L’IMPOSSIBILITA’ DI ESSERE NORMALI

C’è chi dice che non è il miglior Burton, perché non è "burtonesco". Eppure, secondo me, Big Fish è proprio il concentrato di tutto il mondo di Tim Burton da Frankenweenie in poi, con in più qualcosa di nuovo. Edward mani di forbice e Beetlejuice sono due capolavori assoluti di film "burtoneschi". Dopo quelli, il "burtonismo" poteva diventare maniera o autocitazione ironica. Ed Wood, fino adesso a mio avviso il suo film migliore, è un vero film di Tim Burton, senza essere per forza assolutamente burtonesco. Come Big Fish. La grossa novità che i detrattori del film non perdonano al regista è l’iniezione di realtà (o meglio di realismo) nell’atmosfera burtoniana. Invece secondo me è proprio il contrario. La fantasia, di cui Burton si nutre, non è più fine a sé stessa. In Big Fish la fantasia corrode la realtà, la investe e la divora, malinconicamente o allegramente o in entrambi i modi, come è tipico del regista. La storia dell’uomo bigger than life che fa della sua vita una continua narrazione, trasponendo (o facendo trasporre) anche la sua morte su un piano di realtà differente è significativamente il massimo cui Burton poteva giungere – volendo prendere per filosofia il suo approccio alla vita e al fare cinema. In Big Fish c’è il paese di Edward mani di forbice e c’è il castello dell’inventore, c’è il genio ostinato di Ed Wood e c’è il Pinguino di Batman il ritorno. C’è il circo, il freak, la mostruosità e il portento come normalità. C’è la lacrima facile, se vogliamo – o forse sono io che mi lascio influenzare dalla mia storia personale. Ma credo che al di là di questo chiunque senta la tensione tra il piano della realtà e quello della fantasia non possa fare a meno di sentirsi toccato. Menzione speciale a Billy Crudup (il figlio) per essere riuscito bene nel ruolo più difficile: quello dell’unico personaggio dimesso in un mondo di totale stravaganza. Dev’essere una bella fatica fare il normale in un film di Tim Burton…!

CITAZIONISMO PERVERSO (CON GENIO E SREGOLATEZZA)

Quando si dice la goduria. Ieri mi sono visto Cabin Fever, alzando le casse a manetta. Immagina un horror indipendente in stile 21mo secolo (Jeepers Creepers, Radio Killer, 28 giorni dopo – per dare dei riferimenti). Questo horror in particolare, però, rispetto agli altri ha la capacità di centrifugare in un unico milk shake profondamente americano, decisamente acido e pochissimo politically correct tutta una serie di riferimenti che pescano a piene mani dai capisaldi degli anni ’70 e ’80 più eversivi. Faccio una breve lista di "manate sulla testa" (tipo: "Socc! Ma questa è una citazione di una scena di……").
Evil Dead
La notte dei morti viventi
Le colline hanno gli occhi
The Blair Witch Project
La cosa
Un tranquillo weekend di paura
Questi sono i titoli principali che, dosati in modo eccezionale (per la serie copiare e rielaborare) costituiscono il nerbo di un film sanamente e irrimediabilmente splatter (decisamente da vomito per i deboli di stomaco) che contiene una delle scene di sesso più horror della storia del cinema e (va detto per dovere di avvertimento) diverse scene di violenza su animali (ma… nessun animale è stato maltrattato sul set bla bla bla). Mi sembrava di essere tornato ai tempi d’oro di Craven e Romero. L’ironia, invece, è tutta alla Raimi. Il finale è semplicemente delirante e geniale.

UN ALTRA SALA CHE CHIUDE

Niente film, niente video questa volta. Poco più di una settimana fa ha chiuso il Fiamma, cinquantenne sala torinese. Un po’ poco per dispiacersi, è vero, ma presto chiuderanno anche il Lux e il Doria, sale ancora più storiche e frequentate da generazioni di cinefili sabaudi. Va bene, è difficile trovare parcheggio in centro. D’accordo, le poltrone non sono comodissime e non ci sono negozi aperti a portata di mano (come se si potesse/dovesse andare al cinema solo a condizione di fare shopping). Convengo che se dal 2001 al 2003 siamo passati da 66 a 95 schermi in città (diventando la città italiana con il più alto numero di sale cinematografiche) questo vuole anche dire che ci deve essere un ricambio naturale. Ma il ricambio vuol dire "più multisala meno cinema". Negli anni scorsi sono state diverse le sale a chiudere: ricordo il Greenwich Village, l’Etoile, il Charlie Chaplin, il Vittoria. Certo, è anche vero che la recente programmazione di queste sale si limitava spesso all’estetica vanziniana e a quella della Hollywood più becera. Ma il Lux e il Doria fanno parte della storia della città: sono stati a lungo sotto la gestione di Carlo Giacheri, imprenditore e promotore illuminato che ha segnato un’epoca nelle proiezioni torinesi. Il Lux, nato nel 1934 come Rex, fu fin da subito uno dei cinema più all’avanguardia d’Europa: partì con Angeli senza paradiso e da allora fu sempre il primo ad adottare le novità del calibro di ScreenVision o VistaVision (sapore di anni cinquanta)… il Doria, nato nel 1943, esordì con E’ arrivata la bufera, e da allora ha continuato con una programmazione non sempre d’autore ma comunque mai banale. Due sale tra le più amate dai torinesi. Una volta.