IL 2021 IN 10 SERIE TV

Sveliamo subito il segreto di Pulcinella, in questa lista ci sono 10 serie + 1, ma quella singola voce in più non è veramente una serie quanto uno speciale televisivo che però è una delle “cose” migliori viste nell’anno e andava pur messa da qualche parte. Le serie che stanno in questa lista hanno due caratteristiche: sono uscite nel 2021, sono miniserie o prime stagioni di una nuova serie, stanno sulle piattaforme legali che vedo a casa mia (cioè, non vi ho messo per amor di chiarezza le cose che vedo in giro con metodi, diciamo così, fluviali). Soprattutto, non stiamo a dire la terza stagione di questo o la quinta stagione di quello se no ogni anno ci ripetiamo e alla fine due palle. Quindi, voilà.

Arcane (Netflix)

La miglior serie dell’anno, per me, è una serie animata. Spider-Man: Into the Spider-Verse aveva rivoluzionato ogni canone del film di animazione; Arcane fa lo stesso per la serialità animata. Una storia fantasy adulta e credibile (tratta da una nota serie di videogame), un reparto tecnico eccezionale, profondità di scrittura, personaggi convincenti, character design magnifico, concept americano con stile europeo. Arcane si prende i suoi tempi (9 episodi da 45 minuti) e scardina tutti  i pregiudizi che chiunque di noi potrebbe avere. Guardatelo: ne rimarrete stupiti.

The Beatles: Get Back (Disney+)

Se la gioca con Arcane per il “numero uno” di quest’anno, ma ho soltanto voluto privilegiare la fiction rispetto al documentario. Qui Peter Jackson ha fatto un lavoro monumentale dandoci in pasto quasi nove ore di John, Paul, George e Ringo come non li avevamo mai visti prima. Improvvisamente i Beatles tornano ad essere sulla bocca di tutti, e non potrebbe essere altrimenti. Una boccata d’aria fresca.

Midnight Mass (Netflix)

La fiction live action migliore dell’anno è certamente questa miniserie horror sui generis in cui Mike Flanagan può finalmente andare a briglia sciolta tra cattolicesimo wow, vampirismo, demoni, miracoli inquietanti e soprattutto la claustrofobia delle comunità chiuse (si svolge su un’isola dove un giovane prete mysterioso arriva in sostituzione del vecchio parroco con Alzheimer). Si tratta di una serie “diesel” (7 episodi da un’ora e le cose cominciano a ingranare al quarto episodio), ma comunque i primi 3 episodi sono un campionario di horror senza spaventoni da manuale…

Maid (Netflix)

Maid (e la sua protagonista Margaret Qualley figlia di Andie McDowell che qui interpreta… la madre) sono state una gradita sorpresa del 2021. Anche qui una miniserie autoconclusiva tratta dal memoir di una aspirante scrittrice che sbarca il lunario facendo la signora delle pulizie. Splatter quanto basta nelle scene di scrostamento cessi, Maid è soprattutto uno studio sui personaggi mai isterico e mai sopra le righe: 10 puntate che ci fanno appassionare a una storia dove il vero villain è lo stato sociale americano.

Them (Prime Video)

Them ha la palma di serie più scioccante dell’anno (se pensiamo in particolare al quinto episodio) ed è un a discesa agli inferi del razzismo sistemico in USA. Prodotta da Little Marvin e Lena Waithe, parla di una famiglia di neri che si trasferisce in un quartiere di Los Angeles popolato solo da bianchi. Ovviamente i bianchi non sono contenti. Ma anche alcune non meglio identificate forze del male non sono contente. Il tasso di violenza razziale è altissimo: è una serie pugno nello stomaco. Ma da recuperare.

Sweet Tooth (Netflix)

Parliamo adesso di serie carucce e pucciose: Sweet Tooth ha i suoi morti e il suo tributo di sangue, ma ha comunque un piglio da favola fantasy post-apocalittica, un po’ “La strada” e un po’ “Kamandi” (perché cazzo nessuno ha mai fatto un film o una serie su Kamandi non me lo spiegherò mai). Il giovane protagonista, bimbo mutante con le corna da cervo è perfetto per stemperare nello zucchero ogni evento terrificante della serie, che funziona a più livelli per adulti e bambini (non la farei vedere a un bimbo di 6 anni, ma magari a 9-10 anni sì).

Only Murders in the Building (Disney+)

Altra serie caruccissima e molto New Yorker (fin dai credits il riferimento è esplicito) è questa con Steve Martin, Martin Short e Selena Gomez. I due mostri sacri con la giovane ex-promessa in una trama da crime story che mescola podcast, furti di gioielli, suicidi e loschi titolari di gastronomie armene. La prima stagione è stata una deliziosa sorpresa e adesso io ne voglio sempre di più.

Strappare lungo i bordi (Netflix)

Chi non ha visto la serie di Zerocalcare? Pochi, in verità. Con tutti i difetti che le si possono attribuire, è una miniserie che funziona, anche all’estero, per i temi universali che tratta. Per me l’unico difetto è che va un po’ troppo a rotta di collo, ma se faranno altre stagioni potrebbero anche correggere un po’ il tiro. Nell’ultimo libro di Zero c’è anche un backstage molto interessante a fumetti.

WandaVision (Disney+)

Le serie Marvel, devo confessare, mi annoiano un po’. Quest’anno abbiamo avuto WandaVision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier, What If e Hawkeye (le ultime due non le ho nemmeno viste), e ogni volta la sensazione è quella del “raschiamo il barile per imbastire qualcosa su personaggi secondari di cui non frega un cazzo a nessuno”: WandaVision però è diversa, con il suo approccio metatelevisivo e le sue trovate che riprendono i diversi decenni di sitcom USA. Poi dopo diventa convenzionale, ma i primi cinque episodi sono geniali.

Colin in Black and White (Netflix)

Una piccola sorpresa del catalogo Netfix segnalatami in corner e che non mi ha affatto deluso… anzi! Non conoscevo la storia personale di Colin Kaepernick (diciamo pure che non sapevo chi era finché non l’ho googlato): è quel giocatore NFL che per primo si inginocchiava a titolo dimostrativo durante l’inno nazionale pre-partita. In questa miniserie prodotta con Ava DuVernay riflette sul razzismo sistemico in forma di dramedy alternando spezzoni di fiction (con la storia di lui da giovane) a parti di documentario (in cui interviene lui stesso). Curioso e interessante.

Bo Burnham: Inside (Netflix)

Il 2021 non sarebbe il 2021 senza Bo Burnham, che dal cuore del profondo lockdown ci ha regalato un one man show comico al vetriolo, uno spettacolo che fa ridere ma fa soprattutto angosciare, deprimere e imbarazzare. Tutto girato in una stanza, dove Bo ha il suo equipaggiamento da creator digitale, ricco di canzoni orecchiabili e acidissime (le mie preferite “Welcome to the Internet”, “White Woman Instagram” e “Sexting”), Inside è il distillato di un anno di Covid che sembrano dieci (anni) (di Covid).

TUTTI I FREAKS DI NOVEMBRE

Questo è il mese delle liste di fine anno quindi affrettiamoci a smazzare la raccolta delle rece di novembre che bisogna fare spazio. C’è il kolossal italiano, l’action più atteso dell’anno, il kolossal canadese, il musical che ti stranisce, il classico dei classici e un film strambo che non può mancare mai. Stavolta niente horror, niente #cranisfondati. Curioso. Boh.

DUNE. PART ONE (Denis Villeneuve, 2021)

Vabbè, alla fine ho visto Dune. Part One. Che è poi quello che mi faceva fatica, cioè il fatto che il film di due ore e mezza comunque si interrompe sul più bello. A parte questo, grande successo: mi sono assopito solo tre volte. Dune è per me il romanzo di fantascienza più palloso di tutti i tempi, l’ho iniziato moltissime volte e non sono mai riuscito a procedere per più di una trentina di pagine, proprio non è la mia tazza di tè. Quando ero pischello avevo apprezzato il film di Lynch/DeLaurentiis più che altro perché c’era Sting e perché provenivo da un background ultra-camp essendo fan, per esempio, di Flash Gordon. Non l’ho più rivisto, confesso. Questo Dune, quello che ha è un buon respiro, una buona comprensibilità dell’intrigo, un casting azzeccato (anche se non tutti sono sfruttati al meglio, proprio in termini di screen time, dico) ma soprattutto un visual design da paura. Ecco, per me il motivo principale per vedere Dune sono le astronavi, l’architettura brutalista, l’interior design minimal-cementizio-orientaleggiante. Allora lì si gode veramente. I vermoni? Meh. Timothèe Chalamet? Bravo, ma anche meno. Le increspature delle dune di Arrakis, la ruggine sulle ali dei libellucotteri, le macchie di umidita sui muri di cemento alti otto metri? Ah, quello sì che è puro godimento. Anche se tutte le volte che appaiono le Bene Gesserit a me viene in mente come sempre la marca di un medicinale per la gastrite o quando insistono a dire in continuazione KWISATZ HADERACH a me viene in mente Quizas quizas quizas. #recensioniflash

FREAKS OUT (Gabriele Mainetti, 2021)

Beh, sono successe cose, ho fatto decantare la visione qualche ora, ma la mia su Freaks Out ve la devo dire. Ho cercato di sapere il meno possibile del film prima di vederlo, e l’approccio paga. Ma dovete vederlo. Non esiste un altro film così, né in Italia né tantomeno nel mondo, perché il film di Gabriele Mainetti pur nel suo essere “molto poco italiano” (nel senso di Stanis La Rochelle) è anche “profondamente italiano” (in un senso che dirò dopo). Freaks Out è un film di due ore e mezza circa che sembra sia costato 300 milioni (invece dei 12 e rotti milioni che effettivamente è costato). E già questo lo pone un po’ fuori scala. Poi tenete conto che io l’ho visto da una prima fila girando all’impazzata la testa qua e là perché succedono cose in continuazione. Non puoi mai distrarti, ma… è anche e soprattutto un film di personaggi. Della trama non vi dico molto salvo quello che già si sa: quattro freaks, artisti del circo, attraversano una Roma occupata dai nazisti per cercare il loro capocomico/mentore, cercando di evitare il perfido nazista (freak lui pure) che li cerca per uno scopo oscuro e con l’aiuto di una banda di partigiani storpi. Si comincia con dieci minuti assolutamente burtoniani di presentazione dei quattro protagonisti e dei loro “superpoteri”. Solo immagini e musica. Poi, le bombe, la guerra, il caos. Tu pensi ma che cazzo, si sono giocati la scena migliore prima dei titoli di testa? No, perché Freaks Out è strapieno di scene assurde, mozzafiato, iconiche, che ti rimangono negli occhi e in testa. Azione, avventura, guerra: Mainetti non ha in mente solo Tim Burton e Tod Browning ma ovviamente ambisce ai fasti del giovane Steven Spielberg. E fin qui abbiamo fatto riferimento ai numi tutelari, poi aggiungiamo anche Tarantino (tutti gli spettatori vedono un’assonanza evidente con Bastardi senza gloria) e qualche altra strizzata d’occhio al cinema americano anni ’70-’80, per non parlare di un impianto narrativo che deve molto alla saga degli X-Men (è il lato pop della coppia creativa Mainetti-Guaglianone). Ma a parte che Mainetti non cita mai esplicitamente, piuttosto si imbeve di un certo immaginario che poi ovviamente trasuda dalle inquadrature “rimandando a”, la cosa più stupefacente è l’impasto perfetto con cui mette insieme tutto il cinema italiano alto e basso distillato in un solo film: c’è Fellini (ovviamente, richiamato dal tema del circo e dalle musiche originali), c’è Rossellini, c’è Sergio Leone (e molto altro spaghetti-western), c’è il Monicelli picaresco e c’è tanta commedia all’italiana classica (il tema della fame), c’è il De Sica di Miracolo a Milano, ci sono i film di Bud Spencer e Terence Hill in molte scene di scazzottate. C’è un casting perfetto (occhio per esempio a Mazzotta nel ruolo del capo dei Diavoli Storpi), c’è un lavoro sulla direzione degli attori che si vede tutto. C’è un elemento fantastico talmente intrecciato con quello realistico che tutto (o quasi) è credibile. C’è un villain nazista approfondito, psichedelico, delirante nel suo potere di vedere il futuro del Reich (sue alcune delle scene più belle, come quella della visione del telefonino o i due assoli pianistici su Creep dei Radiohead e Sweet Child O’Mine dei Guns). Mainetti poi non arretra di fronte a nulla. Ci vuoi mettere i freaks che scopano? Mettiamoceli! Ci vuoi mettere scene di violenza estrema e splatter? Ma perché no! E in alcuni momenti Freaks Out non ha nulla da invidiare a un Eli Roth qualsiasi. Un body count come quello di Freaks Out sono pronto a scommettere che non esiste in nessun altro film italiano. Mainetti con i suoi personaggi è tenero e crudele insieme, non fa sconti e chiude come nella migliore tradizione western, con i suoi eroi che si allontanano nel tramonto verso il sole di Roma. Vi assicuro, voi volete vederlo. Lo volete fortissimo. #recensioniflash

THE GREEN KNIGHT (David Lowery, 2021)

L’altra sera ho visto The Green Knight di David Lowery. Ho voluto fortemente vederlo un po’ per il tema arturiano, un po’ perché di Lowery avevo apprezzato molto A Ghost Story (e non sapevo che ci fosse lui dietro il remake di Pete’s Dragon – e del futuro Peter Pan, per dire). Insomma, non sapevo che avesse un lato disneyano. Comunque sia, The Green Knight è un film che mi ha lasciato puzzled. Mi piace questa parola inglese che spesso viene tradotta con “perplesso” ma ha per me una sfumatura precisa: puzzled è quando di fronte ad una certa esperienza ti sembra di avere davanti i pezzi di un puzzle complicato e di non saperli mettere insieme. Ora, The Green Knight è un film visivamente bellissimo, una psichedelia di luci e colori abbinata ad un fabliaux medievale: la storia è quella di Gawain, il più giovane degli accoliti della tavola rotonda che – in un tempo in cui Artù e Ginevra sono già vecchi e stanchi – affronta la sua prova da cavaliere. Sconfigge un misterioso gigante arboreo e promette di ritornare a cercarlo dopo un anno per farsi “ridare il colpo” (cioè farsi decapitare, come lui ha fatto con l’inquetante cavaliere). E dopo un anno infatti Gawain va, affronta un lungo viaggio e diverse peripezie fino ad incontrare il cavaliere verde. Ora, non sto a dirvi come va a finire. Soltanto che in molti punti del film è tutto un grandissimo cosacazzo. Il film è una produzione A24 e in effetti è tutto molto A24, cioè lento, ieratico, estremamente hipster e volutamente esoterico. A ogni minuto ti chiedi se non ci siano almeno cinque significati nascosti dietro ogni inquadratura. Il finale è di quelli che poi devi andare su internet a cercare “Cosa cazzo vuol dire il finale di The Green Knight”. Forse avrei dovuto vederlo con un esperto di ciclo arturiano o di archetipi junghiani o di antichi riti celtici. Comunque bello, ma non ci vivrei. #recensioniflash

CRY MACHO (Clint Eastwood, 2021)

Quando vedo un film recente di Clint Eastwood la prima cosa che faccio appena entra in scena Clint è fare “cringe” con la testa che rientra un po’ tra le spalle, perché a 91 anni questo è l’effetto che mi fa, come anche quando vedo Woody Allen recitare. E devo dire che nei primi cinque minuti di film, anche Cry Macho fa esattamente lo stesso effetto. Poi però, attenzione. Non dico che sia il film più bello girato da Eastwood (ci sono delle robe imbarazzanti qua e là a livello di sceneggiatura o di riprese), ma… Per me è stato il più emozionante dai tempi di Gran Torino. E a livello di commozione siamo quasi pari a I ponti di Madison County. Cry Macho (un film che ha aspettato circa 40 anni per essere realizzato) si svolge nel 1979 e racconta una storia semplice, lineare, diretta. Il capo di Clint (Dwight Yoakam, LOL) chiede a Clint, vecchia quercia di cowboy ex campione di rodeo, di prelevare il figlio tredicenne in Messico e portarlo da lui in Texas, con la motivazione che il ragazzo viene abusato con la complicità della madre che lo vende ai pervertiti di passaggio. Clint va, trova il ragazzo e inizia un road movie splendido, luminoso e ispirato. Ovviamente la strana coppia con circa 80 anni di differenza d’età impara a conoscersi e tra una confessione dolorosa e l’altra, Clint aiuta il ragazzo a diventare un uomo sconfessando il machismo (e quindi un po’ anche tutti i ruoli da cavaliere senza nome che Clint stesso ha spesso interpretato). Ah dimenticavo, il ragazzo si porta dietro il suo gallo da combattimento di nome “Macho” evidente simbolo della mascolinità tossica. “This whole macho thing, you know… it’s overrated”, biascica tra i denti Clint verso la fine del film. E infatti il ragazzo recepisce e matura. In mezzo c’è una parte lirica meravigliosa di amore infinito di Clint per i cavalli e per tanti altri animali: capre, maialini, cani, ma soprattutto cavalli. Le scene in cui Clint insegna al ragazzo ad andare a cavallo: “Look where you’re going and go where you’re looking”… Un western come non ne vedevo da anni: paesaggi, tramonti, cavalli, polvere, messico, nuvole, cavalli, tequila, inseguimenti, sceriffi, cavalli, una sola pistola che non deve nemmeno sparare perché il macho è morto, viva il macho. Con delle frasi e delle immagini che rimarranno con me a lungo. #recensioniflash

NO TIME TO DIE (Cary Fukunaga, 2021)

Due cose: c’è questo articolo che ho beccato in una newsletter che leggo (potrebbe essere Pietro Minto o Vanz, non ricordo bene) che mi ha aperto gli occhi su un sub-genere molto ben circoscritto: il “dad thriller” degli anni ’90 (possiamo tradurlo come il “thriller di papà”, che fa molto Jean Luc Godard). Leggetelo perché è divertente, gustoso, e soprattutto molto vero. Dall’action anni ’80 si passa attraverso il “ponte” di Die Hard al cosiddetto dad thriller, che produce una serie di film con determinate caratteristiche che non sto a dirvi qui. Il dad thriller si esaurisce nei primi anni ’00 con Bourne Identity e Sum of All Fears. In pratica Matt Damon e Ben Affleck riportano in auge l’eroe “classico” ed eccezionale, dopo un decennio di eroi per caso. In questo ragionamento, abbiamo avuto parallelamente prima Pierce Brosnan (a portare avanti un Bond franchise un po’ imbolsito nei ’90) e poi Daniel Craig che invece porta Bond a una complessità e al tempo stesso a una classicità pienamente in linea con la sensibilità del nuovo millennio. Tutto ciò per dire che ho visto oggi le quasi-tre-ore di No Time To Die e malgrado tutto mi sono emozionato come già era accaduto con Skyfall e Spectre (ma del resto anche Casino Royale mi aveva fomentato – per altri motivi). Si capisce che è un film di chiusura, si capisce che hanno voluto metterci dentro tutti gli omaggi possibili e vederlo è un po’ come bere quel bicchiere di scotch con cui i colleghi MI6 brindano a Bond nel finale. Tutto ciò anche per dire che forse, dopo un ventennio in cui l’eroe era tornato “eccezionale” come negli anni ’80 (ma senza tutta quella cazzonaggine), con No Time To Die si apre la porta ad un ricorso storico in cui l’eroe in fondo è anche “solo” un papà. Comunque ho gradito molto tutto e non mi sono assopito mai. #recensioniflash

ANNETTE (Léos Carax, 2021)

Io quando esce un film nuovo di Léos Carax vado in agitazione. Probabilmente è uno dei registi “dei miei vent’anni” che amo di più in assoluto e non mi delude mai. Annette è il suo primo film “americano”, un musical fuori di testa come non ne vedevo dai tempi di Dancer in the Dark di Lars Von Trier (ma non preoccupatevi, potrebbe piacervi molto anche se avete amato La La Land o A Star Is Born). Ma partiamo dalle basi. Annette è un film di Carax, quindi aspettatevi carrellate lunghissime e pazze, overacting stranito e straniante, colori accesissimi, neon, sovrimpressioni surrealiste, un’accozzaglia di simbologie visive che sembrano non avere senso poi il senso affiora dopo che ci hai dormito su e magari lo hai sognato. Annette è un musical di Ron e Russell Mael, meglio noti come gli Sparks, ovvero la band più amata dalle band che amate (per dire: in Italia non li conosce quasi nessuno ma hanno definito lo stile del pop rock dal 1970 a oggi e sono ancora iperattivi). Quindi è propriamente una rock opera, tipo Tommy o Rocky Horror Picture Show, con un’infinità di tracce, temi ricorrenti e soprattutto un’inizio folgorante (Carax in studio con la figlia, gli Sparks che registrano, poi tutti escono dallo studio di registrazione raggiunti dagli attori principali che in una delle solite carrellate all’indietro alla Carax a poco a poco entrano in parte e “diventano” i loro personaggi). Questa cosa dello svelamento della rappresentazione è molto insistita per tutto il film, con quinte teatrali, palcoscenici, spezzoni di finti servizi gossippari in TV, etc. Annette è un film in cui Adam Driver si mangia (quasi) tutto. Se siete fan di Adam Driver lo adorerete (lui è quasi sempre seminudo). Se non siete fan lo diventerete. Credo sia facilmente il miglior film di Adam Driver, personaggio pazzissimo già all’inizio del film che a poco a poco scivola in una spirale di follia e negatività. Perché ovviamente Annette è un film parecchio cupo. Dura 141 minuti e per tutta la prima ora sembra molto allegro. Poi ti ammazza dopo. Ci sono queste scene bellissime di Adam Driver che canta mentre si dedica alla nobile arte del cunnilingus su Marion Cotillard che valgono il prezzo del biglietto (la Cotillard ha detto che siccome Carax li faceva cantare sempre dal vivo è stato difficilissimo performare in certe posizioni). OK, quindi di che parla? Fondamentalmente è una storia di amore tossico, in cui Henry McHenry (uno stand up comedian di successo) e Ann Defrasnoux (cantante d’opera di successo) si amano tantissimo, si fidanzano e fanno una figlia, Annette. Ora, Annette è una bambina… particolare. Non vi voglio svelare nulla ma la scena del parto è una delle più assurde del film, con le ostetriche che cantano e ballano in coro, Adam Driver che suda come un porco, la Cotillard che ride e spinge, spinge e ride. Vabbè. Comunque sia Annette è come è, magari ne parliamo con spoiler nei commenti per chi l’ha visto, e da lì in poi il film diventa un incubo psichedelico, complice il fatto che Ann ha più successo di Henry e questa cosa a Henry non va molto giù. Tra l’altro degno di nota il personaggio dell’Accompagnatore di Ann (Simon Helberg, il mai dimenticato Wolowitz di The Big Bang Theory) che pur avendo meno screen time è veramente una sorta di deus ex machina che porta alla catastrofe finale. Gli ultimi venti minuti di Annette sono abbastanza strazianti (non a livello Lars Von Trier, intendiamoci, ma comunque). Ho difficoltò a non dire che Annette è facilmente uno dei migliori film dell’anno, se non del decennio. O quantomeno il “film più strano/assurdo/particolare” del decennio. Vedetelo perché ne vale la pena, sta in sala ma dovrebbe arrivare su Prime. #recensioniflash

E ANCHE STO HALLOWEEN…

Ebbene, cari lettori, questo mese di ottobre non è che abbia visto poi molti film. Sono stanco, a vedere Dune (o Drive My Car, se è per questo) avevo tanta paura di addormentarmi, le avversità della vita mi spingono a rifugiarmi nel comfort watch (che nel mio caso di solito è un rewatch, per esempio in sti mesi di Seinfeld) e quindi esco poco dal recinto. Esco quando mi pare che valga la pena, oppure quando esce un horror particolarmente in tema, o ancora quando voglio spegnere il cervello guardando una cosa molto trash. A voi capire cosa è cosa nelle recensioniflash che seguono.

OLD (M. Night Shyamalan, 2021)

Stringetevi forte, amici, perché ho visto Old di Sciaiamalan, Sciamalaian, coso insomma. Non volevo, lo giuro. Eppure ogni volta mi fotte così. Perché poi The Visit e Split un po’ mi erano piaciuti, erano cattivi e tutto sommato poco Sciamaialan. Invece Old è parecchio suo. Ma parecchio. Intendiamoci, a chi non è piaciuto Il sesto senso. Il sesto senso è fighissimo. Da lì in poi me ne fosse piaciuto uno (a parte The Visit e Split, che secondo me non erano male checché ne dica un mio carissimo amico che dal 2016 ancora mi odia per averlo portato a vedere il thrillerone pazzo con James McAvoy). Vabbè, comunque, Old. Famiglie clienti di un lussuosissimo resort che vengono portate in una spiaggia esclusivissima, talmente esclusiva che ogni ora che ci passi invecchi di due anni e chiaramente se già sei adulto dopo nemmeno un giorno muori male. I bambini invece crescono e diventano adulti. Lo ammetto, una premessa intrigante, che però va bene per un episodio di Ai confini della realtà o per uno spinoff di Lost. Sciamalama invece allunga il brodo all’inverosimile facendo il gioco della suspence di non inquadrare mai le facce finché badabooom le zampe di gallina della supermodel o i peli sulle braccia del bimbo di sei anni. Un ottimo, ottimo lavoro dei reparti trucco e parrucco, ma come sempre nei film del nostro ineffabile, tutti o quasi (anche quelli bravi, come Thomasin McKenzie o Alex Wolff) recitano da cani maledetti con dei dialoghi che sembrano scritti da Lory Del Santo per The Lady. Il meccanismo della “pistola di Cechov” è spiattellato in faccia quelle sei o sette volte, ogni cosa è superprevedibile, il 90% dei personaggi è imbarazzante ma ci sono dei momenti gustosi, tipo un paio di scene splatterone e soprattutto la gag dei bambini di sei anni che nel giro di cinque ore si sviluppano come sedicenni ed escono da un nascondiglio che lei è incinta e lui dice “Ma no dai mamma, stavamo solo giocando” e dopo mezz’ora lei partorisce. OK, ma a parte questo, lo Sciaiamalian twist c’è? Cerrrrrrto che c’è, è solo praticamente telefonatissimo dal minuto 20 del film. Comunque non vi dico nulla, se non che anche stavolta Sciamacoso ha un ruolo nel film e che è abbastanza importante anche se non sembra. Vabbè. Comunque lo so che si chiama Shyamalan, ma mi fa sempre troppo ridere dire Shama Lama Fa Fa Fa. #recensioniflash

THE VELVET UNDERGROUND (Todd Haynes, 2021)

Il documentario di Todd Haynes sui Velvet lo attendevo da circa 4 anni, da quando cioè era venuto fuori che ci stava lavorando. E ve lo dico subito, è una bomba assoluta. A parte il fatto che è un documentario sulla band che forse è la mia preferita in assoluto di sempre (se la giocano coi Kraftwerk, va bene, ma comunque), è un lavorone immenso, che per tutta la prima ora, per dire, non nomina nemmeno i Velvet, perché si parla dell’infanzia di Lou Reed e John Cale, dei loro percorsi prima di incontrarsi a New York, prima di incappare in Andy Warhol. Poi nella seconda ora di film tutto quello che sappiamo si avvicenda tra Nico e Maureen Tucker, l’Exploding Plastic Inevitable, tra Cale che se ne va e Doug Yule che arriva, tra Sterling Morrison che molla e il Max’s Kansas City e Lou Reed che saluta tutti e avvia la sua carriera solista. Tutti i pezzi che vi immaginate sono lì a vibrare mentre Todd Haynes tira fuori il meglio dal materiale d’archivio a sua disposizione e – forse è inutile dirlo – almeno 45 minuti di film sono spezzoni di film di Andy Warhol, o di Jonas Mekas (intervistato qui poche settimane prima della sua morte, il film è dedicato a lui). C’è molta arte, di Warhol ma anche di Rauschenberg, Rothko, Johns. C’è molta musica sperimentale, John Cage, LaMonte Young, c’è un tenero Jonathan Richman che quindicenne bazzicava i Velvet prima di formare i suoi Modern Lovers, ci sono tutte le superstar della Factory, Gerard Malanga, Mary Woronov, Candy Darling, Mario Montez, Edie Sedgwick. Un documentario densissimo, quasi tutto in split screen, con le voci che parlano sopra filmati d’epoca inediti, immagini mai viste, testimonianze visive di una New York tra il ’66 e il ’70 che è assolutamente emozionante. Soprattutto, non è tanto un film per dire “quanto erano fighi i Velvet Underground” (se lo guardi è perché lo sai già), ma è un film per testimoniare il clima artistico e culturale che ha potuto far emergere i Velvet come fenomeno prima avant-garde, poi di puro marketing warholiano, poi come rock’n’roll band “tradizionale” ma sempre fuori dagli schemi. Spettacolare, insomma, ma non mi aspettavo di meno da Todd Haynes. Verso la fine c’è una foto meravigliosa di qualche anno fa di Lou Reed e Laurie Anderson abbracciati su una panchina a Coney Island (credo). Mi ha colpito molto. #recensioniflash

HALLOWEEN KILLS (David Gordon Green, 2021)

Visti per voi (non è vero, li ho visti per me e poi mi diverto a stressarvi con le mie #recensioniflash): Halloween e Halloween Kills. Tutti e due così d’un fiato, che tanto sono l’uno il seguito diretto dell’altro. Anche se uno è del 2018 e l’altro di adesso. E boh. Io faccio parte del team Rob Zombie, per me esiste il primo Halloween del 1978 e poi gli Halloween di Rob Zombie, sporchi, crudeli, eccessivi come tutto il suo cinema. Questa “nuova interpretazione” di David Gordon Green targata Blumhouse è… corretta, efficace, nel solco della tradizione, ma mi sembra che emozioni poco. Michael Myers è sempre gigantesco, l’attacco del primo film con i malcapitati autori di podcast è azzeccato. Ma il vantaggio di questi Halloween (il fatto di essere “benedetti” da sua maestà Carpenter in persona) è anche il loro limite. Tutto (soprattutto nel nuovo Halloween Kills) è messo in scena per strizzare l’occhio e dare di gomito allo spettatore che ha visto i primi due capitoli (1978 e 1981), ci sono scene che addirittura mirano a riempire buchi di trama dei film originali, la solita retcon sparsa a piene mani, flashback che non si capisce se siano spezzoni dei film originali o meno (questo è un aspetto affascinante a dire il vero). Poi c’è l’aspetto “critica sociale” ultra didascalico della serie “i veri mostri siamo noi” che ho trovato veramente molto cringe. Il tutto è bilanciato da una spinta splatter che normalmente Halloween non ha, con molto più sangue e omicidi più violenti, elaborati e fantasiosi (ma come sempre totalmente casuali, perché a Michael fondamentalmente non gliene frega un cazzo). E infine trovo che questo voler dare una dimensione mistica e uno scopo preciso alle azioni di Michael sia un po’ forzato, comunque vedremo cosa succede con Halloween Ends. Bonus: Jamie Lee Curtis nel suo ruolo iconico di nonna Laurie sembra Patti Smith.

TITANE (Julie Ducournau, 2021)

Ciao, premetto che ho il raffreddore forte e una scarsa capacità di concentrazione e di eloquio, comunque ieri sono riuscito a vedere Titane, che era uno dei film del momento che più mi interessava. Dicono che sia un film fluido. Vediamo perché. Intanto è “fluido” nel senso che ci sono un sacco di fluidi corporali. Sangue, saliva, vomito, perdite intime, olio motore, perdite intime di olio motore, pus, e boh, forse dimentico qualcosa. Da questo punto di vista Titane è un film abbastanza repellente, poi oh, dipende dalla vostra soglia di tolleranza, c’è chi già al cannibalismo di Raw (della stessa regista) si schifava, qui ci sono robe peggio. Poi è “fluido” perché rappresenta percorsi di identità fluide, tra generi (la protagonista oscilla gaiamente tra iperfemminilizzazione e ipermascolinizzazione, in una performance attoriale direi unica nel suo genere e molto impressionante), ma anche tra umano e post-umano, rendendo ambigue e appunto fluide anche le potenziali relazioni familiari padre/figli*. Infine, e qui sta quello che più mi interessa, è “fluido” perché è una maionese impazzita di generi e di improvvise sterzate narrative alla brutto dio, gestite dalla Ducournau così, de botto, senza un perché. Con grandissima nonchalance e con la voglia matta di andare in culo a tutte le possibili aspettative degli spettatori. Prima è un musical postmoderno, poi è un thriller splatter con vena comica (e Caterina Caselli incorporata), poi è un dramma familiare gelido e ambiguo (e non dimentichiamo il grandissimo Vincent Lindon che come controparte della protagonista è altrettanto impressionante), infine si “scalda” e diventa incandescente sul finale assurdo ancorché prevedibile. A ogni cambio scena la reazione è “ma cosa cazzo ho appena visto”, eppure il film riesce miracolosamente a non deragliare. Boh, a me è piaciuto, anche se preferivo Raw, meno volutamente sgangherato. Della trama non vi dico un cazzo perché certo, possiamo dire “è quel film dove la tipa fa sesso con una Cadillac e rimane incinta dell’autovettura”, ma, come dire… quella è solo la parte più normale del film. #recensioniflash