TALK TO ME, L’HORROR DEL MOMENTO

Un horror australiano che ci crede tantissimo, e alla fine non è nemmeno male, dai. Il problema è che è un film assolutamente di adolescenti e per adolescenti. Il che alla fine è un po’ strano per essere un film A24.

Non è una roba parodistica alla Scary Movie, sia chiaro. Talk to Me è secco quando deve esserlo e ritrae in modo impietoso questi giovinastri che giocano (letteralmente) con la morte e tu che guardi li vorresti vedere schiattare male uno ad uno (tranne quello che se la passa peggio, poverino, che sta così per colpa dei suoi amici buzzurri.

Comunque. Nella ridente provincia australiana gli adolescenti australiani ascoltano trap australiana, bevono birra australiana e si divertono a giocare con una mano imbalsamata che se la tocchi e dici “Talk to Me” vedi la gente morta (male). Se poi dici “I Let You In” gli spiriti ti possiedono e fai le cose pazze che poi vengono riprese col cellulare dai tuoi amici adolescenti stronzi che il giorno dopo ti fanno cyberbullismo caricando tutto sui social.

Capirete anche voi che prevedibilmente ci sono gli spiriti incazzosi che si stufano e pretendono di possedere gli adolescenti australiani in modo permanente.

Da qui casini, jumpscare e qualche bel trucco prostetico. Insomma, caruccio, dai.

LE TARTARUGHE NINJA SPACCANO ANCORA

Sgombriamo subito il campo: Teenage Mutant Ninja Turtles – Mutant Mayhem è di nuovo l’ennesimo film che ci spiega la origin story di Leonardo, Donatello, Michelangelo e Raffaello. In questo senso è un reboot, e magari a nessuno va di vedere un reboot, specie dopo alcuni live action che hanno portato il franchise su territori che vanno dall’imbarazzante all’inquietante.

Ma, c’è un ma. Il film di Jeff Rowe (The Mitchell vs. the Machines), sceneggiato da Seth Rogen ed Evan Goldberg, è una bomba totale: a mio avviso ricrea perfettamente l’atmosfera cazzona, sporca, underground e “adolescentemente scorretta” del fumetto originale, cosa che nessun altro prodotto cinematografico o televisivo aveva mai fatto prima. D’altra parte, non ti prendi 6 minuti di standing ovation al Festival del cinema di animazione di Annecy se non hai solide qualità.

Il trailer originale

E TMNT-MM (scusate ma non mi va di scriverlo per intero ogni volta) di qualità ne ha un botto. Forte della scia ormai mainstream di sperimentazione nel campo dell’animazione tipica dei più recenti Spider-Man, o dello stesso The Mitchell vs. the Machines, TMNT-MM procede in modo sincopato e veloce a raccontarci le origini delle quattro tartarughe mutanti accudite dal ratto Splinter (Jackie Chan) e supportate dall’amica April O’Neill (Ayo Edebiri, già in The Bear).

Poi si butta in una corsa a rotta di collo tra combattimenti, inseguimenti e minacce kaiju incarnate dal villain di turno, la mosca mutante Superfly (Ice Cube). Non vi voglio dire troppo della trama, anche perché non è il mio punto. Quello che voglio invece dire è che regista e sceneggiatori, ma soprattutto l’art director Yashar Kassai (già al lavoro negli Spider-Man e in Mitchell) hanno dato al film un look sporco, primitivo, “adolescente” nel senso più punk del termine: ogni scena sembra in realtà uno sketch di storyboard, con un mix ardito di animazione al computer e linee o colorazioni che sembrano fatte col pennarello da uno studente delle superiori.

La musica è un altro componente fondamentale: Trent Reznor e Atticus Ross non sbagliano mai, e anche stavolta portano a casa un risultato notevole se poi pensiamo che tutta la colonna sonora è punteggiata da hip hop anni ’90 come No Diggity dei Black Street o Can I Kick It? dei A Tribe Called Quest (per non parlare di una versione allucinata di What’s Going On delle 4 Non Blondes).

Le tartarughe sono meno muscolose del solito (più teenage che mutant insomma), e pur essendo animate in modo “sporco” non sono respingenti quanto gli umani, rappresentati sempre in modi grotteschi e sopra le righe (April a parte). Alla fine, come sempre, è una bella storia di accettazione delle diversità con un cast stellare che purtroppo non ho potuto sentire dato che le voci di Paul Rudd, Rose Byrne, Maya Rudolph, Post Malone, Ice Cube, Jackie Chan, Giancarlo Esposito e molti altri sono state sostituite da stolide voci di youtuber nostrani.

Comunque: se vi capita andatelo a vedere perché è una bomba e vi farà re-innamorare delle TMNT. Ah, Shredder in questo film non c’è ma ci sarà sicuramente in un secondo capitolo che ormai bramo intensamente.

IL MIO BARBENHEIMER

Per tutta l’estate ho dovuto aspettare di scrivere questo post, perché da noi non c’è stato il weekend americano del Barbenheimer, ossia il giorno “X” in cui Barbie e Oppenheimer sono usciti insieme consentendo a molti fan di spararsi cinque ore consecutive in sala. Quindi ho visto Barbie a fine luglio e Oppenheimer a fine agosto (momento in cui ho scattato la foto da multiplex che accompagna il post).

Poi in realtà non è vero che “aspettavo di scrivere”, dato che come ho segnalato ieri, ho avuto tre mesi di aridità creativa che ancora un po’ non riuscivo a scrivere nemmeno la lista della spesa. Comunque sia, dai. Sono riuscito a vedere entrambi i film culto del 2023, che hanno riportato la gente al cinema d’estate. E allora, chi vince?

Oppenheimer è l’ultima fatica di Christopher Nolan, un regista che a me sta cordialmente sulle palle e i cui film seguenti a Inception mi sembrano tutti un tentativo di far salire lo stuporone conditi dalla sindrome del “guarda come sono bravo“. Ma lasciamo da parte queste antipatie personali: Oppenheimer è un grande film – è grande cinema.

Infatti dura tre ore e andrebbe visto su un gigaschermo dato che è girato con cineprese IMAX. Ma a parte questo, sinceramente, è un ottimo risultato. Prendi una storia importante come quella della creazione della bomba atomica, la cuci addosso a un biopic del personaggio più controverso del tempo, la intrecci con una rappresentazione di uno smottamento della politica americana nel corso di 40 anni di Storia.

Scrivi una sceneggiatura complessa su una serie di post-it e poi con un trucco di “Prestige” li mescoli tutti sul tavolo in modo da incasinare i piani temporali e costringere lo spettatore a fare attenzionissima per non perdersi nulla, anche se butti dentro almeno 40 personaggi secondari che tanto secondari non sono.

Ti circondi di collaboratori top ai quali chiedi il meglio: Cillian Murphy sempre intensissimo, Robert Downey Jr. nel ruolo di una vita, Ludwig Goransson che ti assale le orecchie con una musica concreta allucinante che persino il mio iPhone mi ha segnalato “allerta rumore e potenziale danno all’apparato uditivo”, Hoyte Van Hoytema che si produce in un valzer tra bianco e nero, colore, astrazioni e universo quantistico.

Alla fine non può che venir fuori un film importante, coinvolgente, mai noioso (va detto), e con una certa ambizione di dire qualcosa sul nostro passato che spiega un po’ anche il nostro presente. Oppenheimer è come un icosaedro di cristallo custodito in una wunderkammer, tu ci guardi dentro e vedi mille sfaccettature diverse, lo ammiri e ti stupisci, poi esci dalla sala e devi andare su Wikipedia a cercare i nomi e le storie di tutti i personaggi (a parte J Robert Oppenheimer e Albert Einstein) perché alla fine fondamentalmente ci hai capito poco.

Barbie non è un film altrettanto imponente. Eppure secondo me è lui il vero film dell’anno, quello che ti dà da pensare per settimane dopo averlo visto, quello che è sufficientemente pop da arrivare a chiunque ma sottilmente ricco di livelli interpretativi, quello che può ambire allo status di cult movie.

A parte il fatto che Greta Gerwig e Noah Baumbach mi sono istintivamente più simpatici di Nolan, i due sono riusciti a scrivere una riedizione di Pinocchio (la bambola che diventa una donna vera) dribblando tutti gli ostacoli che il fare un film su una proprietà intellettuale così famosa poteva porre.

Certo, il film è prodotto da Mattel, ma la multinazionale del giocattolo deve aver capito che farsi prendere per il culo è la strategia vincente. Nel mondo reale, Will Ferrell è il CEO di una Mattel distopica e patriarcale, mentre a Barbieland tutte le Barbie vivono l’utopia femminista, fino a che cellulite e pensieri di morte non fanno breccia nella vita di Barbie Stereotipo. Quando Barbie e Ken (a proposito, sia Margot Robbie che Ryan Gosling sembrano nati per i rispettivi ruoli) vanno in esplorazione nel mondo reale, Ken resta folgorato dal patriarcato, che per lui vuol dire cavalli, pellicce e una mojo dojo casa house dove chillare con i suoi bro (gli altri Ken).

Vi diranno che Barbie è un film violentemente femminista e anti-uomo (come le mine, LOL). Ovviamente non è vero. Barbie è un film necessario, che ha portato nel mainstream discussioni e punti di vista sul femminismo che Gerwig e Baumbach dosano perfettamente tra una risata e un numero da musical. Sì, forse ad un certo punto c’è un monologo un po’ enfatico di America Ferrera sulla condizione della donna nel patriarcato (ma l’enfasi è un decimo rispetto a qualunque dialogo di Oppenheimer) e alcuni personaggi sono tratteggiati con l’accetta (la ragazzina antipatica, trattata un po’ come Florence Pugh in Oppenheimer, poche scene e scarso approfondimento).

Però Barbie è un film che può spostare qualcosa nel dibattito culturale presente, Oppenheimer no. E soprattutto: Barbie ha i rollerblades rosa, Oppenheimer no.