ZAPPA MA SENZA LA SUA VOCE

Su Prime Video c’è Zappa, il documentario di Alex Winter sul genio musicale di Frank Zappa. È un bellissimo documentario, se non fosse che purtroppo, su Prime, è visibile solo doppiato in italiano, con quel vezzo tipico dei documentari di mettere la voce italiana abbassando di tanticchia la voce originale del personaggio che parla.

A parte questo, la vita di Frank Zappa, dall’infanzia fino alla morte prematura a 52 anni, è sviscerata grazie a migliaia di ore di filmati dall’archivio Zappa (aveva un seminterrato pieno zeppo di faldoni, registrazioni, pellicole, e non a caso ha pubblicato più album postumi che in vita – e in vita ne ha comunque pubblicati 42).

Si sente poca musica, in Zappa, purtroppo. Tutto è più focalizzato sul carattere del musicista – un carattere ovviamente molto difficile, data la ben nota tendenza allo stakanovismo e a considerare i membri delle sue band come componenti “usa e getta”. Persino i figli (Moon, Dweezil, Ahmet e Diva) devono lottare per avere la sua attenzione.

Grande spazio viene dato allo Zappa “classico” e al suo lavoro con le orchestre e allo Zappa “politico” che testimonia in congresso sul problema dei testi della musica rock e pop e che viene nominato da Vaclav Havel ambasciatore della cultura cèca in America (questa proprio non la sapevo).

Ottimo, ma dovrò scaricarlo in originale per sentire la vera voce di Frank…!

QUANTO SEI BELLA ROMA QUANDO PIOVE

Piove di Paolo Strippoli è un ottimo horror italiano, come non ne vedevo da un po’. Molte spanne sopra al precedente A Classic Horror Story uscito per Netfix (questo sta su Mubi, nel caso).

In una Roma livida e piovosa, uno strano vapore che si libera dalle fogne catalizza la rabbia dei cittadini e li trasforma (in stile un po’ romeriano) in potenziali killer dediti ad ogni sorta di nefandezza. Prima lacrimi liquido nero, poi vedi le cose e senti le voci, terzo step ammazzi qualcuno, possibilmente della tua famiglia.

Il punto di forza del film è appunto la famiglia di Tomas (il padre), Enrico e Barbara (i figli). Tomas si barcamena tra diversi lavori per mantenere la famiglia in cui è unico genitore, Enrico è il classico adolescente autolesionista e stronzo che soffoca le emozioni, Barbara è piccola e sta su una sedia a rotelle perché non cammina. 

Scopriamo solo in un lungo flashback nel prefinale perché questa famiglia è messa com’è messa (tensioni, odio e disperazione attraversano ogni sguardo, specialmente tra padre e figlio). Nel frattempo, scandita da una colonna sonora molto minimale ed efficace, la nebbia mortale fa il suo lavoro in tre tempi (evaporazione, condensazione, precipitazione) e gli abitanti di questo microcosmo di periferia iniziano a morire come mosche.

I momenti gore sono ben dosati e mai gratuiti, la tensione è sempre alta grazie anche all’interpretazione degli attori. La famiglia, sembra dire Strippoli, è la radice di ogni male, ma una redenzione finale è possibile.

L’AIRONE DANTESCO DI MIYAZAKI

C’è da dire subito una cosa: Il ragazzo e l’airone, l’ennesimo addio al cinema di Hayao Miyazaki (evidentemente un workaholic dell’animazione) è un film estremamente complesso e stratificato per cui non va affrontato a cuor leggero e mi sento di dire che può essere apprezzato da ragazzini un po’ più grandi di quelli che si godono Totoro o Ponyo. Cioè, non siamo a livello di Una tomba per le lucciole, però… ehm.

Il ragazzo e l’airone comincia con una sequenza molto realistica e coinvolgente di bombardamenti su Tokyo e un incendio devastante in cui muore la madre del protagonista Mahito. Dalla sequenza successiva, in cui Mahito e il padre si trasferiscono in campagna dove il padre sposerà la cognata (già incinta di un futuro fratocuginetto), il ragazzo è presentato come un personaggio problematico, e tale rimarrà fino al finale del film.

Problematico ovviamente perché è in lutto, deve venire a patti con l’orribile morte della madre, ha incubi tutte le notti e per di più un ambiguo e inquietante airone lo segue prendendolo in giro e dicendogli che sua madre in realtà non è morta. Mahito è un personaggio spigoloso e respingente, che arriva a spaccarsi la testa con un sasso allo scopo di… attirare l’attenzione? Evitare la scuola? Mettere nei guai i suoi compagni bulletti? Le sue motivazioni non sono chiare, ma del resto a partire già dalle prime sequenze di sogni, montate senza soluzione di continuità con le sequenze “reali”, Il ragazzo e l’airone segue una logica completamente onirica.

Seguendo una delle partiture più belle dell’intera produzione Ghibli (ad opera come sempre del fidato Joe Hisaishi), Miyazaki passa da un mondo fantastico a un altro mescolando suggestioni pittoriche (Böcklin, Magritte, De Chirico i più riconoscibili), citazioni filmiche (inequivocabile la soggettiva “dall’alto” presa di peso da 8 e ½ di Fellini, ma anche le bende volanti molto simili ai veli della Caduta della Casa Usher di Epstein) e autocitazioni (lui se lo può permettere) da La città incantata, Il mio vicino Totoro, Il castello errante di Howl – e il citato Una tomba per le lucciole del vecchio sodale Isao Takahata.

L’entrata della torre misteriosa è contrassegnata dalla scritta (in italiano) “Fecemi la divina potestate“, a certificare che quello di Mahito è un viaggio dantesco negli inferi, in una dimensione che è fantastica e ctonia, dove passato e presente si fondono in un tempo unico e dove bambine e piratesse non sono quello che sembrano essere, in cui le creature pucciose di turno, i WaraWara, sono anime di bimbi non ancora nati, in cui un vecchio stregone tenta di convincere Mahito a restare e diventare imperatore di un mondo infinito ma fuori dalla realtà.

Mahito invece, pur non avendo affrontato un “tradizionale” viaggio dell’eroe, ma sostanzialmente una serie di esperienze da incubo molto carrolliane, è cresciuto. Alla fine del suo percorso si rende conto di non essere perfetto ma di voler vivere nel mondo, rispondendo così alla domanda contenuta nel titolo del libro che la madre morta gli lascia (anche titolo originale giapponese del film) “E voi, come vivrete?“.

Alla fine della proiezione la Creatura mi ha chiesto: “Ma perché tutte queste storie devono sempre partire con il bambino che resta orfano”? Non ho potuto rispondergli altro che: “Amo, dal trauma e dal dolore scaturiscono le storie più potenti… e le storie sono quelle che alla fine aiutano a guarire dal trauma“.