I MESI DEL RECUPERO

Ci ho messo due mesi a recuperare un po’ di film che volevo vedere nel 2021, e non ho nemmeno finito. Ma ero convinto di essere arrivato in tempo per coprire tutti i candidati agli Oscar™ e farmi un’idea personale, salvo poi capire che mi ero lasciato indietro proprio il MigliorFilm™. Ma poco male, tanto è un remake della Famiglia Bélier, possiamo farne tranquillamente a meno. Non si poteva fare a meno invece di molti film di questa raccolta di rece, soprattutto il primo e l’ultimo, che ad averli visti l’anno scorso sarebbero stati primi pari merito nel listone di fine anno. Due film diversissimi che però ti si infilano a modo loro sotto pelle per settimane intere.

DRIVE MY CAR (Ryusuke Hamaguchi, 2021)

Approccio questo film con un po’ di timore, dopo averne sentito parlare in termini “entusiastici con riserva”, ma la curiosità era molta. Un po’ per il materiale di partenza (il racconto di Murakami che non ricordo di aver letto), un po’ per le caratteristiche “particolari” (tre ore di film in giapponese, mandarino, coreano e lingua coreana dei segni).
Prima ora: intrigante. Il gioco delle coppie, i rimandi tra teatro e serialità televisiva, l’ambientazione altoborghese giapponese per me abbastanza inedita, il dramma della gelosia e del lutto. Poi arrivano i titoli di testa. Dopo un’ora, capito? E lì ho avuto un piccolo mancamento.
Seconda ora: l’eco del lutto, il teatro, il lavoro del regista, le audizioni, l’esplosione del multilinguismo e l’introduzione della coprotagonista che – come da titolo – guida la macchina di lui.
Terza ora, in cui esplodono tensioni e contraddizioni, arriva anche la polizia, il protagonista è costretto a confrontarsi con il suo lato oscuro e la sua autista… anche. I nodi vengono al pettine e c’è un meritato (lieto?) fine.
Il film di Hamaguchi è come una lente di ingrandimento che si posa prima sulla vita di Oto (la moglie producer televisiva del protagonista), poi su quella di Yusuke, il regista al centro della scena, alle prese con un’edizione molto particolare di Zio Vanja, poi su quella di Koji (il giovane e ganzissimo attore rivale di Yusuke) e infine su quella di Misaki (l’autista), il personaggio più misterioso ed efficace, che alla fine ha le rivelazioni più sorprendenti. Un affresco potente e sorprendentemente non faticoso, all’interno del quale scoprire percorsi, strati, idee, connessioni. #recensioniflash

JUNGLE CRUISE (Jaume Collet-Serra, 2021)

Ma sai che non m’è dispiaciuto Jungle Cruise? Ho aspettato a vederlo in una situazione ideale: febbre, plaid, pomeriggio invernale in casa. E ha fatto il suo lavoro egregiamente. Merito delle interpretazioni azzeccate e convincenti di Emily Blunt, The Rock, Paul Giamatti, Jesse Plemons, Jack Whitehall? Certamente. Merito anche di una buona sceneggiatura dei sempre brillanti Ficarra e Pic… ehm, Ficarra e Requa? Sicuro. Merito anche di Jaume Collet-Serra che sa il fatto suo e innesta di venature horror il blockbuster disneyano alla Pirati dei Caraibi mantenendo sempre un occhio di riguardo alla Hollywood classica che da La regina d’Africa arriva fino a Romancing the Stone? Ovvio. Insomma, le due ore e passa di crociera sul Rio delle Amazzoni a caccia di un fantomatico albero i cui fiori garantiscono elisir contro tutte le malattie scorrono liete, tra colpi di scena prevedibili e altri meno prevedibili, tra un flashback ai tempi di Aguirre e un intermezzo comico fornito dal grande Whitehall. Credo di poter contare anche il primo coming out esplicito di un personaggio live action Disney. Insomma, molto carino. #recensioniflash

THE TRAGEDY OF MACBETH (Joel Coen, 2021)

By the pricking of my thumbs, something wicked this way comes.
The Tragedy of Macbeth di Joel Coen (su Apple TV) è una sorta di inquietante festa per gli occhi, una terza via originale al dilemma “teatro o cinema”. Prodotto da A24, questo Macbeth in bianco e nero, minimalista e rigorosamente in 4:3, segue il solco della fascinazione tutta coeniana per il cinema classico anni ‘40. Solo che qui Coen va in modalità “full-Ejzenstejn” e studia inquadrature sghembe ed espressioniste con le luci innaturali di Bruno Delbonnel e un set design assolutamente dechirichiano e spoglio (tutto è girato in studio). Denzel Washington (irriconoscibile) è un Macbeth perfetto, Frances McDormand gli tiene testa adeguatamente ma soprattutto le streghe di Kathryn Hunter fanno una certa impressione. Molta nebbia, molti silenzi, molti corvi, gocce di sangue che cadendo fanno PLOP e sopracciglia di Banquo che reclamano l’Oscar. Da vedere assolutamente.

WEST SIDE STORY (Steven Spielberg, 2021)

Nel nuovo West Side Story si vede che Steven Spielberg si è divertito a reinterpretare un classico. la domanda che tutti si fanno è “ce n’era veramente bisogno”? Si tratta di una domanda più che legittima, ma io vado matto per i musical (e in particolare per questa “creatura” ancora oggi modernissima di Bernstein, Sondheim e Robbins) e quindi mi sono sucato volentieri le tre ore di film, che vanno necessariamente viste a confronto con il film di Wise del ’61. Io del film originale ho un ricordo piuttosto vago, l’ho visto più volte ma in gioventù. Ma fin dall’inizio si nota la differenza: Spielberg ambienta il prologo e la Jet Song tra le macerie di una zona del west side martoriata dalle demolizioni in vista della costruzione del nuovissimo Lincoln Center, mentre Wise si affidava agli iconici titoli grafici di Saul Bass. Là era il canto di una New York in frenesia totale, qui sembra uno scenario postatomico dove i Jets escono dalle fogne. Poi Spielberg (o meglio lo sceneggiatore Tony Kushner) approfondisce le backstory di tutti in modo più o meno incisivo, scrittura portoricani veri (e questo in termini di rappresentanza è sicuramente positivo), e ha mano sicura sia nelle risse che nelle scene d’amore. Porta il numero di America nelle strade invece che sui tetti (spettacolare) e va avanti a ricostruire degli anni ’50 che non sono così belli come li dipingono. Devo dire che tutto sembra eccellente tranne forse la storia d’amore che è pur sempre portata avanti dalle canzoni che tutti conosciamo bene (Maria, Tonight, etc) ma in particolare – opinione personale – Ansel Egort mi è sembrato un po’ un bietolone inespressivo. In generale Wise era più astratto e teatrale ma in certe scene molto più incisivo. Spielberg pare essersi ispirato più alla produzione di Broadway del 1957 ma alcuni passaggi sembrano scivolare via senza particolare interesse. Ottimo il ripescaggio di Rita Moreno (la Anita originale) con un trucco di sceneggiatura. Soddisfatto? Io sì, ma posso capire chi volge lo sguardo altrove.

MADRES PARALLELAS (Pedro Almodòvar, 2021)

In questi giorni recupero i film che ho perso negli ultimi mesi e che tenevo a vedere. Madres Paralelas di Almodòvar è certamente uno di questi, e non ha deluso. Ci sono state volte che ho pensato che Almodòvar fosse un po’ esaurito. Non questa volta. Il film con Penelope Cruz e Milena Smit è un solido melodramma con poche e misurate concessioni alla commedia basato sul concept dello scambio di neonati che fa tanto feuilleton ottocentesco ma che comunque il regista spagnolo riesce a gestire con il giusto peso regalando non tanto colpi di scena da stuporone quanto sottili dilemmi morali e conseguenze pericolose di non detti e silenzi. Le due protagoniste danno alla luce due bambine nello stesso giorno, nello stesso reparto. Janis è una fotografa affermata, Ana un’adolescente un po’ sbandata. Ovviamente il legame tra le due madri diventerà sempre più intenso e complicato nel corso del film. C’è però di mezzo anche una trama “parallela” (haha) relativa all’esumazione di scheletri in una fossa comune della guerra civile spagnola, dove sarebbe sepolto il bisnonno di Janis. Ecco, da questo punto di vista questo è il film più esplicitamente politico di Almodòvar, mi pare: il messaggio, pur non “urlato in faccia”, è molto chiaro. Non è possibile evolversi di generazione in generazione in modo sano senza aver fatto i conti con il proprio passato, a livello personale e di società.

THE KING’S MEN (Matthew Vaughn, 2021)

Volevo vedere questo film più che altro (da torinese) per la Reggia di Venaria, il castello di Racconigi (e/o di Agliè), i murazzi e tutte quelle robe sabaude che hanno fatto la gioia della Film Commission Torino Piemonte. E sì, anche un po’ per Rhys Ifans che fa Rasputin. Certo, non è proprio il momento giusto per vedere i russi guerrafondai. Comunque, il film è gradevole, si dipana come un action/spy story di primo novecento e va dalla guerra boera alla prima guerra mondiale con grande dispendio di esplosioni e un feeling antimilitarista abbastanza disperato che – per dire – emoziona più di 1917, che mi aveva lasciato un po’ freddino a suo tempo. Poi vabbè, c’è la storia del misteriosissimo supercattivo bondiano che arruola come aiutanti Rasputin, Lenin, Mata Hari e Gavrilo Princip in una sorta di League of Extraordinary Supervillain, e lì è tutto un cinecomic senza infamia e senza lode. Le scene di Ralph Fiennes con Rhys Ifans sono una coreografia abbastanza godibile di mazzate e scene altamente cosacazzo, e da sole valgono una visione.

BENEDETTA (Paul Verhoeven, 2021)

Verhoeven anche a 83 anni non rinuncia ad essere amante del lurido. In questa storia che di base è puro nunsploitation (film deggenere con le suore matte) lui ci infila cacche di piccione, cacche umane, sangue, pus, vomito, smembramenti vari e un po’ di ustioni. Benedetta è un horror? Mah: un po’, a volte, quando entrano in gioco suggestioni esorcistiche. Benedetta è un film erotico? Diciamo che non si risparmia nelle scene lesbo e – per restare in tema esorcistico – c’è la statuetta della madonna usata in modo totalmente improprio… Benedetta è un dramma storico? Beh, diciamo che si basa sugli atti di un processo reale a una suora della ridente cittadina di Pescia (PT) denunciata nel 17° secolo per aver finto miracoli, stigmate e soprattutto per aver avuto rapporti lesbici con la novizia Bartolomea. Ma Benedetta è più che altro la solita (magistrale) riflessione sul potere, la menzogna e sui rapporti di potere stavolta all’interno della chiesa e del contesto di genere, in cui il lesbismo diventa una forza rivoluzionaria e scardinante nei confronti della chiesa della controriforma. Sangue e ultraviolenza mescolati a sesso e immaginario cattolico, con Verhoeven che se la ride sotto i baffi per aver fatto l’ennesimo film sulla carta molto provocatorio (ma I Diavoli di Ken Russell, principale riferimento comparativo, avevano un’altra caratura). Che altro? La peste bubbonica, Lambert Wilson viscidissimo e una Charlotte Rampling sempre al di là del bene e del male.

THE ADAM PROJECT (Shawn Levy, 2022)

Ryan e Shawn l’hanno fatto di nuovo. Dopo Free Guy, tornano a lavorare insieme perfezionando il loro modello di action simpatico per famiglie che strizza l’occhio ad un pubblico tra i 10 e i 50 anni senza scontentare nessuno. In questo sono bravissimi entrambi, e devo dire che anche volendo non si riesce assolutamente a disprezzarli. In The Adam Project, appena uscito su Netflix, oltre ad avere nel cast Jennifer Garner, Mark Ruffalo e Zoe Saldana (e l’incredibile ragazzino Walker Scobell) Levy mette in campo tutte le lezioni apprese nella sua carriera di regista nazionalpopolare canadese (il nazionalpopolare canadese è ben diverso da quello italiano e da quello americano) e in particolare si appoggia tantissimo all’esperienza e all’estetica di Stranger Things, la sua creatura di maggior successo planetario. Comunque, Ryan Reynolds è Adam, adorabile e sbruffone pilota di caccia che viaggiano nel tempo, che dal 2050 arriva nel 2022… a casa sua, incontrando perciò il sé stesso dodicenne. La solita trama da Ritorno al futuro / Terminator (ovviamente esplicitamente citati) vira verso il classico per famiglie con non pochi insights psicologici che è raro trovare in un film di questo tipo. Insomma, lo dico da vecchio bacucco: in alcuni passaggi è persino commovente. Poi comunque si lascia guardare molto volentieri ed è un bel film d’azione da guardare con un bambino. Io confesso che l’ho visto prima da solo, a causa della mia infatuazione inspiegabile per Ryan Reynolds.

TURNING RED (Domee Shi, 2022)

Turning Red non è il primo film Pixar che racconta una storia femminile. Ma è il primo film Pixar realizzato da una crew totalmente femminile. E si vede. La storia di Meilin, la tredicenne un po’ nerd che con il suo gruppo di amiche vorrebbe andare al concerto della loro boyband preferita, ma è ostacolata dal fatto che quando si emoziona si trasforma in un panda rosso gigante è solo il primo livello. Il secondo livello, come ormai in tutti i film d’animazione dell’ultimo ventennio, c’è il conflitto generazionale, che in questo caso è acuito da un contesto di immigrazione e di scontro tra culture differenti (Meilin è una sinocanadese che vive a Toronto nel 2002): il panda rosso è uno spirito ancestrale che “possiede” tutte le donne della famiglia e che dovrebbe essere domato e scacciato per essere “donne perfette”. Meilin non lo fa (non lo vuole fare) e in questo percorso cerca di accettarsi per come è, cioè una tredicenne che fuor di metafora può puzzare, avere peli superflui o fare cose particolarmente imbarazzanti. Il film è molto divertente, il character design funziona alla grande anche nelle deformazioni tipicamente anime di certe espressioni facciali, ogni personaggio è ben definito in pochi tratti e per la prima volta in un film d’animazione (se escludiamo il corto Disney del 1946 “The story of Menstruation”) si parla di ciclo e di assorbenti – impagabile la battuta “è sbocciata la peonia rossa” che tanta curiosità ha sollevato nella Creatura che mi ha costretto a mettere in pausa per spiegargli la metafora. Ma la cosa spettacolare è il documentario che accompagna il film (Disney+ lo propone a ruota dopo il film stesso) e che in poco meno di un’ora presenta la crew tecnica e la genesi del film ma soprattutto mostra come le donne Pixar siano riuscite con questo film a “sfondare il soffitto di cristallo” nonostante la pandemia, le diverse maternità e quant’altro. Una celebrazione del lavoro femminile che con molta naturalezza inserisce nel discorso intrecciato al dietro le quinte l’evoluzione di una famiglia gay, la body positivity, l’ambizione e le possibilità di carriera nel mondo dell’animazione e ovviamente il girl power.

FLEE (Jonas Poher Rasmussen, 2021)

Flee è un film animato adulto (ma non “per adulti”, nel senso che andrebbe mostrato in tutte le scuole di ogni ordine e grado) che racconta in prima persona l’esperienza della migrazione forzata. Noi in Italia siamo abituati a sentire storie di questo genere riguardo alle rotte del mediterraneo (L’abisso di Davide Enia a teatro è il primo riferimento che mi viene in mente, insieme a Fuocoammare di Gianfranco Rosi). Qui si parla di un’altra rotta, quella del baltico, che il giovane Amin lotta per attraversare da esule afghano. Il tutto è raccontato in prima persona da Amin (è una storia vera) che si fa riprendere dall’amico regista Jonas Poher Rasmussen mentre ricorda e racconta steso su un… tappeto persiano. L’apertura sull’infanzia anni ’80 a Kabul è magistrale: il piccolo Amin, già consapevole della sua omosessualità, corre e danza per le strade della città con Take on Me degli A-Ha nel walkman. Amin vive con la madre, il fratello e due sorelle maggiori. Ma ben presto la guerra incombe, e tutti quanti devono scappare. Prima a Mosca, dove vengono vessati dalla polizia corrotta e poi alla spicciolata in qualche paese baltico, prima le sorelle, poi Amin stesso. Amin riesce ad arrivare da solo in Danimarca raccontando una storia non vera (deve dire di essere orfano per ottenere lo status di rifugiato) e solo dopo anni riuscirà a ricontattare gli altri membri della sua famiglia. Resterà ancora da confessare la propria omosessualità, altro grande problema per la cultura afgana. La risoluzione di questo nodo avviene con una scena magistrale, che fa ridere e piangere al tempo stesso. Flee è un documentario di animazione che usa diverse tecniche (anche molti inserti di filmati di repertorio), che ha diversi aspetti tragici e molti buffi (la cotta adolescenziale del protagonista per Jean Claude Van Damme è il più notevole). Uno sguardo vero e intimo sulla “normalità” dell’essere apolide, rifugiato, diverso. È (giustamente) candidato a tre oscar (miglior film documentario, miglior film d’animazione, miglior film straniero): spero ne vinca almeno uno.

NIGHTMARE ALLEY (Guillermo Del Toro, 2021)

“Un film in cui persone molto cattive fanno cose molto cattive molto lentamente”: questa #recensioneflash l’ho letta in giro su qualche sito inglese prima di vedere Nightmare Alley di Guillermo del Toro, e devo dire che bon, ha detto tutto. Il film è un omaggio lussuosissimo al noir anni ’40 (anzi se non erro proprio un remake di un film con Tyrone Power, infatti fa un cameo nientemeno che Romina Power in carne, ossa e parrucca anni ’40). Luci da noir anni ’40, dark lady da noir anni ’40, antieroe con cicca sempre in bocca e di poche parole come nei noir anni ’40. L’ambientazione nel mondo dei giostrai anni ’40 lo accomuna a quel filone che da Freaks di Tod Browning arriva a Freaks Out di Mainetti passando per il Dumbo di Tim Burton. Qui c’è Bradley Cooper bello e maledetto come sempre che fa una roba brutta a inizio film e poi vaga solitario finché non si imbatte in un carnival (quelle fiere di giostre e attrazioni freak tra cui il GEEK, il misterioso uomo bestia che decapita le galline a morsi). Si installa lì, impara il mestiere da un’anziano mentalista (David Strathairn) e dalla sua compagna tarologa (Toni Collette) e quando ha imparato abbastanza porta via con sé la ragazza elettrica (Rooney Mara) e avvia una carriera luminosa al Copacabana. Dopo più di un’ora di film incontra quindi la darkissima e platinatissima psicologa Cate Blanchett che alla fine dei conti è mille volte più diabolica di lui ma lui accecato dalla brama di denaro non se ne accorge e mal gliene incoglie. Un thriller abbastanza convenzionale con qualche guizzo, tenuto in piedi dall’ottima fotografia e da solide interpretazioni attoriali. Soltanto, un po’… lento.

LICORICE PIZZA (Paul Thomas Anderson, 2021)

Lo aspettavo da mesi, Licorice Pizza. Quando esci dalla sala sei preso da un senso di euforia e incredulità. Euforia perché è uno di quei film che “ti fa stare bene”, ti dà una sorta di rush visivo. Incredulità perché ti sembra strano che un film apparentemente esile come questo lasci un segno tale che anche il giorno dopo sei ancora lì che pensi a quella scena o quell’inquadratura. È la magia di PT Anderson, ma è anche la magia di Cooper Hoffman (figlio di Philip Seymour) e Alana Haim (musicista che non conoscevo e che qui recita con tutta la sua vera famiglia). I due protagonisti che si incontrano, si amano, si cercano, duellano, si sfidano, si incazzano ma soprattutto corrono, corrono sempre come dei matti non sono “belli”, non sono “fighi” (anche se lei in uno dei loro battibecchi afferma di essere “comunque più figa di lui”). Lui ha 15 anni ma è più maturo della sua età e ha delle idee imprenditoriali bizzarre. Lei ne ha 25 ma ha ancora un evidente bisogno di adolescenza, sospensione temporale, dispersione di energia. La trama è un pretesto: scenette gustose infilate una dietro l’altra senza senso (ma non compiaciute come nell’altro Anderson, Wes) al solo scopo di fare da contrappunto alla natura ondivaga della relazione tra Gary e Alana. Cameo eccellenti (Sean Penn, Tom Waits, soprattutto Bradley Cooper) di cui alla fine ce ne frega relativamente perché noi vogliamo solo capire se quel bacio tra Gary e Alana arriverà o no. Anderson (qui anche sceneggiatore e operatore) usa veloci carrellate laterali, riprende i primi piani da lontano, con lo zoom, schiacciando tutto e i campi medio-lunghi da vicino, con grandangoli al limite dell’esasperazione, creando spazi magici leggermente deformati e mettendo in evidenza brufoli, occhiaie e dentature imperfette dei protagonisti che a causa di questo non fanno che diventare più amabili. E l’amabilità assoluta di Gary e Alana è quello che tiene in piedi il film (oltre ad una splendida colonna sonora con chicche non banali dai primi ‘70). Un film d’amore, un’amore di film.