PROCESSI INCONSCI E BRUTALI OMICIDI

Ci sono quelle cose che sai che devi fare ma non le fai. Rimandi. Tipo vedere INLAND EMPIRE di David Lynch (che non so perché tutti lo scrivono MAIUSCOLO). Non fraintendetemi, io amo David Lynch. Amo le sue cose più giovanili, amo l’impronta surrealista che è riuscito a dare a certi film commerciali, amo le sue cose neo-noir. Confesso che ho amato anche Mulholland Drive, anche se non è il tipo di film che rivedrei più e più volte (come Blue Velvet o Wild at Heart, per intenderci). Però, tanto per cominciare, ho dovuto aspettare di essere solo per guardare INLAND EMPIRE. Perché INLAND EMPIRE è un po’ come Mulholland Drive ma dura tre ore. Un kolossal dell’inconscio. Mi predispongo comodo sul divano, con telecomandi, acqua, caffè e sigarette ben a portata di mano. Cominciamo. INLAND EMPIRE è la storia di un’attrice (Laura Dern) che ottiene una parte per un film che poco dopo si scopre che è il remake di un altro film maledetto dove gli attori sono morti. Intanto una vicina demoniaca molto lynchiana ripresa in fish eye fa discorsi molto oscuri e carichi di tensione alla protagonista, che improvvisamente ha la prima epifania del fatto che lei in sostanza può viaggiare nel tempo e nello spazio come Hiro Nakamura. O forse viaggia solo nell’inconscio perché in fondo si tratta di INLAND EMPIRE. Poi arriva il regista (Jeremy Irons) che fa provare la scena ai protagonisti del film nel film, solo che c’è una presenza misteriosa sul set. Solo dopo scopriremo che è sempre lei, Laura Dern, che arriva dal futuro e vede sé stessa che fa le prove. Il set si trasforma in un labirinto nel quale tra vetri sporchi e giardini che non possono essere lì perché siamo dentro un set, c’è anche una stanzetta con risate preregistrate nella quale tre omini con testa di coniglio di peluche portano avanti una sorta di teatro dell’assurdo. Dimenticavo di dire che il tutto è intervallato da inesplicabili scene recitate in polacco – una parte del film che pare non aver nulla a che fare col resto – ma poi si scopre che Laura Dern è anche lì. Laura Dern è dappertutto, anche perché questo è INLAND EMPIRE. Ah, e non dimentichiamo la ragazza in lacrime che guarda la televisione in una stanza d’albergo: il film che guarda è ovviamente INLAND EMPIRE e non possiamo che essere solidali con la sua angoscia. Dopo la prima ora di film urge un break pipì/sigaretta. Dopo la seconda ora di film si comincia a vacillare. Ed è lì che viene il bello. Perché guardare INLAND EMPIRE interrompendolo con continui abbiocchi dev’essere il modo giusto di guardarlo, quello che probabilmente Lynch ha prefigurato per i suoi spettatori più affezionati. Siccome INLAND EMPIRE è un film fatto per la maggior parte di silenzi, lentissime carrellate e ambienti quasi completamente bui, la testa facilmente cade. Poi improvvisamente arrivano rumori fortissimi da tachicardia (tipico di Lynch) e immagini fortemente disturbanti, come primi piani di clown deformi e urlanti con gli occhi che si sciolgono, brutali omicidi sfocati e con la luce a strobo, scene da musical inspiegabilmente minacciose, Laura Dern che vomita sangue e muore sul set come il ladrone di Pasolini (ma poi risuscita e la applaudono tutti). Alla fine la protagonista (che non si capisce più se è a Hollywood o in Polonia) attraversando tutti gli ambienti precedentemente mostrati senza alcun nesso logico apparente, abbraccia un uomo e un bambino che esprimono grande felicità familiare. Poi si rivede nello schermo di un cinema vuoto mentre fissa lo schermo di un cinema vuoto che rappresenta lo schermo di un cinema vuoto. Infine guarda in macchina incontrando lo sguardo della ragazza piangente nella stanza d’hotel che fugge via disperata. Titoli di coda su un balletto da musical con Laura Dern che offre da bere a tutti. INLAND EMPIRE. Credo di essere fortunato ad essere riuscito a risvegliarmi stamattina.

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TONIGHT, MY UNCONVENTIONAL CONVENTIONISTS… UNACADEMY!

Ho aspettato fino adesso a parlarne, dato che volevo sperimentare la cosa di persona. Ora mi trovo a bloggare in diretta dalla conferenza di Massimo Razzi (vicedirettore di Repubblica.it) "La sfida del giornalismo nell’era dei network". La conferenza si svolge su Second Life, nello spazio di unAcademy, l’accademia ideata e coordinata da Giuseppe Granieri con l’aiuto di Sergio, Antonio & c. Fino a quest’estate, in cui mi divertivo a sperimentare scrivendo reportage di intrattenimento su Apogeo, ho considerato SL come un ambiente curioso, ma tutto sommato poco gestibile a fronte dell’impegno richiesto. Mea culpa. Avevo intuito, ovviamente, uno dei principi fondamentali del mezzo, e cioè che su SL se non fai qualcosa non ha senso starci. unAcademy, per l’appunto è un progetto – uno spazio di interazione – in cui è possibile sfruttare SL per scopi diversi dal cazzeggio puro. La conferenza di stasera sarà per me la prima di una lunga serie, spero. All’interesse dei contenuti poi si associa la curiosità di una situazione nuova, di una trentina di avatar impegnati nell’ascolto della voce di Razzi e/o a pronunciare al microfono le proprie domande. I problemi di audio si sprecano, ma nell’insieme è più eccitante di una conferenza dal vivo, dato che nessuno mi vede se mi infilo le dita nel naso. E naturalmente, spazio al cazzeggio con giochi di luce e ottima musica nell’aftershow! A parte gli scherzi, unAcademy merita una visita da parte di chi è appena entrato in SL (direi che è una miniera di informazioni, oggetti e corsi per newbie), sia per chi ha interesse a comunicare e condividere le proprie conoscenze anche in questo ambiente. Non so come Giuseppe abbia fatto a realizzare questa replica hi-tech di un centro culturale, e soprattutto da quanto tempo ci sta dietro (glielo dovrò chiedere), ma rispetto a qualunque altra realtà vista su SL, unAcademy mi sembra veramente produttiva e veramente interessante, al di là del folklore della grafica e dell’architettura 3D del luogo, che pure ha la sua importanza (come dimostra l’allestimento nel cortile sul problema estetico in SL). Chapeau a GG, dunque, e a tutto lo staff, i ricercatori e i coordinatori. Non escludo di diventare al più presto parte attiva, in qualche modo, di questo progetto.

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HOLD ME CLOSER, TINY CHEF

Negli ultimi venti giorni, probabilmente, quasi tutto l’universo conosciuto ha visto Ratatouille. Dire che ve lo consiglio, se non l’avete ancora visto, è praticamente superfluo. Abituati agli standard Pixar (specie a quelli eccelsi di Nemo o degli Incredibili), si può comprare il prodotto a scatola chiusa. Ma stavolta c’è qualcosa in più. Qualcosa di impalpabile, che però passa attraverso la solita storia a tema universale. Quando parlo di tema universale, intendo un tema che possa coinvolgere tutti, grandi e piccini, uomini e donne, al di là della cultura, della classe sociale o della religione. E a questo punto rimangono pochissimi archetipi, uno dei quali è il passaggio all’età adulta e l’affrancamento dalla co-dipendenza, che è precisamente anche il tema di Ratatouille. Il resto (godibilissimo) è sovrastruttura: il topo Remy che vuole cucinare e che arriva a diventare un piccolo chef in combutta con lo sprovveduto Linguini distinguendosi così dal suo branco che aspira – più che a vivere – a sopravvivere. Ma soprattutto, conta in quale griglia di genere questo archetipo viene inserito. Tradizionalmente, il film di animazione occidentale può essere solo musical (vedi i classici Disney), farsesco/parodistico (vedi Shrek), avventuroso (vedi alcuni successi Dreamworks o Pixar). Al limite si poteva assistere ad una commistione tra i generi (un titolo a caso: L’era glaciale). Ratatouille invece punta tutto su un altro tipo di cornice narrativa. Quella della commedia sofisticata, genere Billy Wilder, per intenderci (e il paragone non sembri azzardato). Sarà l’ambientazione parigina, saranno i personaggi principali e secondari ben costruiti, sarà la voce narrante… Ma il riferimento mi è sembrato proprio quello. Certo, c’è la modernità. Animazione allo stato dell’arte, un mix 2D e 3D che lascia a bocca aperta, movimenti di macchina fluidi e ben congegnati, mai gratuiti. Non c’è (o c’è pochissimo) il postmoderno, quello che a quanto pare piace di più ai bambini (citazionismo, autocitazionismo, gag nelle gag… in una parola più slapstick e meno screwball). Una commedia sofisticata d’animazione, che concede al pubblico infantile solo la carineria di un topo come protagonista (nemmeno troppo umanizzato) e pretende un’attenzione alla storia che altri film d’animazione non richiedono, perché appiattiscono la storia sul tema archetipico, dando all’eroe qualche prova da superare e basta. Qui ci sono equivoci, sottotrame, intrighi, eredità, lezioni di cucina… Ovvio che da più parti intorno al sottoscritto i bambini dicessero "Papà, quando andiamo a casa?"… L’attenzione è oggi un bene da centellinare, vista la mole di informazioni che ci arriva quotidianamente. Beh, allora conviene darla a Ratatouille. Che non è – fortunatamente – un film fatto per la serialità (alla Pixar sanno come realizzare dei classici, altrimenti la Disney non ci avrebbe investito). Brad Bird ci aveva già convinto con Il gigante di ferro e Gli incredibili. Jan Pinkava, il coregista céco, è il genio che ha realizzato 10 anni orsono il corto Pixar del vecchietto che gioca a scacchi con sé stesso (procuratevi il DVD subito). Infine, un ulteriore buon motivo per andare a vedere Ratatouille entro stasera. Da domani a venerdì, al Centro Congressi Torino Incontra, è in programma View (l’ottava International CG Conference, precedentemente nota come Virtuality). Ogni giorno sarà presente un tecnico Pixar che ha partecipato alla realizzazione di Ratatouille. Partecipare agli incontri sarà come vedere i contenuti speciali del film dal vivo, con la possibilità di interagire con i grafici e gli artisti digitali. Però non rovinatevi la sorpresa. Prima andate a vedere di che cosa è capace un piccolo chef!

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