ULTIMATE LIST PANDEMIC EDITION

Fan delle liste di fine anno? Perfetto. Detrattore delle liste di fine anno? Fottesega, le liste arrivano. Le liste travolgono. Le liste lasciano macerie.

Due parole di spiegazione sull’immagine che accompagna questo lungo post (mettiti comodo, ne avrai per un po’). Si tratta di un dettaglio del Codex Mexicanus, un agile volumetto che un gruppo di intellettuali aztechi decise di compilare qualche decennio dopo l’invasione spagnola, per raccogliere tutte le informazioni in loro possesso su questi strani “cristiani” e per testimoniare la storia e la civiltà azteca prima del collasso dovuto (anche) alle epidemie di malattie sconosciute. Non so, stavo pensando a come l’arte ci può in qualche modo salvare dalla pandemia e mi è venuto fuori questo.
Appropriato, no?
Andiamo a incominciare.

BEST MOVIES

JOJO RABBIT
Il primo film che ho visto quest’anno, resta il più amato. La satira toccante di Taika Waititi sul nazismo, supportata da attori (adulti e bambini) efficaci e ben diretti.

SWEET THING
Uno degli ultimi film visti quest’anno, capolavoro indie cassavetesiano (se si può usare questo aggettivo) di Alexandre Rockwell. Anche qui attori bambini molto in palla.

I’M THINKING OF ENDING THINGS
Charlie Kaufman ci ha regalato questo incubo surreale e labirintico su una storia d’amore tutta “mentale”, uno dei migliori film dell’anno.

MANK
David Fincher propone una riflessione sul cinema degli anni ’30 e ’40 mimetizzandosi completamente in quel mondo (un backstage romanzato di Quarto Potere che dice molto sulla macchina cinema).

WOLFWALKERS
Capolavoro arrivato a fine anno, il film di Tomm Moore prosegue il discorso sulle leggende irlandesi avviato con The Secret of Kells e ci regala una storia avvincente e profonda su due bambine-lupo.

A MACHINE TO LIVE IN
Il miglior documentario visto quest’anno, sulla città di Brasilia: si comporta come un film di fantascienza filosofico e ha delle punte di surrealismo estremo.

FAVOLACCE
Il miglior film italiano dell’anno, sognante, misterioso, dolorosissimo. Il sadismo, la passività, la disperazione. Bambini annichiliti. Fratelli D’Innocenzo bravissimi.

THE COLOR OUT OF SPACE
Nicholas Cage sbrocca nel nuovo film (dopo 12 anni!) di Richard Stanley tratto da Lovecraft (e ho detto tutto). Ah, no, gli alpaca!

WEATHERING WITH YOU
Il nuovo anime di Makoto Shinkai è un noir/fantastico/quotidiano che convince pur essendo meno ruffiano e “popolare” di Your Name.

PENINSULA
Quasi un sequel di Train to Busan, uno dei film asiatici più apprezzati quest’anno. Action / Horror con gli zombie coreani che – sia sa – sono velocissimi e snodatissimi.

FRIED BARRY
La rivelazione trash del Torino Film Festival, un trip psichedelico e disgustoso di un’ora e mezza su un alieno che prende possesso del corpo di un eroinomane. Imperdibile.

MOVING ON
Sempre dal TFF, un delicato film coreano che racconta storie familiari di lutti e quotidianità con un piglio che richiama alla mente Ozu.

DA 5 BLOODS
L’ipertrofico film di Spike Lee sui 5 G.I. di colore che vanno a ricercare un tesoro nascosto in Vietnam. Avventuroso, politico, è l’ultima interpretazione del compianto Chadwick Boseman.

CALAMITY
Animazione francese al suo top per la storia della bambina Martha Jane Cannary, da adulta conosciuta come Calamity Jane. Empowerment al femminile, vecchio west e ottima colonna sonora.

HAMILTON
L’outsider. Film di riprese in teatro che aggiunge una dimensione cinetica alla rappresentazione già fuori scala del più famoso musical degli ultimi anni. Coinvolgente.

BEST TV SERIES

THE MIDNIGHT GOSPEL
La serie animata da Pendleton Ward basata sul podcast di Duncan Trussell. Psichedelia, filosofia, chiacchiere e illuminazioni zen.

LOVECRAFT COUNTRY
Una delle serie più interessanti dell’anno, che coniuga orrore lovecraftiano e denuncia sociale. Non a caso prodotta da Jordan Peele e JJ Abrams

THE MANDALORIAN S2
Le avventure di Mando continuano ad essere la cosa più bella uscita dall’universo narrativo di Star Wars in almeno un decennio. Semplicità, coerenza, spade laser.

THE QUEEN’S GAMBIT
Miniserie che ha tutto al suo posto per piacere a tutti. Buona regia, sceneggiatura, recitazione, forse un po’ troppo leccata, ma interessante.

THE PROMISED NEVERLAND
La serie anime che mi ha colpito di più nel 2020, attendo con ansia il seguito. Bambini, orfanotrofio, demoni che si nutrono di bambini, istitutrici malefiche, fughe ed evasioni. Meraviglioso.

THE OUTSIDER
Da Stephen King, la serie HBO come da tradizione cupa e livida, molto azzeccata anche se ogni volta che si sente dire “El Cuco” scappa un po’ da ridere.

STEVEN UNIVERSE FUTURE
L’epilogo della saga di Rebecca Sugar esplora cosa succede all’eroe dopo il trionfo. Non sono tutte rose e fiori, e la miniserie animata esplora disagio psichico, accettazione di sé e traumi infantili.

TIGER KING
La serie documentaria dell’anno. Come sia possibile appassionarmi a personaggi così resta tuttora un mistero per me. Eppure da Tiger King si riesce a capire molto dell’America.

ON MY BLOCK S3
Serie molto sottostimata di Netflix che unisce teen drama e comedy, ambientata nei sobborghi di L.A. Dovrebbe essere la stagione conclusiva, purtroppo (finale un po’ tirato via): speravo in una quarta.

PEN15 S2
Sempre più cringe le avventure di Maya e Anna, le due tredicenni (interpretate però dai loro alter ego trentenni) in cerca di un posto nella durissima vita della junior high. Su Hulu.

COBRA KAI S2
Slowburner prima su YouTube poi su Netflix: Cobra Kai è tutto ciò che un cinquantenne di oggi può volere da una serie tv che riprende i suoi anni ’80 e li ripropone in un contesto “da cinquantenni”. Mazzate e nostalgia, cosa volere di più?

NORMAL PEOPLE
La serie Hulu tratta dal romanzo culto di Sally Rooney è spaccacuore tanto quanto il libro: la storia tra Marianne e Connell dalla high school al Trinity College è una lente di ingrandimento sulle relazioni sentimentali che non si vedeva da tempo.

SEX EDUCATION S2
Tra le serie comedy viste quest’anno certamente una delle migliori, grazie anche all’alchimia tra i personaggi interpretati da Asa Butterfield e Gillian Anderson. Il figlio nerd della sessuologa che fa da counselor ai compagni di scuola è sempre più nei casini…

LOCKE & KEY
Simpatico fantasy horror per famiglie che ha contrassegnato l’inizio del mio 2020, quando ancora non si parlava di lockdown.

BEST ALBUMS

FETCH THE BOLT CUTTERS
Fiona Apple in modalità “uragano creativo” durante il lockdown ha prodotto certamente l’album dell’anno e uno dei suoi più memorabili.

A HERO’S DEATH
La rinascita del post punk (dopo un album d’esordio già folgorante) a cura degli irlandesi Fontaines D.C. Epico.

MISS COLOMBIA
Electronica e Cumbia: Lido Pimienta sa come mescolarle e offrirci una delle migliori sorprese del 2020.

SET MY HEART ON FIRE IMMEDIATELY
Perfume Genius al suo quinto album si riconferma un degno erede di quel modo di scrivere canzoni che è anche di Antony / Anohni.

ULTRA MONO
Sempre post punk, sempre chitarroni, sempre più fighi. Gli Idles sono quelli che quest’anno mi hanno dato parecchia carica.

THE ASCENSION
Un Sufjan Stevens al suo meglio, che dall’electro ricca di glitch sonori riesce a tirar fuori il suo album più pop.

FUTURE NOSTALGIA
Parlando di pop, quest’anno nulla eguaglia il lavoro di Dua Lipa, che partendo dalle sue influenze più evidenti (Madonna, Daft Punk) e con l’aiuto di una produzione ineccepibile sforna una serie di canzoni che rimarranno nelle orecchie a lungo…

MISS ANTHROPOCENE
Grimes confeziona un quarto album con risultati altalenanti ma molto interessante nella commistione di pop, electro, ambient e dance-rock. A volte un po’ pesante, ma godibile.

3.15.20
L’album del lockdown per Childish Gambino, uscito proprio con la prima ondata del Covid, è un caleidoscopio di ritmi e beat da capogiro. In particolare “algoritmi” 🙂

1995
L’album “perduto” di Kruder e Dorfmeister è costituito da tracce realizzate appunto nel 1995. Eppure, suona come una cosa di oggi, ed è uno dei dischi più belli dell’anno.

AFTER HOURS
The Weeknd esce con un concept album che è l’epitome del pop / urban / elettronico del decennio, immerso in luci da Las Vegas e tematiche pulp.

FOLKLORE
Taylor Swift durante il lockdown ha pubblicato due album (questo è il primo) che in qualche modo ribaltano la percezione di diva pop che negli ultimi anni l’ha accompagnata. Songwriting pulito, atmosfere rarefatte, una sorpresa.

THE SLOW RUSH
I Tame Impala proseguono nel loro pastiche psichedelico da camera, con un album meno interessante dei precedenti ma sciolto, fluente, soft. Comunque molto godibile.

BIR TAWIL
Lo so, avrei dovuto mettere Bloody Vinyl 3 come exploit italiano dell’anno, ma la più recente fatica di Dargen D’Amico (uscita proprio a dicembre) mi riconcilia con i beat nostrani e mi fa riscoprire un po’ di spirito hip hop e di STILE a palla.

MAP OF THE SOUL: 7
Il paradigma del K-pop ormai assurto a fenomeno mondiale nel concept album dei coreani BTS, ormai più famosi di Gesù Cristo. Un prodotto confezionato ad arte, un po’ ipertrofico ma interessante.

BEST BOOKS

IL BUIO OLTRE LA SIEPE
Il classico di Harper Lee. Non lo avevo mai letto, ne ho trovato una prima edizione italiana su una bancarella, e me ne sono innamorato. Completa la visione del film.

MANUALE PER RAGAZZE RIVOLUZIONARIE
Il saggio “vecchio” (nel senso che adesso ce n’è uno nuovo) di Giulia Blasi sul patriarcato e come combatterlo. Un manuale che dovrebbero leggere tutti indipendentemente dal genere e dall’età.

VIVERE MILLE VITE
Saggio autobiografico/filosofico di Lorenzo Fantoni a tema videogames. Leggibile a sprazzi o tutto d’un fiato, comunque affascinante – anche per chi non è molto addentro al tema.

ANDRÀ TUTTO BENE
La raccolta delle vignette su Instagram di Leo Ortolani legate alla pandemia, al lockdown è fondamentale per capire l’Italia del 2020.

Andrà tutto bene di [Leo Ortolani]

SCHELETRI
Chevvelodicoaffà, l’ultimo di Zerocalcare è una spanna sopra i precedenti. Sarà per il filtro “thriller” che Zero ha applicato al suo consueto autobiografismo. Più sangue, più droga, più violenza, ma sempre nelle corde del fumettista di Rebibbia.

Scheletri di [Zerocalcare]

NEL CONTAGIO
Il libello (che bella parola) di Paolo Giordano è il degno compagno (serio) delle vignette di Ortolani. Molto lucido.

SVUOTA IL CARRELLO 
Il saggio di Gianluca Diegoli che fa capire il marketing anche alle capre (come me) e funziona sia da agile manuale per i marketer in erba, sia da strumento di difesa per il consumatore consapevole.

A PROPOSITO DI NIENTE
L’autobiografia di Woody Allen. Che insomma, a me è piaciuta.

MERCEDES
Il graphic novel di Daniel Cuello che ha vinto il premio Micheluzzi legge la società odierna attraverso la lente di un personaggio “odioso”, una donna di potere caduta in disgrazia.

Mercedes di [Daniel Cuello]

OPERETTE MORALI
Il classico che non ti aspetti, l’unico libro che vale veramente la pena leggere in questo 2020. Leopardi is the way.

BEST OF WEB / SOCIAL / NEWSLETTER

PUBLIC DOMAIN REVIEW
La newsletter sorprendente del 2020, ricevo via mail immagini e grafiche sensazionali di due o tre secoli fa.
https://publicdomainreview.org

CORONAVIRUS DAL POST
La newsletter del Post ha segnato il 2020 con aggiornamenti puntuali, corretti, esplicativi e mai ansiogeni sulla pandemia.
https://ilpost.us8.list-manage.com/subscribe

DECADE 77-87
Una delle pagine Facebook che amo di più, ogni giorno propone clip commentati di canzoni post punk / new wave / goth / electro / industrial / synthpop scelte in quel range temporale.
https://www.facebook.com/decadeclub77

POLPETTE
La newsletter del Vanz non è una novità del 2020 ma mi piace citarla perché è diventata un appuntamento molto atteso (ambiente, clima, Asia, nerdate varie).
https://vanz.substack.com

DRUSILLA FOER
I video di Drusilla su Facebook Watch sono una delle cose che ha reso più leggero il 2020.
https://www.facebook.com/drusilla.foer

VENTENNI PAPERONI
Per me è diventato in pochi giorni dal lancio un sito di riferimento: si parte da Disney e dai trivia legati a fumetti e animazione per leggere il mondo contemporaneo.
https://www.ventennipaperoni.com

BE UNSOCIAL
Il gruppo / pagina / ora anche newsletter dell’antropologa digitale Alice Avallone offre sempre spunti interessanti per analizzare il sistema dei media digitali.
https://www.facebook.com/beunsocial.it

PRACTICAL EFFECTS GROUP
Uno dei rarissimi gruppi Facebook cui mi sono iscritto, e uno dei migliori. Ci sono sempre dei backstage dedicati agli effetti prostetici da urlo.
https://www.facebook.com/groups/165380038268

GOLDEN AGE OF ILLUSTRATION ARCHIVE
Il secondo gruppo Facebook imprescindibile cui mi sono iscritto quest’anno, il nome dice più o meno tutto.
https://www.facebook.com/groups/423796811729266

151EG
Seguo poco gli youtuber in generale, ma seguo moltissimo 151EG. Un produttore seriale di video a tema animazione dalla cultura sterminata e dall’approccio molto onesto.
https://www.youtube.com/user/151eg

C’È POSTA PER CASTO
Immanuel Casto è un personaggio che seguo da anni, ma nel 2020 ha lanciato questo format di posta del cuore (un po’ stile Dan Savage su Internazionale) che spacca.
https://www.twitch.tv/immanuel__casto

KOSELIG
Altra newsletter che seguo da anni ma mi piace ricordare perché nel 2020 è diventata più agile e più necessaria, Koselig di Mafe De Baggis (comunicazione, digital, libri, acquisti).
https://mafedebaggis.us1.list-manage.com/subscribe

HELLA NETWORK
Come dice il nome, un network di professionist* della comunicazione dedit* a smontare l’intreccio tra comunicazione e patriarcato. Dalla loro pagina Facebook, diversi spunti interessanti per il lavoro del giornalista / copywriter.
https://www.facebook.com/HellaNetwork

EXTRACOLAS
La newsletter di Emiliano Colasanti. Lui di musica ci capisce sul serio. E anche quando racconta i cazzi suoi è illuminante.
https://extracolas.substack.com

ARCHIVIO STORICO LA STAMPA
Uno dei miei siti di riferimento, sembrava dovesse sparire a fine 2020 ma è di pochi giorni fa la notizia del salvataggio. Siamo tutti molto grati.
http://www.archiviolastampa.it

Poi ci sarebbero mille altri libri, dischi, film, serie tv, siti, newsletter e pagine da citare che magari non mi sono venuti in mente, o che non ho fatto in tempo a vedere, o che magari sono usciti dopo il 15 dicembre e quindi finiranno d’ufficio nel listone 2021. Intanto però direi che di roba da recuperare ne avete, sempre che vi fidiate del vostro amichevole blogger di quartiere.

MY OWN PRIVATE TORINO FILM FESTIVAL

Novembre è mese di Torino Film Festival, e quest’anno, data la situazione che ormai tutti conosciamo e di cui non abbiamo più un cazzo di voglia di parlare, il festival si è svolto on line. Ovviamente nella mia vita, dal 1982 ad oggi, ho mancato pochissime edizioni “dal vivo”, ritagliandomi un qualche percorso di visione tra una sala torinese e l’altra. Mettendomi dal punto di vista di uno spettatore qualsiasi, però, non posso evitare di ripetere la stessa solfa che ho tirato fuori per Annecy, per Pordenone e per tutti i festival che quest’anno per la prima volta ho potuto “vedermi da casa”. Sì, la sala, l’esperienza collettiva e tutto il resto, ma io così riesco a vedere a prezzi contenuti film che magari non verrebbero mai distribuiti. Quindi ben venga il ritorno in sala ma non perdiamoci l’asset dell’edizione digitale. Andranno modulati i prezzi e le occasioni di visione, ma – io spero – non si tornerà più indietro e i festival saranno d’ora in poi sempre *anche* digitali. Detto ciò, ecco le #recensioniflash di novembre, totalmente #TFF38 edition!

THE DARK AND THE WICKED (Bryan Bertino, 2020)

#TFF38 cominciato col botto. Di un film come The Dark and The Wicked, quando finiscono i titoli di coda, si può solo dire a mezza voce “porca puttana”, e cercare subito di fare qualcosa di completamente diverso che ti scrolli di dosso la sensazione di angoscia maligna che questo horror ti appiccica addosso. Nell’ultimo decennio c’è stato un manipolo di horror “eccezionali”, come Babadook, Hereditary, Us, It Follows, The Witch. Film che non ti lasciano stare e che tornano da te anche dopo settimane o mesi che li hai visti. Scommetto sui miei incubi che il film di Bryan Bertino sarà uno di questi. La storia in breve: due fratelli tornano in una fattoria del Texas per assistere il padre morente e stare vicino alla madre. Quest’ultima si comporta in modo assai strano e diventa subito chiaro che sulla casa aleggia una presenza demoniaca. Non dico altro per non spoilerare, ma il male trasuda da ogni inquadratura (ovviamente impercettibili rotazioni di quadro, angolazioni assurde, lentissimi carrelli in avanti, apparizioni nell’ombra e tutto l’armamentario che il regista di horror deve sapere padroneggiare) e la sensazione è quella di assistere a una tragedia annunciata che fa mancare l’aria e fa drizzare peli che non sapevi nemmeno di avere. Perciò: bellissimo. Non perdetevelo. #recensioniflash

WILDFIRE (Cathy Brady, 2019)

Il mio #TFF38 prosegue con Wildfire di Cathy Brady. Uno studio psicologico su due sorelle, l’Irlanda, il confine, l’IRA, le bombe, la Brexit, il trauma collettivo e il trauma personale (un film di traumi grossi come una casa). Kelly torna dalla sorella Lauren dopo essere scomparsa per due anni. La causa di tutto è la morte della madre (suicidio? Incidente? Si capirà solo alla fine). Si parla molto di follia, di ereditarietà della follia e si recita molto sopra le righe (probabilmente inevitabile). Alla fine la rivelazione che il film è dedicato a una delle due attrici protagoniste, morta di cancro alla fine delle riprese. Questo sembra quasi mettere in prospettiva il modo in cui la storia viene messa in scena nel film. Si fanno i conti col passato personale e nazionale. Magari non è molto nelle mie corde, ma per un lungometraggio di esordio è tanta roba. #recensioniflash

LAS NINAS (Pilar Palomero, 2020)

Il mio #TFF38 prosegue con Las Ninas di Pilar Palomero, un’opera prima in concorso che ben rappresenta l’indomita anima “Cinema Giovani” del festival. È il racconto di un passaggio dall’infanzia all’adolescenza nei primi anni ‘90: Celia, la bambina protagonista, vive in un mondo schizofrenico. Studia in un collegio di suore ma quando esce trova una Spagna che tende a modernizzarsi e affrancarsi dal retaggio cattolico e franchista. L’arrivo di una nuova compagna da Barcellona la aiuta a definire la sua identità in contrapposizione alle compagne, alla madre single (che ha una storia misteriosa di cui non vuol parlare con la figlia) e alla società. Il film procede per accumulo di scene che possono sembrare già viste ma solo perché sono esperienze universali – in questo senso il film può funzionare a qualsiasi latitudine: la prima sigaretta, il primo rossetto, il gioco “non ho mai”, le ripicche con le amiche stronze, il sesso come tabù a scuola e a casa ma reso esplicito in pubblicità, canzoni, giornali, televisione. È un percorso di formazione per riuscire a trovare (anche letteralmente, come è chiaro dal finale) la propria voce nel mondo. #recensioniflash

MICKEY ON THE ROAD (Mian Mian Lu, 2020)

Dal #TFF38 arriva anche Mickey on the Road, un film taiwanese molto interessante che – a fronte della mia sostanziale ignoranza di cinema cinese, che ho praticato poco e solo per nomi di spicco – mi ha colpito molto. A differenza del cinema giapponese o coreano, chissà perché sono sempre stato portato a pensare che il cinema cinese per quanto sontuoso dovesse sempre avere una certa patina di noia. Non è così, ovviamente, e il mio pregiudizio probabilmente viene dal fatto di aver scelto male i film cinesi che ho visto in passato. Mickey on the Road è la storia di Mickey e Gin Gin, due ragazze – una mascolina e ribelle praticante di arti marziali nel tempio e una go go dancer per le discoteche con i capelli rosa fluo – che vanno alla ricerca di una presenza maschile “mancante”. Per Gin Gin è il fidanzato e per Mickey il padre che ha abbandonato lei e la madre depressa. Entrambi gli uomini si sono trasferiti a Guangzhou, nel continente. Parte il road movie coloratissimo (diciamo “al neon”, con una fotografia che fa molto Danny Boyle) e le due ragazze passeranno da una situazione all’altra, dalla leggerezza al disagio, fino a incontrare l’oggetto del proprio desiderio e – ovviamente – disilludersi. Nemmeno troppo velato il metaforone del viaggio tra le due Cine, quella “vera” di Taiwan e quella ormai dissolta nel capitalismo del continente, ma molto godibile il percorso di crescita delle due protagoniste pur con qualche scena mélo / estetizzante di troppo. Comunque una gioia per gli occhi. #recensioniflash

MOVING ON (Yoon Dan-bi, 2019)

Nella doppietta di ieri al #TFF38 spicca Moving on, esordio coreano di Yoon Dan bi (e sono 3 esordi di 3 registe che vedo finora, con Wildfire e Las Ninas). Il cinema coreano nella percezione dei “non praticanti” equivale a film di zombi oppure Parasite? Moving on è qui per smentire il pregiudizio. Accolto in patria come uno dei migliori film del 2019, Moving on racconta una “non storia” familiare, nel senso che succede poco o nulla ma c’è un’accorta messa in scena di rapporti familiari sottili. L’adolescente Okju e il fratellino Dongju sono costretti a vivere a casa dell’anziano nonno una volta che il padre si separa dalla madre. Ben presto in casa arriva anche la sorella del padre, anche lei in rotta di collisione col marito. Questo nuovo, strano e “forzato” nucleo familiare tira avanti come può, tra silenzi e litigate continue, tra un supporto al nonno anziano e una passeggiata, tra lo studio e il lavoro che manca, in una casa che – come in Parasite – è coprotagonista del film (le ultime inquadrature, piene di solitudine e di assenza, sono dedicate a lei). Un film familiare che è universale nella sua classicità e che ricorda tanto il Kore’Eda di Affari di famiglia quanto, in alcune inquadrature di convivialità o di vita familiare, direttamente Yasujiro Ozu. Da vedere. #recensioniflash

A MACHINE TO LIVE IN (Yoni Goldstein, Meredith Zielke, 2020)

Il documentario che non ti aspetti al #TFF38 è A Machine to Live In, di Yoni Goldstein e Meredith Zielke. Mi sono affrettato a prenotarmi perché io sono un fan malatissimo di Brasilia, la “capitale artificale” del Brasile. Brasilia è in assoluto una delle città al mondo che più di ogni altra desidero vedere toccare annusare, l’incubo di un architetto modernista nel quale perdermi. Perciò, non potevo esimermi. E qui, la sorpresa. A Machine to Live In (la città come organismo artificiale, un concetto di Le Corbusier che ha ispirato anche il demiurgo di Brasilia Oscar Niemeyer) è un documentario quantomeno fuori dagli schemi. Inizia con rumori industriali e inquietanti versi animali, prosegue infilando una sequela di inquadrature fisse su architetture impossibili e cemento armato bianco con piccoli dettagli umani o automobili in movimento, con una voce fuori campo pesantemente filtrata in modo da risultare degna di un album dei Nine Inch Nails che recita il commento audio a volte intrecciandosi in modo sfasato con una seconda voce che dice essenzialmente le stesse cose, in un assalto audiovisivo che non riesco a descrivere se non con la formula Herzog + Antonioni + Rocha + Jodorowsky. Si insiste molto su questa architettura “senza spigoli e senza ombre” e su come sia possibile (o impossibile) la vita a Brasilia citando passaggi della scrittrice Clarice Lispector, ascoltando cori di voci bianche che – per quelli che mi sono sembrati dieci minuti buoni in inquadratura fissa – cantano un qualche inno brasiliano, facendosi trascinare da visioni in 4K veicolate da droni, gimbal e rendering 3D. Brasilia è un’utopia, una pista per l’atterraggio degli UFO, il posto dove è nato l’esperanto (assistiamo anche a una lezione di esperanto, toh), il posto dove c’è più cataratta al mondo, dato che l’architettura bianchissima e spoglia riflette all’infinito i raggi UV. Pare che i registi siano andati ogni estate a Brasilia per otto anni (il mio sogno, ripeto) per accaparrarsi il materiale per costruire il documentario. Un sogno/incubo surrealista meglio di un film di fantascienza e – azzardo – forse il film migliore tra quelli visti finora – ma è proprio un altro campionato. #recensioniflash

FRIED BARRY (Ryan Kruger, 2020)

Stamattina non posso cominciare se prima non vi parlo di Fried Barry, visione “after midnight” di stanotte al #TFF38. Fried Barry è l’esordio nel lungometraggio di Ryan Kruger, ed è tratto da un corto omonimo di 3 minuti del 2017: la prima cosa che può venire in mente è che funzionava meglio come cortometraggio. Fried Barry è chiaramente un film insensato e gonfiato di scene slegate tra loro per il puro gusto della provocazione che ha fatto e farà incazzare abbestia moltissimi spettatori (ho in mente un cospicuo numero di amici che – se fossimo andati in sala insieme a vederlo – mi avrebbero aggredito con un “MA COSA CAZZO MI HAI PORTATO A VEDERE”). Eppure, chiariamo ogni dubbio: io con Fried Barry mi sono divertito come non succedeva da anni (beh, oddio, Mandy con Nicholas Cage mi ha dato le stesse vibrazioni, per dire). In questo glorioso filmaccio trucido e psichedelico, introdotto da una sequenza in cui un censore ci spiega perché il film è vietato ai minori di 18 anni e perché in nessun caso dovremmo mostrarlo a un minore, seguiamo Barry “il bruciato”, un eroinomane di Cape Town, Sudafrica mentre vaga per la città, si buca e si cala gli acidi. A un certo punto Barry viene rapito dagli alieni (sequenza indescrivibile con sonde anali, buccali e un catetere alieno nel pisello) e viene rimandato sulla terra come un involucro umano che ospita l’alieno che vuole sperimentare la vita sulla terra. Da lì in poi si spinge sul pedale della follia e del grottesco. Barry (l’attore con una faccia che non si può dimenticare, Gary Green) è ridotto a un “Barry-abito” (cit.) e passa da un rave in discoteca all’ingestione di quantità esagerate di droga, da situazioni di sesso selvaggio a pestaggi, con le parentesi comiche della moglie che lo cerca disperatamente e che trova – non sapendo nulla – che il Barry alieno sia più gentile e amorevole del Barry umano. A un certo punto assistiamo a una scena di body horror estremo (una prostituta che ha fatto sesso con il Barry alieno partorisce lì sui due piedi un clone di lui), poi improvvisamente il film vira sul thriller e il Barry alieno salva un gruppo di bambini rapiti da un non meglio identificato killer pedofilo. Sangue a fiumi, luci assurde, ritmo e stile da videoclip di Aphex Twin, un’ode all’estetica Zef (la sottocultura del “brutto, sporco e cattivo ma con stile” che negli ultimi 10-15 anni va per la maggiore in Sudafrica) che non smette mai un attimo di pompare adrenalina e musica electro-industrial-dubstep-salcazzo. Un film assolutamente inutile, trash, grottesco e sopra le righe. Quindi, un film bellissimo 😃 #recensioniflash

UN SOUPÇON D’AMOUR (Paul Vecchiali, 2020)

Volendo far mostra a me stesso di essere uno spettatore eclettico e onnivoro, ho messo in lista tra le mie visioni del #TFF38 anche Un soupçon d’amour di Paul Vecchiali. Un po’ per il titolo, che è una roba che urla mélo francese da ogni lettera, e un po’ per Paul Vecchiali che secondo me è sempre stato un po’ sottovalutato e insomma adesso che ha novanta anni suonati vuoi non vedere il suo ultimo film? Ecco, vabbè. Magari potevo giocarmela diversamente. Non che sia un brutto film, eh. Però immaginatevi questo. Vecchiali (a suo tempo definito da Truffaut l’unico erede di Jean Renoir) dedica il suo film a Douglas Sirk. Che figata, penso io, aspettandomi inquadrature turgide, schizzi di emozioni represse che scoppiano, scene madri. Ecco, no. Vecchiali dall’alto dei suoi novant’anni è uno di quelli che piazza la cinepresa e la lascia lì. In tutto il film ci sono pochissimi stacchi (anche negli interminabili dialoghi, invece di usare il campo contro campo lui rimane su un attore anche mentre parla l’altro, dando luogo a un effetto di straniamento quasi godardiano). I movimenti di macchina si contano sulle dita di una mano, e quando ci sono fanno un effetto “Boris” che levati, tipo: [Campo medio] “Ma cosa starà facendo?” – [Zoom a schiaffo sul primo piano del personaggio parlante] “…Non lo so…”. Quindi: un film estremamente statico, di scavo sui primi piani e sui dialoghi, francamente per me un po’ soporifero salvo il plot twist finale che vi rivelerò perché tanto non lo vedrete mai, al TFF non è più disponibile e di certo nessuno lo distribuirà in Italia. QUINDI RAGA SPOILER, NON LEGGETE OLTRE SE VI DA FASTIDIO ANCHE SOLO IL CONCETTO DI SPOILER. La storia è quella di Isabelle, una grandissima attrice di teatro che rinuncia alla parte da protagonista in Andromaca di Racine perché vuole stare accanto al figlio dodicenne Jérome, malato di brutta malattia. Attorno a lei girano tutti quelli della troupe, il regista, il marito primo attore, la sostituta che si scopa (si scopava? si scoperà?) il marito, un prete, una maestra di paese. Isabelle si abbandona al dolore e ai ricordi, le scene sono totalmente slegate tra loro e non si capisce mai se siamo nel presente, in un flashback o nell’immaginazione di lei. A 47 secondi dalla fine del film, la rivelazione: “Isabelle, ma che cazzo dici, nostro figlio è morto da 20 anni”! Parte improvvisamente una immotivata e assordante musica hitchcockiana e Isabelle dice “Ma va’, adesso te lo chiamo: Jéroooome, Jérome vieni qui”! La voce di Jérome dice “Arrivo, mamma!” e il marito di Isabelle fa la faccia basita. Fine. Vabbè, comunque. #recensioniflash

THE OAK ROOM (Cody Calahan, 2020)

The Oak Room, al #TFF38. Sapete quando ci sono quei film che non devi in nessun modo rivelare il finale perché altrimenti si rovina tutto, tipo I soliti sospetti, Seven, Il sesto senso. Ecco, The Oak Room è uno di quelli. Un thriller molto ben costruito ma un po’ poco comprensibile che acquista tutto il suo senso nei due minuti finali. Ovviamente bisogna essere ATTENTISSIMI nei 90 minuti precedenti, altrimenti non si coglie appieno la rivelazione (motivo per cui io – che sono un po’ cecato e facile alla narcolessia – ho dovuto rivederlo due volte per capire bene). Sì perché The Oak Room è un film teatrale, fatto esclusivamente di dialoghi (e di un po’ di azione e splatter nel sottofinale). Dialoghi che vengono portati avanti per il 95% del film in un bar buio, di notte, prossimo alla chiusura. In pratica è già molto se si riesce a vedere il labiale degli attori o a distinguere gli occhi. Tutto fa atmosfera, comunque, e la cosa più interessante è la riflessione metanarrativa sul raccontare storie come merce di scambio e come passaporto per la salvezza. In The Oak Room un ragazzo (RJ Mitte, il figlio di Walter in Breaking Bad) entra in un bar prima della chiusura, si capisce dalle parole che scambia col barista ostile che quest’ultimo era amico del padre ormai morto, e che i due hanno una questione in sospeso. Il ragazzo racconta una storia che si svolge in un altro bar poco lontano da lì, chiamato “The Oak Room”. Il protagonista di questa storia nella storia, ambientata in un altro bar, a un certo punto racconta una storia anche lui. Ma poi anche il barista del primo bar interrompe e racconta una storia, in cui uno dei personaggi improvvisamente racconta una storia. Insomma è tutto un inception di storie clamorosamente slegate tra loro ma che poi sono accomunate da qualcosa di sconvolgente che viene rivelato solo alla fine. Comunque, non abbiate paura della noia: è un film che tiene incollati alla sedia e ha una discreta dose di ultraviolenza concentrata tutta in pochi minuti che placherà i fan delle mazzate e del sangue. Speriamo lo distribuiscano presto, è una vera curiosità. #recensioniflash

EL ELEMENTO ENIGMÀTICO (Alejandro Fadel, 2020) / THE PHILOSOPHY OF HORROR (Péter Lichter, Bori Máté, 2020)

Ultimo spettacolo per il mio #TFF38: è d’uopo qualcosa di assolutamente sperimentale. C’è sempre, al TFF, quella proiezione che ti chiedi “chi cazzo me lo ha fatto fare”, ma alla fine resti lì ipnotizzato. Quest’anno è il caso della doppietta “El elemento enigmàtico” + “The philosophy of horror: a symphony on film theory”. Il primo è un film cileno di 40 minuti che contiene se va bene una cinquantina di inquadrature (fatevi il conto, vuol dire che ogni inquadratura dura 20 o 30 secondi, quando nella norma del cinema contemporaneo un’inquadratura di due o tre secondi ci sembra già interminabile). Queste inquadrature sono quasi tutte immagini fisse e abbaglianti di paesaggi innevati. Dopo una decina di minuti così cominci a notare che nei paesaggi innevati ci sono tre minuscoli omini vestiti tipo astronauti. Dopo un’altra decina di minuti (in cui gli unici suoni sono il vento, la neve e una musica drone/ambient un po’ alienante) gli astronauti iniziano a parlare del concetto di libertà e se la libertà esista veramente. Ma in realtà NON parlano. Leggiamo solo dei sottotitoli colorati (ogni colore corrisponde a uno dei tre astronauti), ma il sonoro è sempre solo vento, sciabolate di musica elettronica e scricchiolii vari. A un certo punto (dopo appunto 40 minuti) gli astronauti in qualche modo si vaporizzano e inizia a piovere. Fine del film. Vaaaaaaa bene.
In realtà io sono qui per “The philosophy of horror”, che è tratto da un saggio di Noel Carroll sull’estetica del cinema di paura, e mi aspetto un documentario sul mio genere preferito. Stolto me! Il film (60 minuti) inizia con una OUVERTURE ORCHESTRALE accompagnata da blob nerastri che sfumano l’uno nell’altro. Poi partono dei brani scritti in piccolo a tutto schermo che riportano parti del libro (a tratti ritornano punteggiando il film come se fossero incipit di capitoli). Il film in sé è la riproposizione di alcuni spezzoni di Nightmare on Elm Street e Nightmare on Elm Street 2: Freddy’s Revenge in cui la pellicola è stata bruciacchiata / dipinta / sfregiata / ricolorata / sbollentata / graffiata. La visione diventa così un’aggressione audiovisiva stroboscopica (anche qui con musica ambient/drone ossessiva a palla per tutti i 60 minuti) in cui vediamo solo facce che urlano, lame che graffiano, facce pressoché irriconoscibili (ma sappiamo che ci sono Heather Langenkamp, John Saxon, Johnny Depp) intervallate da riflessioni sull’emozione della paura. A un certo punto c’è anche un INTERVALLO, nel caso al malcapitato spettatore venga voglia di andare a far pipì o prendersi le patatine. Comunque, ripeto. Non c’è TFF senza un film – in questo caso una doppietta – come questa. Ma forse io non ho più l’età per il cinema sperimentale. #recensioniflash

JAGSHEMASH! SEGUITO DI RECENSIONI FLASH

La nebbia agl’irti colli piovigginando sale, e senza le sue sale urla e biancheggia il cinefilo quarantenato. Abbiamo voluto provarci, ci siano seduti distanti ma niente, nonostante TENET ci hanno chiuso i cinema comunque, ed ecco quindi per ottobre una infornata di titoli visti rigorosamente a casa, con la mascherina, che non si dica che non rispettiamo i DPCM.

LUPIN III – THE FIRST (Takashi Yamazaki, 2019)

Vi volevo dire questo, magari l’avete già visto, magari ce l’avete lì in lista e non osate guardarlo. Allora vi tolgo dall’imbarazzo: Lupin III – The First, il film di Takashi Yamazaki tratto dal celeberrimo manga di Monkey Punch è una cagata pazzesca. Io non mi capacito assolutamente di come una cinematografia abituata da decenni a una produzione animata più che consistente sia così problematica sul piano dell’animazione 3D. Ma non dal punto di vista tecnico, proprio dal punto di vista concettuale. Cercherò di spiegarmi meglio. Sgombriamo intanto il campo dalla trama: Lupin III – The First è una piacevole avventura nel solco di quelle meno cupe e più divertenti del ladro gentiluomo, è ambientato in non meglio definiti anni ’60, una decina (abbondante) di anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Nell’antefatto, infatti, un artefatto fabbricato da un archeologo di fama mondiale viente fatto sparire per non farlo prendere dai nazisti cattivi. Si tratta di un diario che Lupin e soci vogliono, ma hanno una rivale: Laetitia, la nipote di un vecchio nazi lo vuole per il nonno. Anche Lupin, in un certo senso, lo vuole per il nonno Arsène, che non era riuscito a rubarlo. Vabbè, tanta azione, tanti inseguimenti, tante faccette, Fujiko che fa il doppio gioco, Jigen con la cicca in bocca, Goemon ossessionato dalla sua spada, Zenigata che si lancia in folli cacce all’uomo (e per un attimo si allea con lo storico rivale). Sulla carta un film abbastanza godibile (per quanto scivola via come un’avventura di Indiana Jones fuori tempo massimo). Ma il problema è l’animazione. Yamazaki aveva fatto miracoli in Doraemon Stand By Me, ma il trucco qui non riesce. Il mondo di Doraemon è antinaturalistico e stilizzato, e il 3D lo rendeva… antinaturalistico e stilizzato ma in 3D. Il mondo immaginato da Monkey Punch è estremamente realistico ma al tempo stesso caricaturale e iperespressivo. Ci troviamo perciò di fronte ai pori della pelle di Lupin, ai riflessi della sua giacca di pelle, al movimento dei suoi capelli e dei suoi basettoni in una impressione di forte realismo ma… con le bocche e gli occhi che sfidano le leggi dell’anatomia deformandosi in smorfie, risate e rotazioni che se nella serie anime originale erano simpatici, qui risultano creepy come un Jonathan Galindo qualsiasi. Per di più, i personaggi che non fanno parte della banda di Lupin (Letitia e i nazi, per dire) stonano. Nel senso che sembrano usciti da UN ALTRO film. Tendenzialmente da quei filmati di pausa tra un livello e un altro di un videogame del 2005. Provate a vederlo, vediamo se l’impressione è la stessa. Io ho dovuto sforzarmi un po’. E non è bello da dire, per un film di Lupin. #recensioniflash

LA TEMPESTA NEL CRANIO (Carlo Campogalliani, 1921)

Oggi vi voglio fare una delle mie #recensioniflash su un film che probabilmente – se non siete accreditati alle Giornate del Cinema Muto – non riuscirete a recuperare tanto facilmente, ma la voglia vorrei farvela venire comunque. Si tratta di La tempesta in un cranio, di Carlo Campogalliani, del 1921. Già un film che si intitola “La tempesta in un cranio” secondo me va visto a prescindere, e comunque Campogalliani in quel periodo usciva con titoli fantastici come “La droga di Satana” che non sfigurerebbero nella filmografia di Rob Zombie. Comunque sia, un po’ di contesto, via. Campogalliani, se non lo sapete, è un regista/attore che ai tempi del muto ha realizzato diversi film della fortunatissima serie di Maciste e ha il merito di aver sposato una delle rare dive del muto torinesi DOC, Letizia Quaranta (coprotagonista anche di questo film, anzi di questa film). Annotatevi anche che secondo Campogalliani “Una film che non voglia dimostrare qualcosa, non ha valore. Il Cinematografo deve essere un messo di propaganda: del bene, della bontà, dell’onestà dei più nobili sentimenti umani e sociali. Deve, insomma, divertendo istruire”. La tempesta in un cranio è infatti un film avventuroso, surreale, comico, modernissimo: non so esattamente cosa insegni, ma lo fa certamente divertendoci un mondo. Renato De Ortis (Campogalliani stesso) è l’ultimo rampollo di una nobile famiglia di pazzi squinternati. Ha paura di impazzire egli stesso e si avvelena la vita nonostante abbia soldi, fortune e l’amore della sua fidanzata Liana (Letizia Quaranta). I suoi amici gli dicono “ma no che non diventi pazzo” ma lui ha le sue ossessioni notturne, i suoi incubi e ad un certo punto BUM! arriva la tempesta nel cranio e lui si risveglia barbone, assume in pratica una nuova identità, non è più il nobile Renato ma un delinquente di mezza tacca, viene messo in prigione però è fortissimo e acrobaticissimo e riesce a fuggire, poi finisce ospite di uno straccivendolo, si innamora di Ada, una popolana guarda caso identica alla sua fidanzata. Il padre di lei è un inventore che sta sperimentando il fototelefonofotografo, in pratica uno smartphone, poi arrivano dei banditi, poi Renato e Ada vengono catturati e legati, si liberano in modi rocamboleschi, tipo anche facendosi aiutare da un simpatico topo di fogna e alla fine… naturalmente era tutto un sogno durato 7 giorni in cui lui ha sempre dormito. Tutti i personaggi che lui ha incontrato nel sogno erano in realtà scienziati e psichiatri a sua disposizione per fargli una specie di shock treatment e guarirlo dalle sue nevrosi. L’amico romanziere, intanto, ha scritto (in 7 giorni) un libro che documenta tutte le folli avventure di Renato.
In tutto ciò Campogalliani lancia continui e ammiccanti sguardi in macchina rompendo la quarta parete che nemmeno Fleabag cento anni dopo, anche se io mi sarei aspettato che oltre alla quarta parete rompesse anche le ossa ai sedicenti amici che non solo gli fanno passare le pene dell’inferno ma per di più ci scrivono su un romanzo e si arricchiscono. Invece finisce tutto a tarallucci e vino. Eppure è una film meravigliosa!

VAMPIRES VS. THE BRONX (Osmany Rodriguez, 2020)

Parliamo di Vampires vs. The Bronx, su Netflix. Se avete in casa un ragazzino tra gli 11 e i 13 anni (dopo no, che si passa direttamente a Carpenter) cui un po’ piace essere moderatamente spaventato, il film è quello giusto. Intendiamoci subito, è una piacevole cazzatina tipicamente Netflix, coi ragazzini in bicicletta che combattono i vampiri nel Bronx (il titolo è estremamente autoesplicativo, un po’ come Snakes on a Plane, per dire). Andiamo subito a spulciare i riferimenti diretti: un po’ Stranger Things, un po’ Ammazzavampiri di Tom Holland, un po’ Ragazzi Perduti di Schumacher, un po’ Blade (direttamente citato con spezzoni nel film), un po’ Buffy, ma ovviamente una spanna sotto tutti. La società di copertura dei vampiri si chiama Murnau Real Estate (perché la “sottile metafora” è che la gentrificazione del Bronx è una piaga paragonabile al vampirismo), il servo umano dei vampiri si chiama Polidori, insomma tante strizzatine d’occhio assolutamente inutili. Prevedibilissimo (ma in un certo senso confortante), praticamente con zero sangue, zero sesso e pochissime parolacce, si salva per l’interpretazione dei giovani protagonisti (che mi hanno ricordato un altro ensemble cast adolescente, quello di On My Block) e ovviamente per l’ambientazione inedita. La scena migliore secondo me è quella della raccolta delle armi pre-combattimento dove i protagonisti costretti dalle nonne a una messa serale irrompono nella sacrestia rubando l’acquasanta con le bottiglie vuote di Sprite. Insomma, ora anche il Bronx ha i suoi succhiasangue, dopo la Brooklyn di Eddie Murphy / Wes Craven e la serie di What We Do in the Shadows a Staten Island. #recensioniflash

CATS (Tom Hooper, 2019)

In questo momento sto un po’ in para, tra il covid e vari cazzi privati, allora per distrarmi vi voglio dire due cose su Cats, una #recensioneflash atipica su quello che è considerato il (o uno dei, via) film più brutti del mondo.
Nulla in contrario al musical di Lloyd Webber, di cui non sono appassionato ma che pratico e conosco da quando son piccino, e insomma ho avuto anche io la mia buona dose di canzoni tra un Memories, un Rum Tum Tugger e un Old Gumbie Cat.
Il film però è veramente un inno alla noia e all’imbarazzo. Noia e imbarazzo si bilanciano così bene che quando stai per addormentarti dalla noia arriva l’imbarazzo a risvegliarti e quando sei profondamente a disagio per quello che si vede sullo schermo la noia ti porta in salvo (ad esempio tutto il pezzo di Taylor Swift me lo sono fumato così, sonnecchiando).
Andiamo avanti con impressioni sparse:
– tutto il trucco e parrucco del film sembra una trasposizione felina dell’effetto speciale alla base del famoso meme di YouTube “Annoying Orange”
– il film è chiaramente un’ode alla sessualità Furry, ci si aspetta sempre che da un momento all’altro i gatti comincino a inchiavardarsi tra loro (“Furry” esiste, non ho controllato prima di scrivere ma sono piuttosto certo che ci sia anche la categoria su Pornhub)
– le proporzioni all’interno delle inquadrature sembrano realizzate da un geometra reso pazzo dalla visione di Cthulhu e dei Grandi Antichi
– L’idea che gli attori siano nudi (pelosi ma nudi) è alla base di grandi momenti di imbarazzo, per esempio quando allargano le gambe a favore di camera o fanno mostra di leccarsi lì: forse era meglio evitare di spingere troppo sul realismo felino.
Poi boh, la scelta di Jennifer Hudson e Jason Derulo per i ruoli di Grizabella e Rum Tum Tugger mi è sembrata anche felice, ma tanto è difficilissimo riconoscerli.
In definitiva, un film che potrebbe popolare i vostri incubi.

OVER THE MOON (Glen Keane, 2020)

Cominciamo col dire che Glen Keane è praticamente Dio. Tra i viventi, il più grande animatore del mondo. Se non lo avete mai sentito nominare, Keane comincia con Bianca e Bernie, attraversa Red e Toby, Taron e la pentola magica, Basil l’Investigatopo e Oliver & Company. Poi diventa responsabile unico del rinascimento Disney concependo La Sirenetta, La Bella e la Bestia, Aladdin, Pocahontas, Tarzan. Poi si prende una lunga pausa. Nel frattempo lavora con Lasseter prima che la Pixar diventi la Pixar e concepisce il primo incrocio tra CG e animazione tradizionale animando una scena di Where The Wild Things Are di Maurice Sendak (cosa, COSA sarebbe stato fargli fare quel film… ma non c’erano soldi, e Keane si sfoga poi con la scena del ballo nel castello della Bestia). Poi torna trionfalmente nel 2010 con Rapunzel e a seguire chiude con la Disney per divergenze creative. Poi vince un Oscar nel 2017 per il corto animato su Kobe Bryant. E nel 2020 anima, co-produce e dirige Over The Moon su Netflix.
Certo, cosa credevate, era tutta una lunga intro per la #recensioneflash di oggi.
Ora, se Keane è il Dio dell’animazione, Over The Moon dovrebbe essere un capolavoro. Eh. Diciamo che si lascia guardare. Tutto in Over The Moon è perfettamente studiato per essere… uhm… splendidamente perfetto. Si copia dai migliori, si frulla tutto e voilà. Over The Moon è un concentrato ipercinetico di animazione disneyana di primo livello, manga, illustrazione popolare cinese, videogame, pop art, suggestioni Pixar e Ghibli, un’occhio allo stile del multiverso di Spider-Man (produce Sony), un orecchio (e anche qualcosa in più) a Frozen, una colonna sonora che frulla K-Pop e musical hip hop alla Hamilton (la dea della luna Chang’e è Phillipa Soo), buffe creature caramellose, luci, psichedelia. La storia è quella di Fei Fei, bambina orfana di madre che non sopporta di vedere che il padre sta per risposarsi. La mamma le raccontava sempre la storia della dea della luna Chang’e e lei decide di andare sulla luna in un disperato e infantile tentativo di trovare Chang’e e convincere il padre che l’amore è eterno e tutto deve sempre restare uguale. Nel viaggio la accompagna il futuro fratellastro infilatosi a sgamo nel razzo costruito da Fei Fei. (Dimenticavo: tutto si svolge in Cina, la produzione è dello studio Pearl, lo stesso di Abominable). OK, dunque abbiamo il classico viaggio dell’eroe declinato pari pari. Tutta la prima parte del film è visivamente bellissima e l’animazione – manco a dirlo – è stupefacente. Poi i bambini arrivano sulla luna, vengono trasportati da leoni alati nella città di Lunaria e… beh. Proprio dove la fantasia dovrebbe regnare sovrana, ci troviamo in un mondo alla Candy Crush, con richiami a Angry Birds, Ralph Spaccatutto, Frozen (nel senso che c’è un personaggio che praticamente è Olaf e Chang’e ha degli assoli molto Elsa), Up… e con dei momenti invece degni dell’animazione Disney vecchio stampo (tutte le scene con i coniglietti, guarda un po’). I diversi elementi e i diversi stili visivi del film cozzano un po’ tra di loro creando purtroppo l’effetto di un film irrisolto (e poteva invece essere molto di più, poteva arrivare volendo ai livelli di Coco o Inside Out). Over The Moon è più sperimentale in un certo senso, e questa cosa la paga in termini di minor coinvolgimento. Solo verso la fine le cose si calmano un po’, la “lezione” viene imparata, l’eroe torna con l’elisir nel mondo conosciuto e i giochi si chiudono. Ai bambini piacerà moltissimo (e del resto meglio un Over The Moon che mille Angry Birds o Ugly Dolls), ai grandi sembrerà un collage di mille film già visti. Ma animato da Dio.

BORAT SUBSEQUENT MOVIEFILM (Sacha Baron Coen, 2020)

Borat Subsequent Moviefilm: Delivery of Prodigious Bribe to American Regime for Make Benefit Once Glorious Nation of Kazakhstan (di seguito per brevità “Borat 2”) è un film da vedere? Sì. Magari è un po’ fuori tempo massimo? Sì, anche. Per chi già conosce Borat, nulla di nuovo e – sinceramente – nulla di particolarmente sconvolgente. Rifare Borat 14 anni dopo il primo azzeccatissimo film semplicemente non è possibile. Baron Coen mette in scena fin da quasi subito questa impossibilità: la gente lo riconosce per strada e gli grida “Borat, fammi un autografo”. Evidentemente, quindi, il film che si pone come un sequel e che si comporta come un remake/reboot deve essere gestito in modo diverso. Borat diventa un trasformista alla Fregoli, si traveste da professore, da cantante country, usa parrucche e travestimenti improbabili per non farsi riconoscere e lascia spesso e volentieri la scena alla figlia Tutar (Maria Bakalova) in un passaggio di testimone del cringe che è anche un passaggio da una condizione femminile satiricamente subumana a un empowerment sui generis. Ci sono come nel primo film le scene memorabili in cui emergono cose “incredibili” (lo metto tra virgolette perché il 2020 non è il 2006 e ormai diamo per scontato e naturale che la gente sia orgogliosa della propria meschinità, della propria ignoranza, del proprio razzismo e sessismo). La scena del finto aborto, quella della danza della fertilità, quella del discorso sulla masturbazione al convegno delle donne repubblicane sono pezzi di bravura di Maria Bakalova che sfrutta tutti gli assist che le offre Sasha Baron Coen. Anche la sequenza “incriminata” di Rudy Giuliani ci disgusta senza però risultare inaspettata: conosciamo fin troppo bene quel tipo di uomo. Resta il fatto che – appunto – è difficile che Borat 2 riesca a stupire, a indignare, a scioccare. C’è anche una polemica sulla partecipazione di Judith Dim Evans (cui il film è dedicato, dato che è deceduta nel frattempo) che è una sopravvissuta all’Olocausto, una figura un po’ come da noi Liliana Segre, ma è una polemica inutile: è ovvio che Baron Coen non presenta realmente un punto di vista antisemita, anche se qualcuno sembra ancora non capirlo. Tutto sommato l’impressione è stata quella di un film stancamente fuori tempo massimo, con punte di situazionismo e nausea altissimi e un invito finale ad andare a votare che per chi ama Borat immagino sia un’esortazione inutile, ma tant’è. #recensioniflash

PENINSULA (Yeon Sang-Ho, 2020)

È il momento di parlare di Peninsula. Venduto anche come “Train to Busan presents: Peninsula”, il film non è precisamente un seguito del fortunato e geniale film di zombie del 2016. Diciamo che è un action horror che si muove nello stesso universo narrativo. I due film sono molto diversi tra loro. Dove Train to Busan mescolava zombie splatter e melodramma familiare con una inedita attenzione all’approfondimento psicologico dei personaggi, Peninsula sceglie una strada più “sicura” in termini commerciali e ricalca un po’ l’action hollywoodiano. Che non è un male di per sé, intendiamoci, basta saperlo. Yeon Sang-Ho deve aver pensato che non sarebbe riuscito a dare al suo precedente film un seguito “vero” (meglio in questo senso il lungometraggio animato Seoul Station) e ha deciso di fare una virata notevole. Peninsula guarda a Carpenter e a Miller, più che a Romero, ed è un divertimento trovare tutti i riferimenti più o meno espliciti a Fuga da New York, Fuga da Los Angeles, e un po’ a tutta la saga di Mad Max. Vero, in Peninsula la storia conta poco. C’è una missione da compiere in una corea postapocalittica, ci sono orde di zombie coreani (contraddistinti come ormai sappiamo dagli occhi bianchi e dalle articolazioni innaturalmente snodate), ci sono le milizie dei sopravvissuti ancora più pericolose degli zombie. Gang Dong-Won è un ex soldato che deve recuperare un camion pieno di dollari, Lee Jung-Hyun una sopravvissuta tostissima con due figlie assi del volante (le scene di inseguimenti sono tra le più adrenaliniche mai viste). Ovviamente le strade dei due si incroceranno, innescando casini sempre più grossi. Parlato un po’ in inglese, un po’ in coreano, un po’ in mandarino, Peninsula a tratti non sembra nemmeno un film orientale. Sang-Ho si ricorda delle sue origini in certe sequenze di dramma e tensione tirate volutamente per le lunghe (il quasi sacrificio di Lee Jung-Hyun nel prefinale), nella recitazione sopra le righe di quasi tutti i villain, in alcune scene di menare, su tutte la prima discesa nell’arena dei “gladiatori”. Per il resto, oh, avercene di film come Peninsula. #recensioniflash