MY OWN PRIVATE TORINO FILM FESTIVAL

Novembre è mese di Torino Film Festival, e quest’anno, data la situazione che ormai tutti conosciamo e di cui non abbiamo più un cazzo di voglia di parlare, il festival si è svolto on line. Ovviamente nella mia vita, dal 1982 ad oggi, ho mancato pochissime edizioni “dal vivo”, ritagliandomi un qualche percorso di visione tra una sala torinese e l’altra. Mettendomi dal punto di vista di uno spettatore qualsiasi, però, non posso evitare di ripetere la stessa solfa che ho tirato fuori per Annecy, per Pordenone e per tutti i festival che quest’anno per la prima volta ho potuto “vedermi da casa”. Sì, la sala, l’esperienza collettiva e tutto il resto, ma io così riesco a vedere a prezzi contenuti film che magari non verrebbero mai distribuiti. Quindi ben venga il ritorno in sala ma non perdiamoci l’asset dell’edizione digitale. Andranno modulati i prezzi e le occasioni di visione, ma – io spero – non si tornerà più indietro e i festival saranno d’ora in poi sempre *anche* digitali. Detto ciò, ecco le #recensioniflash di novembre, totalmente #TFF38 edition!

THE DARK AND THE WICKED (Bryan Bertino, 2020)

#TFF38 cominciato col botto. Di un film come The Dark and The Wicked, quando finiscono i titoli di coda, si può solo dire a mezza voce “porca puttana”, e cercare subito di fare qualcosa di completamente diverso che ti scrolli di dosso la sensazione di angoscia maligna che questo horror ti appiccica addosso. Nell’ultimo decennio c’è stato un manipolo di horror “eccezionali”, come Babadook, Hereditary, Us, It Follows, The Witch. Film che non ti lasciano stare e che tornano da te anche dopo settimane o mesi che li hai visti. Scommetto sui miei incubi che il film di Bryan Bertino sarà uno di questi. La storia in breve: due fratelli tornano in una fattoria del Texas per assistere il padre morente e stare vicino alla madre. Quest’ultima si comporta in modo assai strano e diventa subito chiaro che sulla casa aleggia una presenza demoniaca. Non dico altro per non spoilerare, ma il male trasuda da ogni inquadratura (ovviamente impercettibili rotazioni di quadro, angolazioni assurde, lentissimi carrelli in avanti, apparizioni nell’ombra e tutto l’armamentario che il regista di horror deve sapere padroneggiare) e la sensazione è quella di assistere a una tragedia annunciata che fa mancare l’aria e fa drizzare peli che non sapevi nemmeno di avere. Perciò: bellissimo. Non perdetevelo. #recensioniflash

WILDFIRE (Cathy Brady, 2019)

Il mio #TFF38 prosegue con Wildfire di Cathy Brady. Uno studio psicologico su due sorelle, l’Irlanda, il confine, l’IRA, le bombe, la Brexit, il trauma collettivo e il trauma personale (un film di traumi grossi come una casa). Kelly torna dalla sorella Lauren dopo essere scomparsa per due anni. La causa di tutto è la morte della madre (suicidio? Incidente? Si capirà solo alla fine). Si parla molto di follia, di ereditarietà della follia e si recita molto sopra le righe (probabilmente inevitabile). Alla fine la rivelazione che il film è dedicato a una delle due attrici protagoniste, morta di cancro alla fine delle riprese. Questo sembra quasi mettere in prospettiva il modo in cui la storia viene messa in scena nel film. Si fanno i conti col passato personale e nazionale. Magari non è molto nelle mie corde, ma per un lungometraggio di esordio è tanta roba. #recensioniflash

LAS NINAS (Pilar Palomero, 2020)

Il mio #TFF38 prosegue con Las Ninas di Pilar Palomero, un’opera prima in concorso che ben rappresenta l’indomita anima “Cinema Giovani” del festival. È il racconto di un passaggio dall’infanzia all’adolescenza nei primi anni ‘90: Celia, la bambina protagonista, vive in un mondo schizofrenico. Studia in un collegio di suore ma quando esce trova una Spagna che tende a modernizzarsi e affrancarsi dal retaggio cattolico e franchista. L’arrivo di una nuova compagna da Barcellona la aiuta a definire la sua identità in contrapposizione alle compagne, alla madre single (che ha una storia misteriosa di cui non vuol parlare con la figlia) e alla società. Il film procede per accumulo di scene che possono sembrare già viste ma solo perché sono esperienze universali – in questo senso il film può funzionare a qualsiasi latitudine: la prima sigaretta, il primo rossetto, il gioco “non ho mai”, le ripicche con le amiche stronze, il sesso come tabù a scuola e a casa ma reso esplicito in pubblicità, canzoni, giornali, televisione. È un percorso di formazione per riuscire a trovare (anche letteralmente, come è chiaro dal finale) la propria voce nel mondo. #recensioniflash

MICKEY ON THE ROAD (Mian Mian Lu, 2020)

Dal #TFF38 arriva anche Mickey on the Road, un film taiwanese molto interessante che – a fronte della mia sostanziale ignoranza di cinema cinese, che ho praticato poco e solo per nomi di spicco – mi ha colpito molto. A differenza del cinema giapponese o coreano, chissà perché sono sempre stato portato a pensare che il cinema cinese per quanto sontuoso dovesse sempre avere una certa patina di noia. Non è così, ovviamente, e il mio pregiudizio probabilmente viene dal fatto di aver scelto male i film cinesi che ho visto in passato. Mickey on the Road è la storia di Mickey e Gin Gin, due ragazze – una mascolina e ribelle praticante di arti marziali nel tempio e una go go dancer per le discoteche con i capelli rosa fluo – che vanno alla ricerca di una presenza maschile “mancante”. Per Gin Gin è il fidanzato e per Mickey il padre che ha abbandonato lei e la madre depressa. Entrambi gli uomini si sono trasferiti a Guangzhou, nel continente. Parte il road movie coloratissimo (diciamo “al neon”, con una fotografia che fa molto Danny Boyle) e le due ragazze passeranno da una situazione all’altra, dalla leggerezza al disagio, fino a incontrare l’oggetto del proprio desiderio e – ovviamente – disilludersi. Nemmeno troppo velato il metaforone del viaggio tra le due Cine, quella “vera” di Taiwan e quella ormai dissolta nel capitalismo del continente, ma molto godibile il percorso di crescita delle due protagoniste pur con qualche scena mélo / estetizzante di troppo. Comunque una gioia per gli occhi. #recensioniflash

MOVING ON (Yoon Dan-bi, 2019)

Nella doppietta di ieri al #TFF38 spicca Moving on, esordio coreano di Yoon Dan bi (e sono 3 esordi di 3 registe che vedo finora, con Wildfire e Las Ninas). Il cinema coreano nella percezione dei “non praticanti” equivale a film di zombi oppure Parasite? Moving on è qui per smentire il pregiudizio. Accolto in patria come uno dei migliori film del 2019, Moving on racconta una “non storia” familiare, nel senso che succede poco o nulla ma c’è un’accorta messa in scena di rapporti familiari sottili. L’adolescente Okju e il fratellino Dongju sono costretti a vivere a casa dell’anziano nonno una volta che il padre si separa dalla madre. Ben presto in casa arriva anche la sorella del padre, anche lei in rotta di collisione col marito. Questo nuovo, strano e “forzato” nucleo familiare tira avanti come può, tra silenzi e litigate continue, tra un supporto al nonno anziano e una passeggiata, tra lo studio e il lavoro che manca, in una casa che – come in Parasite – è coprotagonista del film (le ultime inquadrature, piene di solitudine e di assenza, sono dedicate a lei). Un film familiare che è universale nella sua classicità e che ricorda tanto il Kore’Eda di Affari di famiglia quanto, in alcune inquadrature di convivialità o di vita familiare, direttamente Yasujiro Ozu. Da vedere. #recensioniflash

A MACHINE TO LIVE IN (Yoni Goldstein, Meredith Zielke, 2020)

Il documentario che non ti aspetti al #TFF38 è A Machine to Live In, di Yoni Goldstein e Meredith Zielke. Mi sono affrettato a prenotarmi perché io sono un fan malatissimo di Brasilia, la “capitale artificale” del Brasile. Brasilia è in assoluto una delle città al mondo che più di ogni altra desidero vedere toccare annusare, l’incubo di un architetto modernista nel quale perdermi. Perciò, non potevo esimermi. E qui, la sorpresa. A Machine to Live In (la città come organismo artificiale, un concetto di Le Corbusier che ha ispirato anche il demiurgo di Brasilia Oscar Niemeyer) è un documentario quantomeno fuori dagli schemi. Inizia con rumori industriali e inquietanti versi animali, prosegue infilando una sequela di inquadrature fisse su architetture impossibili e cemento armato bianco con piccoli dettagli umani o automobili in movimento, con una voce fuori campo pesantemente filtrata in modo da risultare degna di un album dei Nine Inch Nails che recita il commento audio a volte intrecciandosi in modo sfasato con una seconda voce che dice essenzialmente le stesse cose, in un assalto audiovisivo che non riesco a descrivere se non con la formula Herzog + Antonioni + Rocha + Jodorowsky. Si insiste molto su questa architettura “senza spigoli e senza ombre” e su come sia possibile (o impossibile) la vita a Brasilia citando passaggi della scrittrice Clarice Lispector, ascoltando cori di voci bianche che – per quelli che mi sono sembrati dieci minuti buoni in inquadratura fissa – cantano un qualche inno brasiliano, facendosi trascinare da visioni in 4K veicolate da droni, gimbal e rendering 3D. Brasilia è un’utopia, una pista per l’atterraggio degli UFO, il posto dove è nato l’esperanto (assistiamo anche a una lezione di esperanto, toh), il posto dove c’è più cataratta al mondo, dato che l’architettura bianchissima e spoglia riflette all’infinito i raggi UV. Pare che i registi siano andati ogni estate a Brasilia per otto anni (il mio sogno, ripeto) per accaparrarsi il materiale per costruire il documentario. Un sogno/incubo surrealista meglio di un film di fantascienza e – azzardo – forse il film migliore tra quelli visti finora – ma è proprio un altro campionato. #recensioniflash

FRIED BARRY (Ryan Kruger, 2020)

Stamattina non posso cominciare se prima non vi parlo di Fried Barry, visione “after midnight” di stanotte al #TFF38. Fried Barry è l’esordio nel lungometraggio di Ryan Kruger, ed è tratto da un corto omonimo di 3 minuti del 2017: la prima cosa che può venire in mente è che funzionava meglio come cortometraggio. Fried Barry è chiaramente un film insensato e gonfiato di scene slegate tra loro per il puro gusto della provocazione che ha fatto e farà incazzare abbestia moltissimi spettatori (ho in mente un cospicuo numero di amici che – se fossimo andati in sala insieme a vederlo – mi avrebbero aggredito con un “MA COSA CAZZO MI HAI PORTATO A VEDERE”). Eppure, chiariamo ogni dubbio: io con Fried Barry mi sono divertito come non succedeva da anni (beh, oddio, Mandy con Nicholas Cage mi ha dato le stesse vibrazioni, per dire). In questo glorioso filmaccio trucido e psichedelico, introdotto da una sequenza in cui un censore ci spiega perché il film è vietato ai minori di 18 anni e perché in nessun caso dovremmo mostrarlo a un minore, seguiamo Barry “il bruciato”, un eroinomane di Cape Town, Sudafrica mentre vaga per la città, si buca e si cala gli acidi. A un certo punto Barry viene rapito dagli alieni (sequenza indescrivibile con sonde anali, buccali e un catetere alieno nel pisello) e viene rimandato sulla terra come un involucro umano che ospita l’alieno che vuole sperimentare la vita sulla terra. Da lì in poi si spinge sul pedale della follia e del grottesco. Barry (l’attore con una faccia che non si può dimenticare, Gary Green) è ridotto a un “Barry-abito” (cit.) e passa da un rave in discoteca all’ingestione di quantità esagerate di droga, da situazioni di sesso selvaggio a pestaggi, con le parentesi comiche della moglie che lo cerca disperatamente e che trova – non sapendo nulla – che il Barry alieno sia più gentile e amorevole del Barry umano. A un certo punto assistiamo a una scena di body horror estremo (una prostituta che ha fatto sesso con il Barry alieno partorisce lì sui due piedi un clone di lui), poi improvvisamente il film vira sul thriller e il Barry alieno salva un gruppo di bambini rapiti da un non meglio identificato killer pedofilo. Sangue a fiumi, luci assurde, ritmo e stile da videoclip di Aphex Twin, un’ode all’estetica Zef (la sottocultura del “brutto, sporco e cattivo ma con stile” che negli ultimi 10-15 anni va per la maggiore in Sudafrica) che non smette mai un attimo di pompare adrenalina e musica electro-industrial-dubstep-salcazzo. Un film assolutamente inutile, trash, grottesco e sopra le righe. Quindi, un film bellissimo 😃 #recensioniflash

UN SOUPÇON D’AMOUR (Paul Vecchiali, 2020)

Volendo far mostra a me stesso di essere uno spettatore eclettico e onnivoro, ho messo in lista tra le mie visioni del #TFF38 anche Un soupçon d’amour di Paul Vecchiali. Un po’ per il titolo, che è una roba che urla mélo francese da ogni lettera, e un po’ per Paul Vecchiali che secondo me è sempre stato un po’ sottovalutato e insomma adesso che ha novanta anni suonati vuoi non vedere il suo ultimo film? Ecco, vabbè. Magari potevo giocarmela diversamente. Non che sia un brutto film, eh. Però immaginatevi questo. Vecchiali (a suo tempo definito da Truffaut l’unico erede di Jean Renoir) dedica il suo film a Douglas Sirk. Che figata, penso io, aspettandomi inquadrature turgide, schizzi di emozioni represse che scoppiano, scene madri. Ecco, no. Vecchiali dall’alto dei suoi novant’anni è uno di quelli che piazza la cinepresa e la lascia lì. In tutto il film ci sono pochissimi stacchi (anche negli interminabili dialoghi, invece di usare il campo contro campo lui rimane su un attore anche mentre parla l’altro, dando luogo a un effetto di straniamento quasi godardiano). I movimenti di macchina si contano sulle dita di una mano, e quando ci sono fanno un effetto “Boris” che levati, tipo: [Campo medio] “Ma cosa starà facendo?” – [Zoom a schiaffo sul primo piano del personaggio parlante] “…Non lo so…”. Quindi: un film estremamente statico, di scavo sui primi piani e sui dialoghi, francamente per me un po’ soporifero salvo il plot twist finale che vi rivelerò perché tanto non lo vedrete mai, al TFF non è più disponibile e di certo nessuno lo distribuirà in Italia. QUINDI RAGA SPOILER, NON LEGGETE OLTRE SE VI DA FASTIDIO ANCHE SOLO IL CONCETTO DI SPOILER. La storia è quella di Isabelle, una grandissima attrice di teatro che rinuncia alla parte da protagonista in Andromaca di Racine perché vuole stare accanto al figlio dodicenne Jérome, malato di brutta malattia. Attorno a lei girano tutti quelli della troupe, il regista, il marito primo attore, la sostituta che si scopa (si scopava? si scoperà?) il marito, un prete, una maestra di paese. Isabelle si abbandona al dolore e ai ricordi, le scene sono totalmente slegate tra loro e non si capisce mai se siamo nel presente, in un flashback o nell’immaginazione di lei. A 47 secondi dalla fine del film, la rivelazione: “Isabelle, ma che cazzo dici, nostro figlio è morto da 20 anni”! Parte improvvisamente una immotivata e assordante musica hitchcockiana e Isabelle dice “Ma va’, adesso te lo chiamo: Jéroooome, Jérome vieni qui”! La voce di Jérome dice “Arrivo, mamma!” e il marito di Isabelle fa la faccia basita. Fine. Vabbè, comunque. #recensioniflash

THE OAK ROOM (Cody Calahan, 2020)

The Oak Room, al #TFF38. Sapete quando ci sono quei film che non devi in nessun modo rivelare il finale perché altrimenti si rovina tutto, tipo I soliti sospetti, Seven, Il sesto senso. Ecco, The Oak Room è uno di quelli. Un thriller molto ben costruito ma un po’ poco comprensibile che acquista tutto il suo senso nei due minuti finali. Ovviamente bisogna essere ATTENTISSIMI nei 90 minuti precedenti, altrimenti non si coglie appieno la rivelazione (motivo per cui io – che sono un po’ cecato e facile alla narcolessia – ho dovuto rivederlo due volte per capire bene). Sì perché The Oak Room è un film teatrale, fatto esclusivamente di dialoghi (e di un po’ di azione e splatter nel sottofinale). Dialoghi che vengono portati avanti per il 95% del film in un bar buio, di notte, prossimo alla chiusura. In pratica è già molto se si riesce a vedere il labiale degli attori o a distinguere gli occhi. Tutto fa atmosfera, comunque, e la cosa più interessante è la riflessione metanarrativa sul raccontare storie come merce di scambio e come passaporto per la salvezza. In The Oak Room un ragazzo (RJ Mitte, il figlio di Walter in Breaking Bad) entra in un bar prima della chiusura, si capisce dalle parole che scambia col barista ostile che quest’ultimo era amico del padre ormai morto, e che i due hanno una questione in sospeso. Il ragazzo racconta una storia che si svolge in un altro bar poco lontano da lì, chiamato “The Oak Room”. Il protagonista di questa storia nella storia, ambientata in un altro bar, a un certo punto racconta una storia anche lui. Ma poi anche il barista del primo bar interrompe e racconta una storia, in cui uno dei personaggi improvvisamente racconta una storia. Insomma è tutto un inception di storie clamorosamente slegate tra loro ma che poi sono accomunate da qualcosa di sconvolgente che viene rivelato solo alla fine. Comunque, non abbiate paura della noia: è un film che tiene incollati alla sedia e ha una discreta dose di ultraviolenza concentrata tutta in pochi minuti che placherà i fan delle mazzate e del sangue. Speriamo lo distribuiscano presto, è una vera curiosità. #recensioniflash

EL ELEMENTO ENIGMÀTICO (Alejandro Fadel, 2020) / THE PHILOSOPHY OF HORROR (Péter Lichter, Bori Máté, 2020)

Ultimo spettacolo per il mio #TFF38: è d’uopo qualcosa di assolutamente sperimentale. C’è sempre, al TFF, quella proiezione che ti chiedi “chi cazzo me lo ha fatto fare”, ma alla fine resti lì ipnotizzato. Quest’anno è il caso della doppietta “El elemento enigmàtico” + “The philosophy of horror: a symphony on film theory”. Il primo è un film cileno di 40 minuti che contiene se va bene una cinquantina di inquadrature (fatevi il conto, vuol dire che ogni inquadratura dura 20 o 30 secondi, quando nella norma del cinema contemporaneo un’inquadratura di due o tre secondi ci sembra già interminabile). Queste inquadrature sono quasi tutte immagini fisse e abbaglianti di paesaggi innevati. Dopo una decina di minuti così cominci a notare che nei paesaggi innevati ci sono tre minuscoli omini vestiti tipo astronauti. Dopo un’altra decina di minuti (in cui gli unici suoni sono il vento, la neve e una musica drone/ambient un po’ alienante) gli astronauti iniziano a parlare del concetto di libertà e se la libertà esista veramente. Ma in realtà NON parlano. Leggiamo solo dei sottotitoli colorati (ogni colore corrisponde a uno dei tre astronauti), ma il sonoro è sempre solo vento, sciabolate di musica elettronica e scricchiolii vari. A un certo punto (dopo appunto 40 minuti) gli astronauti in qualche modo si vaporizzano e inizia a piovere. Fine del film. Vaaaaaaa bene.
In realtà io sono qui per “The philosophy of horror”, che è tratto da un saggio di Noel Carroll sull’estetica del cinema di paura, e mi aspetto un documentario sul mio genere preferito. Stolto me! Il film (60 minuti) inizia con una OUVERTURE ORCHESTRALE accompagnata da blob nerastri che sfumano l’uno nell’altro. Poi partono dei brani scritti in piccolo a tutto schermo che riportano parti del libro (a tratti ritornano punteggiando il film come se fossero incipit di capitoli). Il film in sé è la riproposizione di alcuni spezzoni di Nightmare on Elm Street e Nightmare on Elm Street 2: Freddy’s Revenge in cui la pellicola è stata bruciacchiata / dipinta / sfregiata / ricolorata / sbollentata / graffiata. La visione diventa così un’aggressione audiovisiva stroboscopica (anche qui con musica ambient/drone ossessiva a palla per tutti i 60 minuti) in cui vediamo solo facce che urlano, lame che graffiano, facce pressoché irriconoscibili (ma sappiamo che ci sono Heather Langenkamp, John Saxon, Johnny Depp) intervallate da riflessioni sull’emozione della paura. A un certo punto c’è anche un INTERVALLO, nel caso al malcapitato spettatore venga voglia di andare a far pipì o prendersi le patatine. Comunque, ripeto. Non c’è TFF senza un film – in questo caso una doppietta – come questa. Ma forse io non ho più l’età per il cinema sperimentale. #recensioniflash

Una risposta a “MY OWN PRIVATE TORINO FILM FESTIVAL”

  1. Condivido in toto il giudizio sul docufilm su Brasilia! Non mi attrae particolarmente il Brasile ma vorrei assolutamente andare a Brasilia. L’interesse e la fascinazione per questa città mi furono trasmessi da mio padre che adorava Oscar Niemeyer. E che tra l’altro avrebbe voluto imparare l’esperanto (!)

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