PADDINGTON VS LE SUORE

C’è stato un tempo in cui Paddington e/o Paddington 2 erano entrati nella classifica dei 250 migliori film di IMDB al secondo posto, tipo. O forse me lo sono sognato. Comunque è fuor di dubbio che i film della serie di Paddington sono bellissimi e nulla hanno da invidiare ai valori produttivi e mitopoietici della serie di Harry Potter, per citare un’altra IP molto british. I film di Paddington sono splendidamente umoristici, ottimamente interpretati dai migliori attori britannici in circolazione e Ben Wishaw rende l’orsetto eponimo assolutamente “vivo”.

Paddington in Perù mostra un pelo di stanchezza nel “non saper più dove andare a parare” e forse anche nel cambio di regia (qui è Dougal Wilson). La famiglia Brown è un po’ persa, ognuno si fa i cazzi suoi, non c’è più quel feeling da “tutti sullo stesso divano”, ma prontamente arriva una lettera dalla Casa di riposo per Orsi in Perù, dove vive la zia Lucy che ha tanta nostalgia di Paddington.

Ovviamente tutta la famiglia parte per un viaggio esilarante in Perù e nella foresta amazzonica, accompagnati da due personaggi potenti come la madre superiora a capo della casa di riposo (Olivia Colman) e il capitano della barca che fa le crociere sul Rio delle Amazzoni (Antonio Banderas), entrambi un po’ squinternati e soprattutto estremamente sospetti (lascio a voi immaginare chi dei due è più sospetto alla fine).

Il macguffin qui è che la zia Lucy sembra scomparsa e a quanto pare questo ha a che fare 1) con le origini stesse di Paddington e 2) con la mitica pista verso Eldorado tanto bramata dai conquistadores spagnoli (di cui ovviamente Banderas è un diretto discendente). Che altro dire: la Colman si porta un po’ tutto il film sulle spalle, quando appare lei è come se ci fosse una sferzata di energia folle. Il lieto fine è d’obbligo e non è scontatissimo. Di Paddington non se ne ha mai abbastanza.

A REAL PAIN: CUGINANZA E OLOCAUSTO

Succede sempre così, che l’ultimo film che vedo tra quelli candidati agli Oscar alla fine è quello che preferisco. Cioè: non ho ancora visto The Brutalist, ma di quello proprio non mi fido. A Real Pain di Jesse Eisenberg, invece, è un piccolo film: una commedia sul tema dell’olocausto (un vero e proprio sottogenere ormai). Che è anche un buddy movie. Che è anche un road movie. E che mette in scena due personaggi scritti e interpretati splendidamente. Un film per il quale c’è da emozionarsi e che ricorda certe prove di metà anni ’70 di Woody Allen.

David (Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin, meritatissimo premio Oscar) sono due cugini in viaggio da New York alla Polonia per un tour sui luoghi dell’olocausto e per visitare la casa natale della loro formidabile nonna, scampata ai campi di sterminio nazisti. David e Benji non potrebbero essere più diversi. Il primo è pignolo, nevrotico, pieno di tic e socialmente inetto. Il secondo è senza filtri, infantile, ma anche affascinante, diretto e capace di entrare in contatto profondo con chiunque.

Il viaggio organizzato con una guida inglese (Will Sharpe) ha altri partecipanti, tra cui una sorprendente Jennifer Gray: tutti loro prima o poi cedono al fascino e alle proposte matte di Benji, oppure – in molti casi – sono vittima degli scatti emotivi di rabbia di Benji che evidentemente nasconde un disagio profondo, anche più del cugino.

Tra una canna fumata sui tetti di Varsavia, una visita al campo di Majdanek, e la scoperta della casa della nonna – una porticina abbastanza ordinaria in un villaggio vicino a Lublino – il rapporto tra i due cugini, un tempo così legati, si dipana sciogliendo alcuni nodi emotivi formatisi negli anni della maturità (David è sposato con un figlio e un lavoro stabile, Benji non ha nulla di tutto questo).

Tutto il film è in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, non c’è nulla di fuori posto e c’è un ritmo precisissimo nel montaggio che è guidato da una colonna sonora quasi tutta a base di sonate di Chopin. Lo studio dei personaggi, anche di quelli minori, è eccellente. Ma se c’è una cosa per cui ricorderete A Real Pain è l’inquadratura finale.

Si tratta di uno di quei finali che a casa mia ti fanno dire “No, dai, se finisce così mi incazzo“. E poi ti incazzi, ma nello stesso tempo capisci. Che forse, in quei due fugaci secondi prima dei titoli di coda, il dolore può essere elaborato e un futuro ci può essere, per tutti.

OCEANIA E IL PROBLEMA DEI SEQUEL FOTOCOPIA

Quando si dice “andarci coi piedi di piombo“. Dopo i flop di Strange World e Wish, Disney torna… ai sequel. Oceania 2 nasceva per essere una serie su Disney Plus e invece è arrivato in sala. Nulla di male, sempre se non contiamo che nei prossimi anni ci toccheranno Zootropolis 2, Frozen 3 e 4 e via sequelando. Il problema di Oceania 2 è che è essenzialmente uguale a Oceania, ma con canzoni non memorabili e personaggi di contorno dimenticabili.

L’animazione è sempre al top, l’oceano come ambientazione è sempre eccezionale, fa piacere rivedere il maialino, il pollo, i pirati kakamora, Maui (qui parecchio depotenziato) e Vaiana “cresciuta” (adesso ha anche una sorellina molesta)… però non ci siamo sulla storia.

Vaiana è la navigatrice ufficiale del suo popolo e deve riunire tutti i popoli della Polinesia. Per far questo deve tirar fuori dai fondali oceanici un’isola maledetta dal dio delle tempeste Nalo. L’isola di Motufetu, da cui partono tutte le “correnti” che richiamano i navigatori dei vari popoli, è protetta da una sorta di gigantesco mollusco all’interno dei quali Vaiana e il suo equipaggio (una piacevole quanto poco sfruttata novità) si trovano imprigionati.

Qui incontrano Matangi, una donna pipistrello doppiata da Giorgia, che sembra una scagnozza di Nalo ma alla fine aiuta i nostri eroi. Boom! Crash! Gli eroi ce la fanno, Vaiana muore e poi risorge come semidivinità (così ho capito io, almeno) e torna unendo tutti i popoli della Polinesia. 

Alla fine c’è una scena nei titoli di coda un po’ stile Marvel che ci anticipa (dio non voglia) Oceania 3. Vabbè.