UN WONKA TROPPO ANGELICO

Posto che per me l’unico e solo Wonka è Gene Wilder, ero curioso di vedere questo prequel non tanto per il desiderio di capire quali modi creativi ci fossero per spremere più soldi da una proprietà intellettuale già sfruttata due volte, ma perché sono un bimbo di Timothée Chalamet e lui potrebbe arrivare a leggermi l’elenco telefonico e io lo guarderei lo stesso.

In ogni caso il Wonka di di Paul King (che non è purtroppo quel Paul King, ho controllato) è dignitoso. Come musical si difende, ha almeno un paio di numeri eccezionali (a me piace in particolare “Scrub Scrub”), c’è l’attenzione a prendere il meglio degli attori inglesi in circolazione (anche se Hugh Grant nei panni dell’Umpa Lumpa è francamente inquietante, ma forse è voluto). 

Il problema se vogliamo è proprio Chalamet, che fa un Wonka molto dolce ma poco caratterizzato da quelle sfumature che Wilder (e in una certa misura anche Depp) interpretavano benissimo: il fatto di essere appunto un personaggio inquietante, allarmante, sociopatico e con una vena di follia subito sotto la superficie. 

Ora, io non pretendo Joker, ma un qualcosa di diabolicamente zuccheroso sì. Fortunatamente ci pensano i villain del film (Slugworth, Prodnose e Fickelgruber) a dare un po’ di pepe alla vicenda con un manierismo degno di un cattivo Bond al caramello

Boh, comunque carino, dai.

FALLEN LEAVES, KAURISMAKI COME CHAPLIN

Era un tot di tempo che non vedevo più un bel film di Kaurismaki. Ho la sensazione che l’ultimo fosse Le Havre, ma potrei sbagliarmi. Infatti leggo che c’è stato ancora un altro film dopo Le Havre ma non mi ero preso la briga di vederlo.

Nei tardi anni ‘80, quando Kaurismaki era se non il mio regista preferito quantomeno “uno dei”, faceva questi film tipo Ombre nel paradiso, Ariel o La fiammiferaia. Foglie al vento sta dalle parti di quei vecchi film, con una sorta di “stilizzazione” in più che ormai sembra maniera ma coinvolge sempre. O meglio, non coinvolge, perché come sempre non c’è nulla di sentimentale o retorico, ma diciamo che “avvolge”.  

I due protagonisti, esemplari del nuovo proletariato urbano di Helsinki si muovono tra un bar e un cinema, tra un locale di karaoke e una baracca o un monolocale ereditato. Si piacciono, si frequentano, ma lui è alcolista e la famiglia di lei conta troppi morti per alcol. 

Lei passa tre o quattro lavori, lui anche. Kaurismaki ci mette sotto gli occhi la realtà dei nuovi contratti di lavoro mentre al tempo stesso fa progredire a picccolissimi passi la sua storia d’amore. 

Foglie al vento (il titolo si capisce in un finale assolutamente chapliniano) è un piccolo film (81 minuti) che non ha bisogno di tanti espedienti per colpire al cuore. E ovviamente c’è il solito umorismo finlandese, del tipo che vanno a vedere The Dead Don’t Die di Jarmusch, restano impassibili tutto il tempo e una volta fuori lei dice “Non ho mai riso tanto in vita mia”. Imperdibile.

LA SOCIETÀ DELLA NEVE NON È ALIVE

Ho guardato La società della neve di JA Bayona (sta su Netflix) solo per la curiosità delle nomination agli Oscar, perché per me la storia della squadra di rugby uruguayana che si schiantò sulle Ande nel 1972 è una roba terribile che malsopporto, pur essendo avvezzo a ogni tipo di horror.

C’è da dire che non siamo dalle parti di Alive (il precedente film americano sullo stesso disastro). Qui l’accento è posto meno sulle scelte orribili che i sopravvissuti hanno dovuto compiere e più sulle dinamiche “di squadra”: il film comincia proprio con una partita di rugby in cui si comincia ad intuire la personalità dei vari giocatori (chi è più team player e chi meno).

Poi l’incidente aereo, effettivamente spettacolare e angosciante. Poi la conta dei morti, i primi giorni, tutti narrati dalla voce fuori campo di uno dei personaggi. I soccorsi non arrivano, e occorre prendere quella decisione terribile di cibarsi dei corpi dei defunti. Ci sono dibattiti, alcuni lo fanno, altri no, i compiti si dividono: nella società della neve ci sono anche “i sacerdoti” (i due che tagliano a pezzi i morti lontano dagli sguardi degli altri).

Poi la valanga, una tragedia nella tragedia, il film si fa sempre più claustrofobico e la lista dei morti si allunga sempre più. Poi la spedizione per attraversare la cordigliera, che ha del miracoloso. La cosa più bella è l’inquadratura finale, in cui i sopravvissuti finalmente nutriti, lavati e curati, si ritrovano comunque tutti insieme in una camerata, consci che quell’esperienza li ha cambiati nel profondo e solo tra di loro si potranno capire.

Non so se merita Oscar, ma di certo è un film lineare, non sensazionalistico, piuttosto direi mistico. A margine, è bello sentir parlare uruguayano, che è molto diverso dallo spagnolo “classico”.