choose!"
Mi sta offrendo una delle sue ipnotiche spillette in cambio del mio aiuto logistico. Sono basito.
"Ok, since you ask, I’ll take this one"
L’americano medio stacca la spilletta che ho indicato e me la dà. Mi sento come un bambino napoletano che si è avvicinato ad un carro armato alleato per ottenere qualche chewing-gum nei giorni della liberazione. Non riesco a dire altro che "Have a nice evening in Torino!" – manco fossi dietro il vetro di un ufficio turistico. Poi me ne vado con la mia spilletta. E’ originale. Non ce l’ha nessuno. Forse potrei rivenderla allo Sponsor Village. Ma in fondo credo che la terrò.

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