NESSUNO E’ GENTILE

Chi, come me, ha una visione grottesca della vita già di suo non può non identificarsi nel modo di raccontare di Virzì. Tutta la vita davanti – come e più di Ovosodo, My name is Tanino e Caterina va in città – ha questo effetto sullo spettatore. Almeno su chi è stato o è tuttora precario e su chi, appunto, vede la realtà sempre con un po’ di strabismo. A questo proposito, va fatta piazza pulita di un paio di preconcetti che accompagnano il cinema di Virzì e questo film in particolare.

Il film non è una rappresentazione fedele della realtà. Piuttosto, è uno specchio deformante dove gli intellettuali di sinistra sono ricchi e svagati, le burine arricchite hanno le poltrone leopardate e i monitor al plasma sempre sintonizzati sul GF, le operatrici del call center sono quasi tutte lobotomizzate e via dicendo. Non ha senso dire che la realtà ha molte più sfumature. E’ ovvio. Raccontare una storia vuole anche dire selezionare, evidenziare, caricare.  Raccontarla per il cinema, in particolare, vuol dire stabilire conflitti chiari e tirare le fila di ogni arco narrativo in due ore.

Virzì non ha mai fatto mistero di volersi richiamare ad una certa stagione della commedia all’italiana (quella dei primi anni ’70) che cita esplicitamente con lo spezzone di Scola. A chi sostiene che quel tipo di cinema non è più possibile, contrappongo una certezza: è possibile se c’è chi gli dà un’iniezione di vita e di attualità, nella fattispecie il Virzì stesso. Secondo appunto: il film è dichiaratamente di sinistra, come il suo autore. Ci mancherebbe che non fosse un film a tesi. Ci mancherebbe che non manipolasse un minimo la realtà per i fini della narrazione.

Con singolare maestria, Virzì è riuscito ad infilare in una trama da film corale tutte le situazioni possibili del marciume odierno: il precariato dei call center, le studentesse che si prostituiscono, i baroni/cariatidi universitari, la fuga dei cervelli, l’ossessione per il successo, le pensioni minime, la cultura da centro commerciale, l’impotenza e il nonsense dei sindacati. Va da sé che come sempre sceglie solo attori bravissimi e molto in parte per assegnargli “scene madri” molto sopra le righe (ma in un mondo sopra le righe non stonano per niente).

Isabella Ragonese (una Caterina cresciuta) è perfetta come scheggia di normalità in un mondo impazzito. Mastrandrea rappresenta bene la sconfitta di una sinistra che non riesce più ad “unire” e che parla al vuoto, perché le “nuove identità di lavoro” sono identità individuali, fintamente coese in gruppo ma prive di coscienza superiore. Ecco, dovessi dire, non ho gradito la rappresentazione delle telefoniste come un branco di decerebrate: credo che la maggior parte dei precari siano persone laureate che accettano quei tipi di contratto per disperazione. Ma mi rendo conto che per far risaltare la protagonista, le altre dovevano essere diverse da lei e tutte uguali.

Resta il sospetto che in tempi recenti Virzì abbia letto molto Ammaniti, dato l’improvviso calco sul pedale del pulp. Ma son cose che non dispiacciono, come del resto l’abbondanza di pelo fornita da Micaela Ramazzotti (già assurta nel mio personale olimpo della gnocca con Zora la vampira). A parte gli scherzi, mai visto un nudo più naturale. L’espressione di Mastrandrea dice tutto.

Ah, per concludere. Tutta la vita davanti non è un film divertente. Fa paura, ed è anche deprimente in modo quasi insostenibile. E’ veramente un film dove nessuno è gentile.

JUNO, O DELLA PERFEZIONE INDIE

Lo aspettavo al varco da settimane, lo pregustavo da giorni e finalmente l’ho visto. Juno è uno dei rarissimi casi di film sui quali ho molte aspettative che va oltre ogni più rosea previsione. Cioè, non so se mi sono spiegato: è più bello di quanto pensassi. Sarà che ero in mood positivo, non so. Ma ripensandoci a freddo, Juno è la perfetta commedia indipendente (cosa che ho già detto, negli anni, di Little Miss Sunshine, Napoleon Dynamite, Lost in Translation, I Tenenbaum, Sideways, Election e prima ancora di Fuga dalla scuola media).

Solo che i film citati erano via via troppo studiati, troppo surreali, troppo intellettuali, troppo freestyle, troppo grotteschi. Per essere veramente perfetti, intendo. Sarà che Juno ha la freschezza di una sceneggiatura originale scritta da una certa Diablo Cody che di mestiere faceva tutt’altro (la spogliarellista, per la precisione). Sarà che la scelta della colonna sonora è la più azzeccata degli ultimi anni. Sarà che gli attori sono tutti perfettamente in parte, e non appestano il film con frizzi, lazzi e gesti istrionici.

Insomma, Juno è il film da amare del 2008. A partire dai titoli di testa, con quel rotoscoping fintamente naif. Piccolo ritratto di suburba americana con giovane tamarra/alternativa che resta incinta del nerd della scuola. Conseguente balletto dei personaggi intorno alla protagonista: compagni di scuola, genitori di lei e futuri genitori adottivi del bambino che Juno porta in grembo.

Ogni personaggio è naturale, pur essendo tratteggiato in modo esemplare. Si ha il sospetto che Diablo Cody sia non un’esordiente, ma una scrittrice di lunghissima esperienza (è una blogger, comunque) che ha saputo asciugare fino ad arrivare all’essenziale e alla naturalezza di una matricola. Ogni personaggio, soprattutto, ha il suo arco narrativo, le sue motivazioni, e un obiettivo chiaro (almeno a noi spettatori).

Soundtrack già nel lettore MP3, manco a dirlo. Non capita tutti i giorni di sentire in una commedia americana i Velvet Underground, i Sonic Youth, i Belle and Sebastian e i Mott the Hoople. Il tutto condito dal minimal folk lunare e sensibile di Kimya Dawson, inedita e inquietante artista multimediale di Olympia (e mi sembra di sentire l’eco delle Hole)…

LAMPI NEL TEXAS

Ce l’ho in testa da qualche giorno, Non è un paese per vecchi. Negli ultimi anni, devo confessarlo, non vado più al cinema tanto frequentemente. Sono diventato selettivo. Parecchio selettivo. Le categorie di film “da vedere al cinema” si sono ridotte a quei film che mi attirano per i loro effetti speciali o la loro fotografia e quei film che istintivamente sento molto vicini alla mia visione. Non è un paese per vecchi soddisfa entrambi i requisiti. L’effetto speciale più interessante è il Texas. La particolarità del film è quella di dipanarsi come un temporale elettrico, con tuoni, lampi e pochi scrosci di pioggia.

La cosa curiosa è che spesso i film troppo premiati non incontrano i miei gusti. Ma in questo caso capisco il paradosso. Il film dei Coen è tanto “classico” quanto “problematico”. Poco barocco, poco postmoderno (a parte in alcuni scorci) soprattutto per quel che riguarda la tecnica. Per quanto riguarda la storia, sicuramente c’è quella dose di eccesso che può accontentare anche i fan più affezionati. Ma la storia della valigetta piena di dollari, come si accennava qualche post fa, è per l’appunto un MacGuffin. E davvero non c’è film dei Coen più hitchcockiano di questo.

Ragioniamoci: una valigetta che in realtà non ha alcun senso, quello che conta è l’angoscia e il gioco del gatto col topo (cfr. Intrigo internazionale). Un protagonista che muore senza troppi indugi ad un certo punto del film (cfr. Psycho). E ci sarebbero altri elementi. Poi c’è John Ford, anche senza Monument Valley, e tanto Peckinpah, anche senza slow motion. Ma soprattutto c’è un gioco incessante tra i campi lunghissimi e i primi piani, tra un paesaggio texano riarso e un paesaggio di rughe (Tommy Lee Jones), di sudore (Josh Brolin) e di follia (Javier Bardem).

Inutile dire che il personaggio di Bardem (il killer Anton Chigurh) è il più affascinante del film. Un raro caso di personaggio che inizialmente suscita risatine e poi solo gelo allo stomaco. Una pettinatura da copiare. Lui e la sua arma ad aria compressa, il suo aplomb, la sua voce minacciosa e il suo schifo del sangue, che pure sparge a piene mani. Il film sembra finire un paio di volte, prima che finisca veramente. Quando finisce (avvertimento) lascia parecchio amaro in bocca.

Come volevasi dimostrare, quando è finito l’altra sera nella sala buia un paio di voci hanno esclamanto “Beh? E la valigetta? Cazzo di film…” – ma la valigetta è il MacGuffin, cari spettatori, la valigetta è il MacGuffin. La vera storia è che – caso vuole – il male vince più spesso di quanto crediamo.