NEOLOGISMO E BARBARIE

Provo sempre una pena infinita quando la mia attenzione si posa sulle prodezze del giornalismo italico. Non è per snobismo, ma in fin dei conti preferisco informarmi attraverso la stampa straniera.

I telegiornali non li guardo da anni. Mi sono sempre orientato su quel paio di quotidiani di riferimento che secondo me mantenevano un certo decoro nella lingua, nella forma, nella presentazione della notizia e soprattutto nell’agenda quotidiana delle notizie stesse. Ormai non leggo neanche più quelli. E non sto parlando di giornali spazzatura come Libero o Il Giornale, i cui titoli alla National Enquirer mi strizzano casualmente l’occhio nel corridoio che dall’ufficio porta al cesso (c’è chi deve sfogliarli per dovere di rassegna stampa, poi finiscono lì dove meritano).
Il problema è la pigrizia mentale.

Io sono il pigro mentale più pigro di tutti i pigri mentali del globo.
Ma mi aspetto che i modelli cui guardo come ad un punto di riferimento siano migliori di me. Se tutto, anche i miei modelli, si comporta in modo tale da essere peggio di me, io posso sentirmi a ragione superiore a tutti, e questo non è il giusto fondamento per una sana vita personale e sociale. Mi riferisco in particolare ad alcuni vezzi del giornalismo italiano che mi riempiono di orrore: le cosiddette scorciatoie linguistiche che dovrebbero rendere la parola scritta più digeribile per un pubblico di supposti illetterati e che hanno l’effetto nauseabondo di renderla, quando troppo sfruttati, direttamente premasticata e predigerita.

Il peggio non ha fine nelle notizie di cronaca nera. La nera è sempre stata la palestra per farsi le ossa di tutti gli aspiranti professionisti. Ci si è cimentato, per dire, Dino Buzzati, uno dei più grandi e sottovalutati scrittori italiani del novecento. Ora, io non pretendo Buzzati. E so anche bene che l’accento particolare sulla nera serve egregiamente a spostare l’attenzione di un’intera nazione dai problemi reali che ci affliggono. Si sta sempre un po’ meglio quando ci vengono raccontate le sfighe degli altri. Ma mi infastidisce l’abitudine (entrata ahimè in auge dai tempi di Alfredo Rampi, il bambino nel pozzo) di prendere i fatti e omogeneizzarli in una disgustosa fiaba per adulti, dove non esistono psicopatici assassini ma “orchi”, dove le vittime (specie se minorenni) sono chiamate sempre e solo per nome o peggio ancora con diminutivi (il piccolo Samuele, Mez, Sarah, Yara, lo stesso Alfredino di ormai 30 anni fa)… Queste persone hanno nomi e cognomi: non dirli equivale a ridurre i loro casi ad una brutta telenovela. Per non parlare di Ruby Rubacuori. Si farà anche chiamare così, ma il dovere di un giornalista (e gli stranieri lo fanno sempre) è quello di chiamarla Karima el Mahroug, ridimensionando a notizia di cronaca carica di tutto il suo squallore la fiaba stile Pretty Woman che certo giornalismo ci propina.

Comunque. Un’altra cosa terribile è quando aggiungono il suffisso -opoli a qualunque scandalo possibile, da Tangentopoli in giù. Già “tangentopoli” in sé è un neologismo ideato da un giornalista spiritoso che voleva paragonare i giochi di potere della seconda repubblica a quelli di un noto gioco da tavolo della Parker Bros. Da qui a Calciopoli, Vallettopoli, Affittopoli, il passo è troppo breve, e infatti è solo questione di pigrizia mentale. Poi ce ne sarebbero mille altre, che sul momento non mi vengono in mente. Magari mi aiuterete voi. E non è solo questione di lingua. Anche di contenuti complessi: i servizi “estivi” coi vecchi al supermercato e i bambini nelle fontane, i servizi sul carovita con le massaie che tastano i cetrioli, qualunque servizio dedicato ad un evento ricorrente, dove le parole (o le immagini) sono le stesse di anno in anno.

Quando rifletto su questo mi chiedo a cosa mi serve essere iscritto all’ordine dei giornalisti.
Quanto meno entro gratis nei musei e mi rifugio nel passato.