#OPENHOUSETORINO, UNA FESTA IN CITTÀ

Da torinese, mi sento di dire che ci sono almeno tre momenti di vera, grande festa cittadina. Il primo – il più “datato” – è il Torino Film Festival, che dal 1982 per chi ama il cinema come me è il vero momento aggregante e festivo della città. Nel 1982 (allora era noto come Festival Cinema Giovani) ci vidi in anteprima The Wall di Alan Parker e di lì a poco ho tentato di rasarmi le sopracciglia come Bob Geldof con grande preoccupazione dei miei e grande scherno dei miei compagni delle medie.

Il secondo momento di grande festa in città è il Torino Pride, che dal 2006 in avanti – in maniera sacrosanta – è diventato il momento di massima aggregazione tra cittadini torinesi all’insegna della tolleranza, dell’uguaglianza, del rispetto reciproco e dell’amore universale. Inutile ribadire ai miei 25 lettori che non è solo una festa gay ma anzi, è una festa di tutti e per tutti che da 13 anni rende Torino un posto più respirabile.

Ma dal 2016 è arrivato in città un nuovo momento di festa: Open House Torino è di nuovo una questione di inclusione. Open House ci fa sentire tutti come se uscissimo su un ideale ballatoio cittadino e ci infilassimo ognuno nelle case degli altri. Con grandissima sabaudaji, ovviamente. Non sia mai che noi torinesi facciamo i maleducati con i vicini di casa. Eppure, è innegabile che nel torinese esiste quella curiosità un po’ morbosa di vedere “le case degli altri”, e Open House la soddisfa pienamente.

Per chi ama l’architettura e la storia cittadina, non c’è niente come il weekend di Open House. Totalmente gestito sul campo da meravigliosi volontari in maglietta blu (ma l’organizzazione a monte, in tre anni, è diventata sempre più solida), Open House apre le porte di palazzi, chiese, case private, spazi di lavoro, ex fabbriche ristrutturate e molte altre realtà che normalmente sono chiuse al pubblico, blindate per abbandono o semplicemente non valorizzate per mancanza di personale. Non è come visitare un museo, è un’esperienza molto più intima e totalizzante.

Ci sono 150 location da visitare (cambiano un pochino ogni anno) e il tutto diventa come un album di figurine in cui l’appassionato torinese, torinista e torinologo comincia a dire “celo”, “manca” e ad immaginarsi i percorsi di scoperta o riscoperta dei luoghi della sua città. Io, dal canto mio, mi riduco a scalmanarmi nei ritagli di tempo. Ho goduto appieno del Torino Film Festival per almeno 18 anni, prima che la vita reclamasse il suo tributo di sangue e diventasse troppo oneroso prendere continui permessi sul lavoro per infilarsi in sala 24/7. Ho goduto del Pride per almeno 6 anni prima che la mia nuova condizione di papà rendesse a volte (ma non sempre) difficile partecipare.

Open House è iniziato in una fase della mia vita in cui sono in continuo sclero, perciò non riesco mai a vedere tutto quello che vorrei. Ad esempio, in 3 anni di frequentazione, non sono ancora riuscito a vedere alcuni edifici per me totemici come Casa Hollywood, Palazzo Lancia, Casa Y, Palazzo Novecento, la Nuvola Lavazza e il Lanificio di Torino, o a rivederne altri che per me hanno un valore affettivo forte come Palazzo del Lavoro (che quest’anno mi ha fregato, all’ultimo hanno chiuso i battenti per motivi non meglio precisati), i Magazzini dei Murazzi o il quartiere Falchera.

Il problema è che io mi faccio gli itinerari, metto le crocette nei posti già visti e i pallini in quelli che vorrei vedere e poi devo intersecare tutto con la spesa da fare (cerca un posto vicino a un Lidl è la soluzione), la necessità di fare commissioni in centro (ottimizza con gli edifici in zona, ormai quasi tutti battuti), il paradigma dell’edificio vicino a casa che quindi con una scappata a piedi ce la fai alla veloce (a patto che non ci siano code chilometriche come tradizionalmente accade al 25 Verde di Via Chiabrera).

Ma va bene così. È una specie di caccia al tesoro. Un album di figurine che ci metterò una decina d’anni a completare. Lunga vita a #openhousetorino.

LA GRANDE TRUFFA DEL NATALE

C’è questa cosa, che tutti i miei amici sanno e sulla quale scherzano: io detesto il Natale. Comincio a stare a disagio a novembre, quando in città piazzano le luminarie, e mi passa il 7 gennaio, quando si torna a lavorare. Persino mio figlio a cinque anni sa che “è meglio non mettere le canzoni di Natale perché poi papà sta male”.

Un po’ è un inside joke della nostra famiglia e del gruppo di amici, un po’ è qualcosa di vero. Veramente io con l’avvicinarsi del Natale cado in uno stato di negatività, angoscia e depressione tale che devo solo passare i giorni a ringraziare le persone che mi amano per continuare a farlo passando sopra questo inesplicabile fenomeno. La cosa è tanto più curiosa in quanto non ricordo esattamente da quanto tempo io mi sento così a Natale. Sicuramente c’entra qualcosa anche il mio compleanno, che cade il giorno precedente, e che superati i 40 tende a diventare più simile a una visione di sabbia che si esaurisce nella clessidra che non a una tappa da celebrare.

Da piccolo il Natale era già qualcosa di ambiguo. La festa – la mia festa – veniva in qualche modo usurpata dalla festa di Gesù. Non ho mai veramente festeggiato un compleanno con i miei amici, che quella sera erano tutti impegnati in baldorie familiari o in messe di mezzanotte. E non è che io ricevessi “un regalo solo” per Natale e compleanno, è proprio che la mia festa individuale si scioglieva in un rito collettivo, e io coltivavo già allora una sorta di rancore verso questo bambino circondato da animali, stelle, pastori e magi che mi privava dell’attenzione che io e solo io avrei meritato in quel giorno.

In più, tolti gli amici e la spensieratezza dall’equazione, il Natale diventava esclusivamente una questione familiare, con gli stessi riti, le stesse parole, gli stessi cibi, le stesse persone, anno dopo anno, dall’infanzia all’adolescenza, fino all’età adulta. I riti, una cosa che ho sempre mal sopportato. Eppure mi rendo conto che devono essere presenti nella vita di una persona se non altro per potersi autodefinire in contrapposizione ad essi. All’università sono riuscito a fatica ad affrancarmi dalla famiglia, facevo un po’ la fame ma vivevo libero. Tornavo a Natale, certo, ma forte di una vita che era la mia, non più la loro. Il tempo di una cena, ed ero già altrove. Potevo decidere di sottomettermi al rito per l’affetto che mi legava ai miei genitori, o – più avanti – ai genitori della mia compagna e successivamente moglie.

Poi, certo, nel 2006 c’è stato il primo Natale senza mio padre. E nel 2013 il primo Natale con una nuova persona, mio figlio. Questi due eventi cruciali, attorno ai quali ho girato molto intorno anche in mesi di terapia, sono andati in qualche modo a disturbare quel bambino triste e rancoroso che odiava Gesù e il Natale. Quel bambino vuole attenzione e vuole rassicurazioni, e per quanto abbia l’apprezzabile tendenza a spuntar fuori raramente, il periodo natalizio lo attiva in modo particolare. Ed ecco, si produce nel suo repertorio di momenti depressivi, crisi di ansia, difficoltà respiratorie, alterazioni dell’umore, e via dicendo.

Nel Natale / compleanno è cristallizzato il mio desiderio di poter essere figlio, spensierato, accudito, deresponsabilizzato (intendiamoci, lo sono stato quando era il momento, non è che fossi un piccolo adulto, e tuttavia qualcosa deve essermi mancato). Nel Natale / compleanno questo bambino interiore si risveglia e piange i Natali / compleanni che sente di non aver vissuto. Nei Natali / compleanni dopo il 2006 e dopo il 2013 la situazione è radicalmente peggiorata, in quanto la morte di un padre e soprattutto la nascita di un figlio (che per un milione di altri motivi è il regalo più grande che la vita mi abbia mai fatto) sanciscono senza pietà il fatto che tu non sarai mai più “figlio”, nessuno ti potrà accudire, consigliare o deresponsabilizzare, e anzi, scusa tanto, ma devi essere 24/7 “padre”, e devi essere tu ad accudire, consigliare, farti carico delle cose.

Certo, razionalmente potreste dire (me lo dico anche io spesso, non mi offendo se me lo dicono gli altri) “cazzo hai 48 anni*, non è certo l’età della spensieratezza”. Giusto, per carità. Resta il fatto che il Natale è un trigger per queste sensazioni. Il Natale mi ricorda che gli anni che restano sono meno di quelli che sono passati. Il Natale mi ricorda che non c’è nessuno a consigliarmi come fare il padre, anche se per carità, la risposta è sempre dentro di me (ma è sbagliata). Il Natale mi ricorda che i familiari ancora in vita sono anziani, e che sta a me sbattermi per cercare di fargli passare una buona giornata e non viceversa. Il Natale soprattutto mi ricorda che ho un figlio e dovrei sforzarmi di passargli passione e leggerezza, due qualità che considero fondamentali nella vita, e che dal 1 dicembre al 6 gennaio sembrano prosciugarsi completamente in me lasciando solo apatia e pesantezza (recupero gli altri mesi dell’anno, non temete).

Tutto questo sfogo di autoanalisi un po’ per far passare il tempo, un po’ per dirvi che, qualora dovesse capitare che io non risponda agli auguri o che – se spronato – vi risponda “Buon Natale un cazzo”, voi sappiate il perché.

*48 anni domani, per la precisione. Oggi ancora 47. Ho ancora il vezzo di non aumentarmi l’età se non è strettamente necessario.

C25K FOR DUMMIES

Correre. Si può fare. Nel mio caso ci è voluto un enorme sforzo, soprattutto mentale. E un cartellino giallo da parte del medico di base che non mi ha detto proprio “o corri o muori”, ma insomma. Io almeno l’ho intesa così. Sono fortunato perché ho molti amici runner, di cui segretamente ho sempre pensato che fossero dei pazzi monomaniaci, ma che sono tornati molto utili al momento decisivo (si scherza, voi sapete chi siete e siete stati preziosi). Dopo un esordio a dir poco disastroso, ho preso a seguire il famosissimo metodo C25K (Couch to 5 km) che in teoria dovrebbe portare i patatoni da divano come me a correre 5 km in mezz’ora. Mi è sembrato un obiettivo fattibile, e lo è, senza dubbio. Vedremo se sarà altrettanto facile perseverare. Per i fanatici, attrezzatura Decathlon tranne le scarpe che dopo le prime uscite ho cambiato con un paio di scarpe da running serie (nel mio caso le Hoka One da iperpronatore obeso). In tutto questo percorso ho anche perso 5 kg, ma non era quello l’obiettivo. Molti corrono per allenarsi alle maratone, altri per farsi i muscoli, altri per dimagrire. Io corro esclusivamente perché è funzionale al mio sistema cardiovascolare e perché a parte dodici anni di yoga non ho mai fatto altre attività. La palestra e gli sport strutturati non fanno per me, e tutto sommato il mio obiettivo in queste settimane è stato costruirmi il fiato e le gambe. E perché no, trovare un nuovo spazio tutto per me, in cui ascoltare il mio corpo e se possibile zittire la mia mente. Vi racconto qui com’è andata giorno per giorno (tre uscite a settimana nell’estate 2018, tra giugno e settembre, raddoppiando la quarta settimana del C25K che è quella più difficile), raccogliendo le impressioni a caldo di una serie di post su Facebook. Enjoy.

[A scanso di equivoci, quello nella foto ovviamente NON sono io. Non sono (ancora) così in forma].

Giorno 1. Dire che l’ho odiato non sarebbe giusto, no. Ci ho provato.
Sei cicli da 3 minuti di corsa e due di camminata veloce (che al ritorno, causa spompamento, si sono invertiti). Ora dovrò stare orizzontale tre giorni. C’entra forse anche il fatto che incautamente ho scelto un percorso in leggera ma costante salita (strada per Bussana vecchia, ndr). Perché sono un idiota.

Giorno 2. Invece di inventarmi dei cicli a cazzo di cane, da oggi seguo questo metodo (C25K, ndr) suggerito a gran voce per i “runner principianti” (eufemismo per “cozze”) che dovrebbe traumatizzarmi un po’ meno gli alveoli. Sono un po’ agitato, mi sveglio prima della sveglia, mi preparo con un po’ di stretching (non si sa mai) e con la vestizione, che nella mia testa è una sequenza a montaggio girata da Aronofsky in cui si vedono solo dettagli di lacci di scarpe, fasce antisudore e slippini traspiranti. Poi esco e inizio il mio percorso, accuratamente studiato per evitare quel punto in salita che mi aveva devastato il primo giorno. Incredibilmente, in effetti, mi sento meno affaticato (spoiler: dopo mezz’ora mi sento affaticato eccome). Dice ascolta la musica electroclash, dice senti un audiolibro… ma io mi devo concentrare sui passi e sul tempo che passa. E poi sto così leggero che portarmi anche qualcosa nelle orecchie mi dà fastidio. Ecco quindi la grandiosa idea. Correrò dicendo mentalmente un rosario. Al quarto mistero doloroso comincio a perdere colpi. Dopo il quinto ricomincio dal primo, fino al terzo, forte dei miei ricordi d’infanzia fatti di corone di spine e flagellazioni. Poi stretching e una doccia tiepida (a un’ora in cui normalmente devo ancora scendere dal letto). Mi resta solo un dubbio. Tutti quelli che corrono dicono sempre “Ah, le endorfine… non ne puoi più fare a meno”. Io, boh. Mi sento come quelle persone che sanno che esiste una cosa chiamata orgasmo ma non hanno ancora capito cos’è. Magari arriva poi. Proseguo con fiducia.

Giorno 3. Oggi vi racconto com’è uscire a correre con una sorta di attacco di panico. Occhi spalancati mezz’ora prima della sveglia ma non tanto perché sai che poi esci e ti prendi del tempo per te. Quegli occhi spalancati per via che improvvisamente nel dormiveglia ti vengono in mente i conti da pagare gli avvocati le cause le banche quella cosa che non hai ancora fatto quella che dovrai fare tra un mese e come incastrare tutto con il fatto che hai anche un lavoro e una famiglia. Vabbè. Vestizione un po’ rallentata, poi esco e comincio, sto ancora nella prima settimana quindi in sostanza un minuto di corsa e un minuto e mezzo di camminata veloce. Quindi come va, al netto del fatto che mi sento già meno spompo e le gambe non sono più di legno? Beh, nei minuti di corsa corro. E nei minuti e mezzo di camminata veloce il cervello mi dice “Tanto guarda che prima di arrivare al porto ti prende un infarto e ti trovano lì riverso per strada”, “Tanto guarda che hai presente quell’asperità del terreno che c’è là, ora ci inciampi dentro mentre corri e cadi e ti spacchi la testa”, “Corri, corri, che tanto i problemi sono lì dietro l’angolo che ti aspettano”… In definitiva una tachicardia che riconosci benissimo che non è dovuta tanto alla corsa quanto ai pensieri. L’effetto positivo è che invece nei minuti in cui corri questi pensieri svaniscono e resta solo una roba tipo “Dài su… ancora 20 secondi… 15… 5…” (perché è nella mia natura che dopo 40-45 secondi di corsa già ogni mia fibra si chiede “Sì vabbè, ma COSA stiamo facendo?!?”). E niente. Doccia tiepida e colazione, vedremo che succede la prossima settimana.

Giorno 4. Seconda settimana, cambio ritmo (immaginatevi dalla conga alla cumbia). Il fatto che si corra un po’ più di prima non è mortale come mi figuravo, più che altro lo shock della diversità sta nel contesto urbano affrontato per la prima volta. Di buono c’è che la mia zona offre percorsi abbastanza verdi e/o battuti da varie tipologie di runner (del tipo che trovi gli invasati ma anche quelli messi peggio di te). La transizione è buona per il fatto che è ancora domenica, la città alle 7 è ancora deserta e dalle 7.30 in poi ho relativamente poco da fare. Sale invece un pochino l’inquietudine per la corsa in settimana lavorativa. Ce la farò a non sbroccare? God only knows.

Giorno 5. La prova del nove. Uscire alle 7 di un giorno feriale è un po’ peggio di quanto mi immaginassi. A parte il mal di pancia devastante dovuto alla torta di una festicciola di cinquenni ieri sera, incredibilmente alle 7 c’è già gente che va a lavoro fa casino suona il clacson urla. Al terzo giro di corsa mi vola un piccione in bocca. Al quinto giro incrocio un anziano clochard che mi urla TOGLIATTI È MORTO, L’EREDITÀ DI TOGLIATTI È MORTA, GAME OVER! Al sesto giro vorrei vomitare. Forse dovrei smetterla. Ma sono qua, ancora vivo. E tra poco vado in ufficio.

Giorno 6. Dopo una tempesta notturna c’è meno gente in giro. Il problema sono le maledette pozzanghere-lago ovunque e i maledetti rami secchi. Per strada è pieno di rami puntuti che correndo concentrato sul respiro tendo a pestare, facendoli schioccare con le punte in direzione delle mie caviglie. Bestemmie a mezzo fiato ogni 10-15 secondi. Per il resto ho scoperto una bellissima latrina art nouveau e il barbone togliattiano dell’altro giorno, vedendomi, mi ha puntato l’indice addosso. Temevo urlasse muto contro di me stile ultracorpo, invece mi ha fatto solo un cenno sghembo del capo come a dire “Già sai”. Doccia e ufficio.

Giorno 7. La grande svolta. Vorrei dire che è passata veloce e non mi sono nemmeno accorto di arrivare a 4,7 km ma non è vero. Ancora una volta la mia brama di paesaggio bucolico mi ha fottuto perché da casa mia se tu corri verso il fiume il fiume corre verso di te, ma se tu corri via dal fiume ti attendono insidiose e bastardissime pendenze. Di oggi comunque, concentrato com’ero sul mio respiro, posso raccontarvi una piccola odissea olfattiva: si comincia con odore di asfalto bagnato, poi croissant infornati, piscio umano stantio, gingko biloba o qualche mefitica pianta analoga, cacca di nutria, odore di Po (odore indefinibile che solo il Torinese sa riconoscere), benzina spillata, disinfettante industriale, cassonetti dell’umido, minestrina, casa. C’è un po’ di indolenzimento a una parte del corpo che non sapevo di avere (la “zampa d’oca”, si chiama), ma a parte quello tutto mi sorride.

Giorno 8. Umidità al 99%. Zampa d’oca al 3%. La muerte.

Giorno 9. Siamo io, la mia zampa d’oca e la nube di umidità che ci troviamo alle 7 e ci diamo il cinque. Hey ho let’s go e per l’ultima volta giuro andiamo giù dal Valentino che poi a risalire è la devastazione. La nube di umidità mi dice vedi? Non sembra neanche luglio. Sembra novembre. Ma con il caldo di luglio. Sei contentone? Sì, in effetti la visibilità è parecchio ridotta. La zampa d’oca si fa sentire al km 3. Dice ciao volevo solo dirti che siamo in salita. Poco, eh. Ma mi sto rompendo il cazzo e come sempre protesterò fino a dopodomani. Sei contentone? Moltissimo. Devo procurarmi l’arnica veterinaria per cavalli di cui mi hanno parlato.

Contenuto speciale / easter egg .
Ciao, sono Pietro e sono un iperpronatore. Tipo che quando cammino (e a maggior ragione quando corro) storco il piede in una maniera che se non l’avessi visto alla moviola non ci crederei. Stamattina sono andato in uno di quei negozi sportivi che ti filmano i piedi mentre ti dai da fare sul tapirulant e niente, il commesso continuava a scuotere la testa e mormorare “Minchia”. Poi mi dice “Ci credo che ti fa male la zampa d’oca e magari anche tutta la schiena, guarda come corri”. Avete presente quando sentite la vostra voce registrata e vi fa cagare e vi vergognate tantissimo? Peggio. E va beh. Volevo comprarmi una scarpa da corsa e sono uscito con una specie di scarpa ortopedica che però era l’unica – filmati alla mano – che non mi faceva storcere il piede come un piciu. Meno male che c’erano i saldi. E poi comunque vorrei che qualcuno mi spiegasse perché le scarpe da corsa devono essere tutte così fottutamente anni ’80.

Giorno 10. Oggi doveva essere un giorno decisivo. Il giorno in cui avrei corso 5 minuti di fila (e poi 3 e poi di nuovo 5 e via dicendo). Insomma un cambio di passo notevole (da cui il bonus scarpe ieri). Rischia invece di essere il giorno in cui mi fermo. No, scherzo dài, lo so che fate il tifo. Diciamo il giorno in cui, colmo di zen e accettazione dei miei limiti strutturali torno a corricchiare al massimo per 3 minuti di fila e mai di più. Parto garrulo ma un filo impacciato, ché le scarpe nuove son belle ma mi fanno stare un po’ concentrato a vedere i piedi. Poi mentre affronto i primi 5 minuti mi dico vedi come si va più leggeri, l’amica zampa d’oca non si fa sentire. Inutile dire che al secondo giro di 5 minuti mi sono trasformato in un anziano paralitico che tenta di correre. E dire che ho anche cambiato totalmente zona per correre solo in piano. Talmente sono entrato in una dimensione parallela di dolore e sofferenza (“Tu hai aperto la scatola e noi siamo venuti”) che ho corso anche in una via di Torino che in realtà non esiste (Corso Parigi, ndr). E adesso, ghiaccio.

Giorno 11. Ancora in piedi. Esco e dopo 400 metri un barboncino mordace mi rincorre. Appena riesco a sfuggirgli, un volpino incazzoso mi si infila tra le caviglie. Dopo altri 200 metri devo scappare da un pastore tedesco ringhiante e bavoso. Non capisco, forse emano aroma di bacon. Comunque capirete anche voi che l’inseguimento urbano è una forte motivazione a correre. Cani a parte, la zampa d’oca si è pressoché tacitata, lo prendo come un buon segno. O forse si è suicidata.

Giorno 12. Come tutti i multipli di tre, questo è uno di quei giorni che fila liscio, in totale concentrazione su come respirare abbastanza lungo da fare 6 passi di corsa in un inspiro e 6 in un espiro. Ho trovato la chiave per farmi piacere un po’ di più queste corsette. Sono una versione sudata della meditazione yoga. Invece di star lì e respirare vai dal punto A al punto B respirando, una questione di pura esistenza. Poi per carità, qualche pensiero disturbatore arriva, ma sono tutti legati alla corsa. Tipo: ma se a uno scappa fortissimo la cacca mentre corre, cosa deve fare? Oppure: ma come funziona esattamente il tessuto traspirante dell’abbigliamento tecnico da corsa? Due cose che devo assolutamente guglare prima di andare in ufficio.

Giorno 13. Pausa forzata. Qui (Andrate, ndr) ci sono troppe pendenze, troppo sterrato, troppo fango scivoloso. Il solo inerpicarsi per i sentieri boscosi già esaurisce tutta l’attività fisica possibile. Decido di allungare la quarta settimana di C25K a un paio di prossime uscite in più. Intanto mi hanno prestato “L’arte di correre”, probabilmente l’unico libro di Murakami che non ho mai letto (non era evidentemente mai il momento adatto). Dopo poche pagine mi stupisco di come al 90% stia parlando di me. Ma forse non dovrei stupirmi, in fondo è Murakami.

Giorno 14. Io e i semafori. Correre in città, se proprio non vai in un parco, ci sono i semafori. E io e i semafori abbiamo un rapporto strano. Li vedo a 50 metri di distanza che diventano gialli e proprio quando dovrei passare io con il mio ritmo hop hop hop somarello diventano rossi. Allora lì, in quella frazione di secondo, devi decidere fra tre opzioni, fermarti da bravo cittadino e stoppare il tuo cronometro altrimenti ti giochi tutto il conteggio mentale tre minuti corro due minuti cammino cinque minuti corro tre minuti cammino; fermarti ma correre sul posto da bravo sportivo sentendoti però un cretino; attraversare lo stesso tanto non sono nemmeno le 7 e non passa quasi nessuno. Io di solito scelgo la terza opzione. Certo, ti spinge a correre più velocemente se arriva qualcuno. Oggi cielo a pecorelle, comunque. Evaporazione, doccia, porta Creatura a scuola, ufficio.

Giorno 15. Correre nell’archeologia industriale. Mi piace forse anche più di correre nella natura. Basta non far caso ai vetri rotti, eh. Settimana prossima cambio passo, cambio percorso, cambio ritmo. Penso che se supero quello scoglio lì, potrò dire veramente che “ce la sto facendo”. Vedremo.

Giorno 16. Oggi svoltona con più corsa del solito. Mi ero preparato dei percorsi a raggera da casa mia per la settimana entrante. Il primo, quello di oggi, era la Sansa Run (nel senso di San Salvario). Solo che arrivato al dunque ho sbagliato qualcosa e – orrore – ho corso ancora più di quanto prevedeva il programma. Mi sono subito sentito poco bene. Una pura suggestione? Io credo di no. Comunque alle 7.30 di domenica a Sansa ci sono solo cingalesi che fanno videotelefonate per strada col cellulare fronte viso e nigeriani che mandano messaggi vocali col cellulare di taglio verso la bocca. Mi sono chiesto se questa differenza nell’uso del mezzo avesse una qualche giustificazione antropologica. Sulla via del ritorno, riecco il barbone marxista di un mesetto fa che mi viene incontro mentre attraverso il Valentino. Non mi dice nulla, ma ci siamo capiti. Togliatti resta morto.

Giorno 17. Zona militare, limite invalicabile. Una metafora quasi perfetta per la mia prima volta con 8 minuti consecutivi di corsa. Subito sembra tutto OK, tant’è vero che azzardo una sortita fino a Piazza d’Armi. Poi un po’ di camminata veloce e poi gli altri 8 minuti. Che diventano 7 e mezzo perché a un certo punto mi pare stia scoppiando qualcosa dentro. Un’onta di 30 secondi compensata però da un percorso inedito e una doccia gelata. Che in realtà non so se ho proprio fatto bene a farla gelata, che sia quello o gli 8 minuti mi pare che il battito non si stia normalizzando…

Giorno 18. Questa settimana, come vi avevo detto, ho diviso le uscite a raggera. Prima la Sansa Run, poi la Piazza d’Armi Run e oggi toccava alla Hospital Run (anche perché erano previsti 20 minuti di corsa senza sosta e ho pensato MEGLIO AVERE L’OSPEDALE A DUE PASSI). Comunque sia, fino a qui tutto bene. Parto trullo trullo e mi faccio i primi 13 minuti tranquillo, Molinette, S. Lazzaro, S. Anna, Regina Margherita, CTO. Poi si torna e comincio ad accusare. Però mi dico dài, fino al ponte Balbis. E niente, al diciottesimo minuto arriva la milza e mi dice tu fai come credi ma io ora scoppio. Al ponte ci arrivo, ma da lì in poi cammino, sudo copiosamente e rantolo. Sotto casa, uno spazzino di una certa età mi rincorre e mi dice mi scusi, sono anni che mi chiedo una cosa ma perché molte biciclette hanno una targhetta con scritto NO OIL? Glielo spiego, lui mi ringrazia come se gli avessi offerto la colazione, torno su. Una nuova rutilante giornata di lavoro.

Giorno 19. Ce la sto facendo, sì, ma neanche tanto. Oggi ho ceduto alla sirena dello snooze e alla fine sono uscito mezz’ora dopo il solito. Il che, la domenica, può anche andar bene, ma ora di tornare a casa ed è veramente CALDO. Comunque, oggi ho optato per la FFSS Run che consiste nel costeggiare la ferrovia da Corso Turati / Via Sacchi, fare Rocky Balboa di fronte a Porta Nuova e tornare su da Via Nizza. È molto educativa. In via Sacchi alle 7.40 dormono ancora tutti. Sui cartoni sotto i portici. Alla stazione è strapieno di gente che prende il treno per il mare. In via Nizza c’è già un fermento multiculturale che lévati. Tipo che alle 7.45 stanno già tutti pasteggiando a Moretti e kebab. Arrivo quasi al traguardo alle 8, in tempo per incrociare tre anzianissime madamine davanti al Sacro Cuore di Gesù. Una dice alle altre due “Arvdse, vado a casa che alle 8 comincia il rosario di padre Pio da Pietralcina in TV, buna duminica”. Le altre due la lasciano allontanare e poi “Ma chi cazzo glielo fa fare, siamo già state in chiesa alle sette, ma vai al bar come tutti i cristiani, no?”… Vecchietta dai capelli turchini del Sacro Cuore, you made my day.

Giorno 20. Correre in Camargue. Tutto in piano (bene), in mezzo agli stagni di sale (bene ma non benissimo) a un’ora in cui sono svegli solo i fenicotteri e i camionisti, che non si capisce il motivo ma fanno la spola avanti e indietro verso il mare (il mare è la fine della strada, non capisco cosa ci vadano a fare). Il camion che ti passa vicino mentre corri e ti spara un po’ di fine ghiaietta sui polpacci è un’esperienza inquietante. Come prevedevo il programma di oggi mi ha stroncato tre minuti prima del traguardo, ma va bene così. Il sudore qui è ancora diverso, ti si appiccica addosso anche la salsedine al cubo. Oggi dicono che pioverà, perché gli uccelli volano basso. Speriamo che il cielo non ci cada sulla testa.

Giorno 21. Perdersi in un villaggio di 3.000 anime a pianta quadrata: check. È bastata una svolta mancata e bum! Mi sono trovato in Texas Chainsaw Massacre (o, come dicono qui, Massacre à la tronçonneuse, un titolo fantastico). Niente di vivo a parte gli onnipresenti chupacabra (in famiglia chiamiamo così gli uccelli che fanno hu-huuu-hu) e l’occasionale vecchina provenzale con la scopa di saggina che ti segue con lo sguardo di ghiaccio fino a che non sparisci dietro la curva. Oggi dovevo fare 25 minuti di corsa. Ne ho fatti 24.30, a posto così. Ho dovuto controllare Runtastic se non altro per capire dove cazzo ero finito sulla mappa, ho visto che stavo a 22 minuti di corsa e niente, il mio cervello ha cominciato a cedere “daiiiii potresti anche smettereeehhh” e dopo poco anche il cuore ha detto “sì, vabbè, però anche basta”. Il problema non sono stati questi 4.3 km di corsa. Il problema vero sono stati i successivi 3.2 km di camminata per tornare al campeggio dal posto in culo a Giove dove mi ero andato a ficcare. E adesso ho ridefinito il concetto di “gambe di legno”.

Giorno 22. È dalle 4 che c’è il nubifragio. Ma alle 6.20 è finito, quindi yeee mezz’ora di corsa. Tanto yeee no perché rimarrei anche a letto volentieri, ma la Creatura si è svegliata anche lei tutta ringalluzzita (veramente ha dormito solo dalle 23 alle 4, quindi è stracarico) perciò meglio uscire che tentare inutilmente di dormire. Freddino, umidino, nebbiolino, almeno non mi sono perso nel villaggio e ho fatto i miei 24 minuti di ordinanza (25 proprio non riesco, c’est plus fort que moi). Torno devastato alle 7 e lui vuole giocare a carte. Ciao.

Giorno 23. Correre controvento è un po’ come pisciare controvento, ci perdi soltanto. Ma andiamo con ordine. La mia aspirazione a correre nel totale deserto mi ha spinto oggi ad affrontare la “Saline Run” ossia un percorso quadrangolare di circa 4 km in mezzo al paesaggio lunare delle saline dove il massimo dell’essere vivente che puoi incontrare è una libellula gigante e intorno alla stretta striscia di terra dove passi correndo c’è solo acqua rosa ad altissimo contenuto salino. Ma non avevo tenuto conto delle peculiarità del terreno. Primo tratto: sterrato. Dopo due minuti di corsa inciampo su una pietra sporgente, riesco a non cadere ma il contraccolpo arriva all’anca. Inciampare correndo è una roba terribile. Il secondo tratto mi pare buono, tengo il fiato, tengo la velocità, il terreno è più regolare, mi guardo un po’ intorno e godo del deserto e del silenzio. Nel terzo tratto realizzo che c’è un rovescio della medaglia a correre nel nulla: il sole che sta sorgendo punta direttamente sulla mia faccia. Per un lungo tratto corro guardando solo la punta delle mie scarpe. Finalmente la svolta e il quarto ed ultimo tratto: tra poco arrivo. Ma c’è un altro problema legato al paesaggio: non essendoci nulla, nemmeno un albero, nel raggio di chilometri il vento fortissimo della Camargue soffia senza ostacoli. O meglio, l’unico ostacolo sono io che mi ostino a correre perdendo velocità e facendo il doppio degli sforzi. Forse è meglio tornare a percorsi più battuti…

Giorno 24. Almeno credo. Non sarei sincero se non dicessi che stamattina ho odiato svegliarmi per correre. Dormivo saporitamente e non avevo nessuna intenzione di interrompere il mio sogno in cui il mio vecchio professore di semiotica mi inseguiva brandendo un cric. Poi però ho visto l’alba, e il cielo mi ha presentato una X di scie chimiche. Ho pensato di fare una “corsa rettiliana” ed eccomi qua, ho finalmente bucato il muro dei 25 minuti (naturalmente con gli ultimi 5 minuti di resistenza mentale totale tipo un “Bastaaaaaaaa” prolungatissimo e vibrante). Ora però devo dirlo, io tornerei a dormire. Vorrei vedere come va a finire il sogno. O forse è meglio di no.

Giorno 25. Ultima corsa in Camargue. Decido che sarebbe bello correre nei sentieri del parco naturale subito fuori dal villaggio. E così sperimento un altro tipo di terreno, ossia erba più pozze di fango più ghiaia di dimensioni epiche. Il problema però non è tanto quello, quanto l’onnipresente merda di cavallo che ora dovrò scrostare dalle suole. Altro valore aggiunto del parco naturale: i rovi che si protendono da entrambi i lati e accarezzano con le loro dolcissime spine i miei avambracci e i miei polpacci. Decido quindi di terminare i miei (ipotetici) 28 minuti su asfalto, non prima di aver ingoiato un’intera ragnatela durante un inspiro a bocca aperta. Mai respirare con la bocca, soprattutto in un parco naturale. Ricordàtelo sempre.

Giorno 26. Si torna a un contesto urbano. Dante-Raffaello-Marconi-Vittorio e ritorno. La città tutto sommato è deserta, non c’è nemmeno il mio amico barbone a Torino Esposizioni. Tempo fa mi chiedevo cosa si fa se mentre si corre arriva un forte desiderio di fare la cacca. Un’urgenza, diciamo. Ecco, ora non me lo chiedo più. Diciamo che continui a correre e basta, fino a tornare alla tua preziosa casa e annoti mentalmente che non è bello correre se la sera prima ti sei fatto pizzabbirradolce con gli amici. Che detto tra noi già immediatamente dopo la pizza un po’ di disagio c’era. Comunque dai, ce la sto facendo sul serio, sto a 4.6 km. Ancora quattro uscite e finisco l’allenamento C25K.

Giorno 27. Fervent scarpae, fervent animi.
– Anf… anf…
– Sei un coglione, lo sai, no?
– Anf… anf…
– Come tutti questi altri coglioni che corrono alle 7 di domenica mattina invece di dormire… Coglioni!
– Anf… non l’hai detto ad alta voce, vero?
– Certo che no, coglione, sono nella tua testa cosa credi? E comunque non hai fiato per parlare ad alta voce.
– Punto per te.
– Smettila ti prego. Un bel giorno ti troveranno steso a terra mezzo mangiato da questi cazzo di scoiattoli.
– È proprio per quello che corro in zona ospedali, ci avevi pensato?
– Ma figurati, corri solo per i like di quei venticinque lettori che hai su Facebook.
– In realtà corro solo per i like del mio medico di base. E comunque non fare il manzoniano che ti viene male.
– Guarda, ridendo e ansimando siamo arrivati fin qua, puoi anche fermarti, no?
– No… ogni andata presuppone il ritorno.
– Ma io sto male e poi guarda, è tutto in salita.
– Dove?
– Lì, non vedi? La salitina. La buca. I rami tra i piedi. Fa freddino. Gli scoiattoli ti possono mordere. Trasmettono malattie, lo sapevi?
– Eh, oh. Le gambe tengono, il fiato anche. Facciamo sti 28 minuti, dai. Dalla prossima sono 30.
– Ti odio.
– Non mi odi, ti do solo fastidio.
– Ah sì?
– Sì.
– Domattina ricominci a lavorare e queste sono le ultime ore di vacanza che hai.
– …
– …
– Vai un po’ affanculo, va’.

Giorno 28. Gente di fiume. In pratica gli operatori Amiat, gli scoiattoli e i corvi. A differenza dei più timidi piccioni, gli operatori Amiat, gli scoiattoli e i corvi non fuggono dal passo cadenzato del vostro affezionato runner di quartiere. Ed ecco quindi il rischio di travolgerli. A un’andatura però moderata. Perché oggi ho finalmente bucato il tetto di cristallo dei 5 km, ma per farlo ho dovuto ridurre un pelo la velocità, tipo che su Runtastic, l’app che mi fa vedere quanti km ho fatto come dove perché, l’anello del percorso è tutto giallo con tratti arancioni e non è mai di quel bel rosso vivo delle altre volte – bisogna pur sopravvivere. Comunque qualche runner più esperto dovrebbe spiegarmi perché qualunque percorso faccia intorno al Valentino mi sembra sempre quasi tutto in salita. Ma proprio l’illusione ottica di essere in un quadro di Escher, dove comunque ti muovi, anche se torni indietro sulla parallela della strada che hai fatto all’andata, è tutto comunque in salita. Mah.

Giorno 29. È settembre. Guardando l’alba mi rendo conto che ormai è più freddino. Decido di inaugurare la giacchetta smanicata traspirante. Nel buio della vestizione silenziosa, però, dimentico la mia fedele fascia per capelli davidfosterwallace (che non porto i capelli lunghi dal 2010, ma mi serve perché la fronte è la mia parte del corpo più sudata e detesto il sudore negli occhi). Tant’è. Corro senza fascia. Dopo dieci minuti non vedo più un cazzo tanto gli occhiali sono appannati, dal sudore dentro e dal vapore del mio respiro fuori (sì, c’è già il vapore). Vado avanti in automatico, con quegli strani meccanismi mentali che scattano quando sei in stato di meditazione (oggi ad esempio ogni inspiro era “ferragni” e ogni espiro “fedez” per cui immaginatevi una serie infinita di ferragnifedez ferragnifedez ferragnifedez finché i nomi perdono di significato e diventano un mantra, stat ferragni pristina nomine, nomina nuda tenemus, ma vabbè, non divaghiamo). Ci avviciniamo alla fine di questo allenamento, e sono piacevolmente sorpreso dal fatto che forse (ferragnifedez) anche la mia mente si è allenata quanto le gambe e il fiato. Per lei è molto più difficile. La mia mente è come un grosso storione preso all’amo. Si dibatte, continuamente. Ma a volte basta poco per fregarla. Ferragnifedez.

Giorno 30. L’ho già detto più volte, io non sono competitivo, nemmeno con me stesso. Anzi, a volte baro, persino con me stesso. Spesso, baro. Come ad esempio, è vero che corro 5 km adesso, ma c’è sempre quella mini fermata per un sorsino alla fontanella o una foto di sfuggita. Quest’estate è stata un po’ faticosa, se mi guardo indietro ho corso (sì vabbè, all’inizio corso e camminato) 120 km. Idealmente è una cosa che non avrei mai pensato di fare nella vita, è tipo da qui a Milano. Sono scioccato. Oltre a questo, oggi che è l’ultimo giorno di C25K (sì, l’ho allungato di una settimana, mi piaceva la cifra tonda), cosa posso ancora dirvi? Vi dirò le cinque cose più importanti che mi porto a casa:
– Mai senza scarpe da corsa antipronazione
– Mai senza sospensorio traspirante
– Mai bere più di un sorsino mentre si corre
– Mai buttarsi sotto la doccia appena finito
– Mai guardare quanti km mancano mentre corri col fiatone
Per il resto, buona vita.

Ora… da quando ho concluso il programma C25K, molti mi chiedono “ma come, basta così?” – per non dire degli amici runner monomaniaci che tanto supporto hanno offerto che mi dicono “bene, e adesso vai con il B210K (Bridge to 10 km)”. Ecco, a tutti io rispondo ovviamente no, non è finita qui. Semplicemente mi godo il fatto di aver raggiunto questo obiettivo e continuerò se posso a correre anche nei mesi invernali (vedrò come, perché i tapirulant dentro le palestre per me sono un sinonimo di alienazione totale).
L’estate prossima, perché no. Si può valutare. Vedremo.