FILM A 37 GRADI

Fuori l’estate era rovente (uso il passato perché oggi che finalmente è agosto pare che il caldo abbia mollato un pochino), dentro io guardavo film tendenzialmente tra mezzanotte e le due del mattino, momento in cui le temperature erano più clementi. Beccatevi due mesi di visioni nell’ultimo post-raccoglitore.

OCCHIALI NERI (Dario Argento, 2021)

C’è un famoso adagio popolare che dice che, nel mondo del cinema, lavorare con animali e bambini è una roba difficilissima, che manderebbe ai matti qualunque regista. Ha mandato ai matti Darione Argento nostro? Signori, sono incredulo io stesso nel dirvi che tutto sommato no.
Sì, ho finalmente visto Occhiali Neri a.k.a. Black Glasses / Dark Glasses. E l’ho visto orgogliosamente in italiano con sottotitoli inglesi perché io dell’audio dei film italiani non capisco mai un cazzo, nemmeno se tengo il volume a 65.
Comunque rispondiamo subito alla domanda che attanaglia tutti: Occhiali neri è un film come qualunque film di Dario Argento dal 1998 ad oggi? Ecco, sinceramente posso dire che ni. Cioè, ci sono alcune cose imbarazzanti (ci sono sempre) tipo la motivazione del maniaco assassino, il calcare la mano su certi meccanismi da “pistola di Cechov”, alcune cadute di stile nei dialoghi (“Arrivederla”, “Dobbiamo scappare, prendi il giacchetto”, robe così).
Epperò Occhiali neri ha una prima mezz’ora fulminante a livello visivo e narrativo, non sbraca a livello di recitazione (incredibile) e nemmeno ha un montaggio sciatto come tanti degli ultimi film. La colonna sonora è azzeccata e fa il suo, alcune sequenze costruiscono effettivamente tensione come ai tempi d’oro e la presenza tra gli attori protagonisti di un cane addestrato e di un bambino cinese non fanno urlare “ma cosa cazzo” ad ogni inquadratura.
Occhiali neri è un thriller onesto, persino sobrio (mi sarei aspettato più sangue e più Sergio Stivaletti) che racconta la storia di Diana (Ilenia Pastorelli), giovane escort che dopo un incidente causato dal maniaco assassino resta cieca. Nell’incidente muoiono anche i genitori di Xin (il bambino cinese) che ben presto fugge dall’orfanotrofio proprio per stare con Diana. Ma non sanno che il maniaco assassino continua instancabile a cercarli.
Asia Argento sobrissima (non scherzo) nel ruolo dell’istruttrice di non vedenti. Bellissimo quando entra in scena da dietro una porta e tu già capisci che è lei perché dice “Sono l’istruttrice mandata dall’istituto dei ciAEchi e ipovedAEnti”. Spettacolo. Vabbè comunque un sei glielo diamo volentieri. #recensioniflash

THE NORTHMAN (Robert Eggers, 2022)

Finalmente ho visto The Northman, che ci tenevo un sacco, perché mi erano piaciuti un sacco The VVitch e The Lighthouse e volevo proprio vedere che cosa fa Robert Eggers con qualche soldo di budget in più. Eh, cosa fa.
Chiariamo subito che The Northman son più di due ora di urla belluine, sangue, organi interni, spadoni insanguinati, fango, sporcizia, fiamme, antichi rituali scandinavi e morti ammazzati in ogni dove. Chiariamo anche che in sintesi è la storia di Amleto però recuperata dalle fonti più antiche che ambienta il tutto nell’800 dopo Cristo.
Quello che fa Eggers è soprattutto affidarsi al suo ben noto rigore filologico che qui però straborda, tra gioielli, rune, abiti, armi, ricette di cucina e rituali sciamanici. Senza contare la compiaciuta pronuncia corretta di tutti i termini tipo ŌOdinn, Valhooll, Freyr, etc. L’umanità è solo un flaccido involucro di carne attorno all’animale, tutto il film riecheggia di urla belluine e in generale alla fine sembra più un incrocio tra The Green Knight (che in un certo senso si abbeverava a fonti simili) e un album dei Manowar.
Non che questo renda il film brutto, ma forse un po’ meno risolto delle altre due prove di Eggers. Alexander Skarsgård ce la mette tutta (il suo però è un ruolo più fisico che altro). Nicole Kidman e Claes Bang sono molto più efficaci e sfaccettati. Ethan Hawke sta in scena troppo poco per dire alcunché. Anya Taylor-Joy ovviamente si mangia tutte le inquadrature dove appare.
E poi tutta l’ultima parte si svolge in Islanda, che ve lo dico a fare. Diciamo che è un film spettacolare con tutta l’aria di un film intellettuale che ti vuole rompere i maroni ma non ce la fa. E poi c’è la famosa Valkyria con l’apparecchio per i denti. #recensioniflash

SUL PIÙ BELLO (Alice Filippi, 2019)

Una cosa divertente che non farò mai più (ma l’ho fatto per curiosità qualche giorno fa): guardare tutta la saga di Sul più bello. Ossia i tre film Sul più bello, Ancora più bello, Sempre più bello. Che è già tutto un cringe a partire dai titoli.
Voi mi direte cazzo fai, sai benissimo che non è il tuo genere la commedia romantica per di più italiana e a base di buoni sentimenti a mille e protagonista femminile con malattia invalidante e rischio morte dietro l’angolo. Eppure io vi dirò che scivolano via bene, anche se la mia impressione è stata quella di guardare una serie TV in 8-9 episodi più che tre film.
Il primo film è acerbo, un po’ ingenuo, l’opera prima di Alice Filippi, introduce tutti i personaggi principali e la classica storia d’amore con il twist simpatico che lei è bruttina (ma Ludovica Francesconi è una piccola grande attrice che si porta tre film sulle spalle senza fare una piega) ammalata e stalkera il figo spaziale con il solo scopo di portarselo a letto. Lei (Marta) ha due amicissimi ovviamente lui gay e lei lesbica, e le dinamiche tra loro sono la cosa migliore dei tre film.
I due sequel sono girati entrambi da Claudio Norza (io vi avverto: è il deus ex machina di Un medico in famiglia) e hanno una mano più sicura sebbene ogni tanto si giochino carte improbabili come un cameo di Loredana Bertè di cui non si sentiva assolutamente il bisogno.
Comunque son contento di averli guardati e vi spiego da ultimo perché avevo questa curiosità: tutti e tre i film sono girati a Torino, ed è bello vedere tutti i luoghi a te familiari e dire oh guarda hanno girato qui, lì e là…! Il primo film sta su Amazon, gli altri due su Netflix. Bonus: Drusilla Foer ha vinto un premio per l’interpretazione della nonna di Marta nel terzo film. #recensioniflash

RRR (S.S. Rajamouli, 2022)

Dobbiamo parlare di RRR. Vi metto qui questa immagine che rappresenta una delle molteplici anime di questo film indiano (in lingua telugu) di tre ore circa che trovate su Netflix. L’anima del buddy movie.
Perché poi c’è l’anima del drammone in costume, l’anima dell’action esageratissimo in cui si fanno degli stunt incredibilmente imbarazzanti tipo combattere a mani nude con una tigre in CGI fatta pure male o salvare bambini a rischio annegamento lanciandosi con moto e cavalli da un ponte e facendo gli acrobati.
Ma sto già divagando. L’anima bollywoodiana, con almeno due numeri di danza eccezionali in cui i due protagonisti combattono a botte di balletti irresistibili. L’anima epica nei lunghissssssssimi flashback dedicati all’infanzia di uno dei due eroi del film.
Non vi sto a raccontare nulla di RRR (che inizialmente pensavo fossero le iniziali del regista e dei due protagonisti, mentre invece pare voglia dire Rise Roar Revolt). Se è il campione di incassi assoluto in patria e il fenomeno sta uscendo dal locale per diventare un successo globale su Netflix un motivo c’è. Le tre ore di film passano velocissime e non ci si annoia mai.
Fidatevi, è un film che scatena emozioni primarie, è ingenuo come può essere considerato ingenuo il modo di raccontare proprio di un’altra cultura, fa sfoggio di muscoli esagerando sempre e non fermandosi di fronte a nessun imbarazzo, è un film totale. Va guardato perché sta segnando il 2022 e non potete non conoscerlo.
Comunque se siete di quelli che devono per forza conoscere la trama: Bhemm è un eroe inviato dalla gente del suo villaggio a salvare una bambina rapita dai perfidissimi inglesi. Rama è un poliziotto superpiù indiano che lavora per gli inglesi: viene mandato a catturare Bhemm ma diventano superamici finché non si rendono conto che in realtà dovrebbero essere acerrimi nemici e lì le cose si complicano. Fatemi poi sapere cosa ne pensate. #recensioniflash

BLACK PHONE (Scott Derrickson, 2022)

Black Phone di Scott Derrickson è veramente una mezza sorpresa in questa torrida stagione estiva. Mezza perché OK, non è poi questa grandissima novità, il classico horror Blumhouse, un trio (Derrickson/Cargill/Hawke) che già si era distinto nell’ottimo Sinister, una spruzzata di nostalgia per i tardi anni ’70 che sa molto di Stranger Things (i protagonisti sono comunque tredicenni).
Ma comunque sorpresa perché nonostante le premesse non originalissime, il film funziona alla grande. Sarà il racconto di Joe Hill da cui è tratto (è il figlio di Stephen King, quindi la zampata di famiglia c’è)? Sarà che Ethan Hawke ha trovato una sua dimensione assolutamente da brividi nell’interpretare (tutto con voce e linguaggio del corpo) un rapitore/molestatore/assassino di bambini? Sarà che comunque anche i protagonisti pre-teen sono convincenti? Non so dire.
Sicuramente questa storia che parte dal realismo del tema “caramelle dagli sconosciuti” (un tema portante della mia infanzia) e da risse scolastiche dove tra bambini ci si spaccano nasi e denti e non si fanno sconti pur di vedere il sangue (anche questo un tema portante della mia pre-adolescenza) e poi scivola nel soprannaturale è intrigante.
Il protagonista viene rapito solo dopo un lungo primo atto in cui ad essere uccisi sono altri bambini. Ma nel seminterrato dove è rinchiuso c’è un vecchio telefono nero scollegato. Ogni tanto, però il telefono suona. All’altro capo della linea non diciamo chi c’è, ma diciamo che questo porta avanti la storia verso un “terribile lieto fine”, mettiamola così.
Io non me lo lascerei scappare, soprattutto se volete vedere Ethan Hawke che recita per tutto il film con una maschera componibile da diavolo disegnata da Tom Savini. La scena in cui sta seduto immobile in cucina è fantastica: non succede nulla, si vede solo il suo torace alzarsi e abbassarsi, ma è agghiacciante. #recensioniflash

THE SEA BEAST (Chris Williams, 2022)

The Sea Beast del transfuga Disney Chris Williams (Big Hero 6, Moana) è un sapiente cocktail di diverse suggestioni marinaresche e piratesche – mi ha ricordato sia Master & Commander che Pirates of the Carribean, con una spruzzata (anzi facciamo una bella manata) di Dragon Trainer.
Sapiente fino a un certo punto, nel senso che ha degli ottimi personaggi, è animato egregiamente ma si dilunga un po’ troppo (mezz’ora di film sarebbe probabilmente tagliabile), che è un po’ il problema di alcune produzioni Netflix anche di tutto rispetto come questa.
Come da titolo, il film parla di mostri (marini) grossi, e in alcune scene ci delizia con combattimenti kaiju molto coreografici. Ma la storia è quella di Maisie, simpatica orfanella che si imbarca di nascosto sulla nave di cacciatori di mostri dove comanda il mitico capitano Crow e dove l’eroe designato è Jacob Holland, a sua volta orfano e figlio putativo del capitano.
Perché tutti questi orfani? Ma è chiaro, provengono tutti da famiglie di cacciatori di mostri e i genitori sono morti di una morte grandiosa! Insomma, tra una strizzata d’occhio a Moby Dick e una a Jack Sparrow, il film procede facendoci capire che i veri mostri non sono i mostri ma… i governanti! Che detta così sembra una stronzata, ma avercene di film animati per ragazzi che affrontano il tema delle fake news diffuse ad arte per creare un clima divisivo e prosperare. Anche la frase “si può essere eroi ed avere comunque torto” è da segnare sul diario di scuola, via.
Comunque, passa veloce e diverte anche se dura tantissimo e soprattutto fa entrare in scena una pericolosissima strega nell’ultima mezz’ora di cui poi si perdono le tracce. Non interessa più a nessuno, la strega. Povera strega. #recensioniflash

PETITE MAMAN (Céline Sciamma, 2021)

Sia lodato sempre Mubi che mi permette di vedere Petite Maman, il film che – se lo avessi visto nel 2021 – sarebbe diventato automaticamente per me il miglior film del 2021. Ma invece l’ho visto adesso e posso solo dirvi, per chi non ne sapesse nulla, che è un film che non potete non vedere.
Io amo e seguo Céline Sciamma da diversi anni. Il suo sguardo femminile, queer e femminista mi ha sempre stimolato moltissimo e anche stavolta non delude, pur alle prese con una materia molto più “normale” (anche vagamente autobiografica) ma proprio per questo estremamente universale.
Petite Maman è una storia di vita ordinaria dove lo straordinario avviene sotto i nostri occhi in modo sussurrato, depotenziato ma non per questo meno intrigante. C’è Nelly, la bambina protagonista, che aiuta la mamma Marion a svuotare la casa della nonna morta da poco. Marion è sopraffatta dal lutto, e si allontana per qualche giorno dalla famiglia. Nelly resta sola col papà, è figlia unica, è abituata a giocare in solitudine. Passeggiando nel bosco incontra una bambina della sua stessa età: sta costruendo una capanna di rami e si chiama Marion, come la madre di Nelly.
Non sto a menarla sul concetto chiave del film perché è già tutto nel titolo “la piccola mamma”. Diciamo che nel confronto tra le due bambine (difficili da distinguere perché interpretate dalle due gemelle Gabrielle e Joséphine Sanz) emerge la profondità del lutto, il valore dell’amore, l’origine della tristezza. Le due bambine crescono, ognuna a suo modo.
Il soprannaturale qui è trattato come il quotidiano, con dei semplici accorgimenti di montaggio siamo in una casa e poi nel suo doppio, siamo nel passato (?) e poi nel presente, ma il passato e il presente si mescolano nella stessa inquadratura in modo assolutamente naturale.
Indubbiamente una fortissima riflessione sulla maternità che però è travestita da piccolo film meraviglioso (dura solo 73 minuti) e proprio per questo il messaggio passa in maniera molto più efficace. #recensioniflash

CRIMES OF THE FUTURE (David Cronenberg, 2022)

Crimes of the Future (l’ultimo Cronenberg, a 8 anni da Maps to the Stars) è un ritorno al body horror che in linea generale sa un po’ di già visto. Mi spiego: la maggior parte di quello che vediamo sullo schermo TRASUDA Cronenberg da ogni inquadratura, è esattamente quello che ti aspetteresti da uno che ha fatto Videodrome, Crash, Existenz.
Ma c’è una relativa novità. Intanto il film ci elargisce una sequenza iniziale gelidamente (gratuitamente) violenta che sembra un po’ voler dire “questo è quello che vi aspetta, non faccio sconti, non faccio prigionieri”. Se qualcuno per dire si vuole fermare qua, il film inizia con una madre che uccide il proprio figlio che apparentemente non è del tutto umano.
Stabilito questo, Crimes of the Future si sviluppa attorno alle figure di Saul (Viggo Mortensen) e Caprice (Léa Seydoux), una coppia di performance artist che si esibisce in sessioni di chirurgia estrema in cui lei gli apre la pancia e gli estrae delle formazioni tumorali che lui è in grado di produrre a comando. Ah, prima di estrargliele CI FA DEI TATUAGGI SOPRA.
Vabbè. Mi fermo per chiedere lumi a chi ne sa di più, perché una cosa che non ho capito di questo film è se vuole essere in un certo senso una critica del mondo della performance art, se c’è una chiave di lettura ironica o se è tutto (come suppongo) maledettamente serio. Comunque c’è un tizio (un altro performance artist) che si fa cucire palpebre e labbra e danza con orecchie umane applicate in ogni parte del corpo. Fico.
Insomma, poi c’è un intrigo che coinvolge Wippet e Timlin (Kristen Stewart), due burocrati del “Registro nazionale nuovi organi”, il padre del bambino ucciso all’inizio che muore dalla voglia di cedere il corpo del figlio a Saul e Caprice per fargli l’autopsia in diretta in un momento di performance art, due “tecnici” dei macchinari molto gigeriani usati da Saul e Caprice che a un certo punto usano dei trapani sul cranio di non vi dico chi, un detective inquietante che parla per enigmi e niente, a un certo punto ho perso un po’ il filo.
Comunque sia, la sottotrama del bambino ucciso e di suo padre ha una certa importanza e lo scopriremo solo verso la fine, in cui Saul si produce nella sua imitazione di Renèe Falconetti in La Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer. Perché, come dice Kristen Stewart a un certo punto, “La chirurgia è il nuovo sesso”. Ovviamente.
Tutto molto bello, dalla recitazione allo splatter al décor distopico, ma anche estremamente freddo e clinico. Forse non ci si poteva aspettare altro. #recensioniflash

THE PRINCESS (Le-Van Kiet, 2022)

Sapete che mi ero dimenticato di dirvi che ho visto questo? Troppo tardi? No, vero? 😃
Il film sorpresa che potete vedere adesso su Disney+ è The Princess. Comincia come un qualsiasi live action disneyano (stile Sleeping Beauty) e procede subito, nei primi 10 minuti, a suon di mazzate, occhi cavati, arti spezzati e polsi slogati. Perché la principessa titolare è una guerriera istruita da un’improbabile ninja medievale figlia di ninja al servizio del re e della regina. Ovvio, no?
Sospensione dell’incredulità a parte, The Princess è il film da vedere se ci si vuole divertire con un videogame a livelli in cui ci sono tante, ma veramente tante mazzate senza troppi effetti speciali e con stunt sinceri, fino al boss finale (due boss, a dire la verità) interpretati dai cattivissimi Olga Kurylenko e Dominic Cooper.
La prima nel ruolo non meglio spiegato di “sorella sadomaso del cattivo” (o forse non hanno nemmeno legami di parentela, boh) e l’altro nel ruolo di “cattivo monodimensionale che vuoi solo vedere morto direttamente dal medioevo anni ’80” e che in effetti finirà, come è d’uopo che sia in un film di tal fatta, decapitato.
La scusa per innescare la storia è che il cattivo vorrebbe impalmare la principessa per usurpare il regno ma lei porcoddue non ci sta perché è autodeterminata. Salvo poi chinare il capo quando il re padre (da lei salvato da morte certa) le dice “brava figlia ora capisco che maneggi meglio la spada dell’arcolaio, ma adesso dammi la corona che finché son vivo comando io”.
Comunque, dai. Carino. #recensioniflash

FIGLI (Giuseppe Bonito, 2020)

Mi è difficile dire qualcosa su questo film che ho visto con due anni di ritardo perché per un periodo l’hanno tolto da Prime (adesso l’ho trovato di nuovo) e al momento dell’uscita Mattia Torre era morto da poco e a me si spezzava il cuore.
Figli è fin troppo relatable per una persona che – appunto – ha avuto figli da poco (la pediatra guru, anyone?). C’è tutto il Mattia Torre che conosciamo da Boris, La linea Verticale, Ogni Maledetto Natale, quasi distillato in un’analisi sociale della famiglia del nuovo millennio portata sulle spalle con gran convinzione da Mastandrea e Cortellesi.
Il talento di Mattia Torre manca moltissimo, perché era l’unico a riuscire a fare un certo tipo di commedia in cui ogni risata è come una lamata o uno schizzo di acido. L’happy ending simbolico con il sorriso dei protagonisti è emblematico: basta scegliere di non buttarsi ogni volta dalla finestra, e la vita continua.

ENNIO (Giuseppe Tornatore, 2021)

In queste sere mi dedico ai documentari musicali che mi sono tenuto nel cassetto fino adesso. Il primo è Ennio, di Tornatore. Quasi tre ore di Ennio che racconta, Ennio che fa ginnastica, Ennio che dirige, Ennio in prima persona, Ennio raccontato.
Interviste e materiali d’archivio ricostruiscono la storia di Ennio, che ovviamente ogni italiano conosce, ma che forse molti italiani (come me) conoscono solo per le colonne sonore di Sergio Leone, Dario Argento, Elio Petri e via dicendo.
Ma Ennio è molto di più, e dopo i suoi anni di studio al conservatorio entra in RCA come arrangiatore per Morandi, Caselli, Vianello, Meccia e molti altri. Già questo non lo sapevo. Ma quando Tornatore te lo fa notare, tutto fa “click”: era ovvio, non poteva essere che lui.
Meravigliosi i passaggi in cui si racconta il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, la cui esperienza poi confluisce nelle colonne sonore, nella sua musica sinfonica, nelle peripezie con l’Academy, fino alle ultime prove (e lì, lo confesso, un po’ cala la palpebra).
Comunque un montaggio serrato e un senso del racconto che è comune sia al regista che al protagonista rendono questo doc una perla da vedere assolutamente. Ennio è (era, purtroppo) simpaticissimo. Oltre che un genio. #recensioniflash

CYPRESS HILL: INSANE IN THE BRAIN (Esteban Oriol, 2022)

Un altro ottimo documentario che ho visto in questi giorni è Cypress Hill: Insane in the Brain di Estevan Oriol, ex road manager dei Cypress Hill nonché fotografo e videomaker che per decenni ha tenuto in archivio materiale succulento e che solo nel 2022 si è deciso a montare.
I Cypress Hill sono una chiave di volta dell’hip hop anni ’90, ma non solo. Per me sono parte del pantheon dei miei 20 anni, con Nirvana, Soundgarden, Jane’s Addiction, Rage Against the Machine, Smashing Pumpkins. I Cypress Hill hanno seminato moltissimo e hanno infine raccolto i frutti maturi del cosiddetto “crossover” (quella forma di rap/hard rock di cui furono campioni indiscussi i RATM).
Il doc parte da Cypress Avenue, SouthEast LA, e segue Muggs, Sen Dog e B-Real nella loro maratona verso il successo, con i ritmi sghembi, la marijuana come centro totalizzante della loro poetica ed estetica musicale, la voce nasalizzata, il ritmo latino (impagabile il racconto di come hanno “rubato” Eric Bobo Correa ai rivali Beastie Boys).
Oggi i Cypress Hill sono irriconoscibili, ma la loro musica è riconoscibilissima, basta una frazione di secondo e capisci che sono loro. L’analisi dei beat “fuori tempo” che c’è in una scena rivela proprio la caratteristica di Muggs (che oggi produce marijuana su larga scala, manco a dirlo).
Così lontano, così vicino, oserei dire. Le immagini di repertorio sono tutte pre-internet e le lenti della nostalgia sono verdi come l’erba dei vent’anni… #recensioniflash

THE SPARKS BROTHERS (Edgar Wright, 2021)

The Sparks Brothers è l’ultimo documentario musicale che ho visto in questi giorni e che consiglio a tutti di reperire assolutamente in tutti i luoghi e tutti i laghi. Il doc è bello soprattutto per un motivo: mi ha fatto scoprire una band di cui sapevo pochissimo e invece dovremmo tutti saperne di più! NONCIELODICONO!
Gli Sparks sono Ron e Russell Mael. Due fratelli attivi nel mondo del rock dal 1966. La loro storia ci viene raccontata dal fan adorante Edgar Wright (proprio lui!) attraverso materiale d’archivio, ricostruzioni realizzate con diverse tecniche di animazione, interviste e ovviamente tramite la viva e ironica voce di Russell e Ron.
In generale gli Sparks sono poco conosciuti, ma a quanto pare i musicisti li adorano. Nel corso di due ore e mezza mai noiose, sentirete Beck, Flea, Thurston Moore, Coso dei Franz Ferdinand, Vince Clark, Tizia delle Go-Gos, i Duran Duran, gli Human League, Todd Rundgren, Tony Visconti e molti altri tessere le lodi degli Sparks.
Il doc procede lineare a farci conoscere tutta la loro discografia, dal periodo più Kinks/Who (poco ortodosso per una band losangelina, e infatti poi emigrano per un periodo in UK), al periodo glam, dal periodo synth pop ante-litteram alla canzone d’avanguardia. Ron sempre con i baffetti da Hitler a suonare le tastiere e lanciare sguardi inquietanti, Russell a fare il dio del rock cantando i testi originalissimi e zappiani del fratello.
I cinefili più accorti ricorderanno gli Sparks per essere gli autori di Annette, da cui è tratto il meraviglioso film di Léos Carax. Questo doc ce l’avevo da parte da quando ho visto Annette l’anno scorso… e ora mi mangio le mani per non averlo visto prima e non aver conosciuto prima i 25 stratosferici album che compongono la discografia degli Sparks.
Ora, non sentirò più altro per molto tempo. #recensioniflash