C’è da dire subito una cosa: Il ragazzo e l’airone, l’ennesimo addio al cinema di Hayao Miyazaki (evidentemente un workaholic dell’animazione) è un film estremamente complesso e stratificato per cui non va affrontato a cuor leggero e mi sento di dire che può essere apprezzato da ragazzini un po’ più grandi di quelli che si godono Totoro o Ponyo. Cioè, non siamo a livello di Una tomba per le lucciole, però… ehm.
Il ragazzo e l’airone comincia con una sequenza molto realistica e coinvolgente di bombardamenti su Tokyo e un incendio devastante in cui muore la madre del protagonista Mahito. Dalla sequenza successiva, in cui Mahito e il padre si trasferiscono in campagna dove il padre sposerà la cognata (già incinta di un futuro fratocuginetto), il ragazzo è presentato come un personaggio problematico, e tale rimarrà fino al finale del film.
Problematico ovviamente perché è in lutto, deve venire a patti con l’orribile morte della madre, ha incubi tutte le notti e per di più un ambiguo e inquietante airone lo segue prendendolo in giro e dicendogli che sua madre in realtà non è morta. Mahito è un personaggio spigoloso e respingente, che arriva a spaccarsi la testa con un sasso allo scopo di… attirare l’attenzione? Evitare la scuola? Mettere nei guai i suoi compagni bulletti? Le sue motivazioni non sono chiare, ma del resto a partire già dalle prime sequenze di sogni, montate senza soluzione di continuità con le sequenze “reali”, Il ragazzo e l’airone segue una logica completamente onirica.
Seguendo una delle partiture più belle dell’intera produzione Ghibli (ad opera come sempre del fidato Joe Hisaishi), Miyazaki passa da un mondo fantastico a un altro mescolando suggestioni pittoriche (Böcklin, Magritte, De Chirico i più riconoscibili), citazioni filmiche (inequivocabile la soggettiva “dall’alto” presa di peso da 8 e ½ di Fellini, ma anche le bende volanti molto simili ai veli della Caduta della Casa Usher di Epstein) e autocitazioni (lui se lo può permettere) da La città incantata, Il mio vicino Totoro, Il castello errante di Howl – e il citato Una tomba per le lucciole del vecchio sodale Isao Takahata.
L’entrata della torre misteriosa è contrassegnata dalla scritta (in italiano) “Fecemi la divina potestate“, a certificare che quello di Mahito è un viaggio dantesco negli inferi, in una dimensione che è fantastica e ctonia, dove passato e presente si fondono in un tempo unico e dove bambine e piratesse non sono quello che sembrano essere, in cui le creature pucciose di turno, i WaraWara, sono anime di bimbi non ancora nati, in cui un vecchio stregone tenta di convincere Mahito a restare e diventare imperatore di un mondo infinito ma fuori dalla realtà.
Mahito invece, pur non avendo affrontato un “tradizionale” viaggio dell’eroe, ma sostanzialmente una serie di esperienze da incubo molto carrolliane, è cresciuto. Alla fine del suo percorso si rende conto di non essere perfetto ma di voler vivere nel mondo, rispondendo così alla domanda contenuta nel titolo del libro che la madre morta gli lascia (anche titolo originale giapponese del film) “E voi, come vivrete?“.
Alla fine della proiezione la Creatura mi ha chiesto: “Ma perché tutte queste storie devono sempre partire con il bambino che resta orfano”? Non ho potuto rispondergli altro che: “Amo, dal trauma e dal dolore scaturiscono le storie più potenti… e le storie sono quelle che alla fine aiutano a guarire dal trauma“.