E IO CHE MI PENSAVO CHE ALMENO I SOGNI FOSSERO IMMUNI

Intrappolati in un edificio enorme, metà fatiscente, metà in uso. In parte scuola, in parte uffici, in parte abitazione privata. Un posto pericoloso, dove è necessario muoversi in una sorta di goffo parkour se si vuole sopravvivere. Un posto dove da un momento all’altro potrebbero accoltellarti. Corse improvvise, nascondigli e scivolate sui mancorrenti delle scale per raggiungere un’uscita che non si trova mai. O meglio, quelle che sembrano uscite portano in realtà ad un altra ala dell’edificio, un’altra sua manifestazione. Io e Léaud ci infiliamo in cunicoli, strisciamo sotto piloni di cemento, saliamo scale antincendio, scale di marmo e scale a pioli, ci arrampichiamo su muri sporchi e forziamo porte di ascensori fermi a metà piano. Attorno a noi figure indistinte, giovani cecchini masticatori di chewing-gum. Alcuni sono indifferenti, altri ci guardano con occhi vuoti. L’edificio è al centro di una corte di case di ringhiera. Ma è più alto. Passiamo attraverso stanze private, con letti disfatti e tavoli da sparecchiare. C’è stata vita, fino a poco tempo prima. Qualcosa ci insegue, anche se siamo sempre un passo avanti. Passiamo attraverso aule scolastiche polverose e graffitate, open space abbandonati, ricettacoli di tecnologia anni ’90. In un modo o nell’altro riusciamo ad arrivare sul tetto, ma è già notte. Ci aspettano tutti lì. C’è il Mionico, c’è un sacco di bella gente, c’è una banda cittadina venuta dall’Austria che invece di suonare intona in coro arie verdiane. Lì si beve, si mangia, si scopa, si è indistinti. Poi arriva Eio, inaspettato. Che non si capisce bene se è Eio o Aphex Twin ma in fondo si somigliano anche un po’ se non fosse che Aphex Twin ha i capelli. Dobbiamo andare in macchina con lui fino nei boschi, in montagna, tra i tornanti. Qualcuno vomita, altri non ce la fanno, altri ancora sono rimasti nell’edificio, occupando stanze disabitate. Io ho freddo, ho lasciato la giacca con le chiavi e tutto nell’edificio. La mattina dopo mi sveglio e sono già in strada, tremante. Fortunatamente ho gli stivali, perché le strade sono allagate e le poche macchine che passano sollevano onde anomale che mi bagnano fino al petto. Torno all’edificio. E’ l’unico punto di riferimento. Eio mi aspetta, mi consegna la giacca e le chiavi. Mi mette una mano sulla spalla, mi guarda intensamente e mi dice "Adesso vai". Poi suona la sveglia.

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REGOLIAMO LA TENSIONE (KLUTZPOST #3478906)

Avete presente cos’è un klutz? Se non lo sapete, ma avete presente me, siete a posto. Il klutz, c’est moi. Non passa giorno che la mia sbadataggine non mi procuri qualche guaio, qualche livido, qualche multa, qualche gaffe. Nella fattispecie, la settimana scorsa, abbagliato dalle meravigliose luci d’artista e impegnato a fare qualche estemporaneo scatto a cavallo della moto, ho lasciato il motore spento e il faro acceso per sbaglio. Ovviamente sono bastati cinque minuti di trance artistica per scaricare completamente la batteria. Sorvolerò sul fatto che mi sono recato dal più vicino meccanico per un jump start e l’ho trovato accasciato dentro una Punto rossa che si faceva il meritato sonnellino delle 18.45 (in realtà sembrava morto, e mi sono anche spaventato un po’). In definitiva, sono ormai nove giorni che la moto non parte. Ieri prendo il coraggio a quattro mani (due mani e due piedi, ché io li ho prensili – ma non riesco ancora a scriverci) e scendo in garage con la macchina. Lo scopo: collegare le due batterie di auto e moto con i cavi e lasciare i motori accesi per 15 minuti. Dopo qualche ardita manovra riesco a posizionare l’accrocchio auto+cavi+moto in modo da non rompere troppo i coglioni agli altri garagisti e faccio partire tutto. Dopo 15 minuti l’intero garage era così saturo di monossido di carbonio da far pensare alla scena di un suicidio. Impavido, il vostro klutz preferito con la sciarpona sulla faccia, si avventura nella nebbia per spegnere il motore dell’auto e ritirare i cavi. Il mix del gas di scarico con il profumo al the verde sulla sciarpa mi procura ulteriori conati di vomito. Ma devo farcela. "Un uomo deve fare quello che un uomo deve fare", ripeto tra me. Rimonto il sellino della moto, sempre a motore acceso, e parto per un giro di un’oretta durante il quale confido che la batteria si ricaricherà. Arrivo a Santena (ridente località alle porte di Trofarello) e penso "Torno indietro in autostrada o no?". Decido per il no, dato che non ho spiccioli. Quindi la soluzione, per non rientrare in un ingorgo senza speranza, è tagliare dalla collina. Incredibile dictu, in un punto imprecisato tra Pecetto e Revigliasco, mi perdo nel buio. La strada continua a salire. La temperatura a scendere. La moto tende ad andare via di culo dato che l’asfalto è ghiacciato e ricco di foglie secche mezze marcite che danno quella vivace sensazione di pattinamento. In qualche modo riesco a ritornare alla base, dopo due ore e mezza. A questo punto, penso, la batteria sarà più che carica! Scendo dalla moto col culo dolorante, le gambe completamente congelate, le braccia e le spalle rese insensibili dal continuo lavorio di frizione e freno. Spengo la moto, la parcheggio. Penso "Proviamo ad accenderla, per la soddisfazione di vedere che parte di nuovo". E la moto non parte. Anzi, fa quel caratteristico ticchettio di batteria completamente scarica. Non ho la forza nemmeno di bestemmiare. Una telefonata al meccanico, ed ecco l’ipotesi ferale: bisogna verificare se la batteria tiene la carica (io direi proprio di no, comunque verifichiamo pure). Se non la tiene (ricordo ai lettori che la batteria ha 5 mesi) può essere il regolatore di tensione da cambiare. E intanto io prendo i mezzi pubblici. Gey cocken offen yom!

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CIAO, SONO PIETROIZZO E SONO UN RITARDATARIO

"Sono qui a dirvi che non arrivo in ritardo in ufficio ormai da 7 giorni lavorativi!"… Ma torniamo alla realtà. Ieri c’è stato un meraviglioso momento di aggregazione aziendale definito "Riunione sulle violazioni della fascia obbligatoria dell’orario di lavoro" – per i profani, più semplicemente, riunione-cazziatone per i ritardatari. Il senso di tutto ciò è stato quello di creare una situazione fin troppo simile alle riunioni degli alcolisti anonimi, con tanto di sponsor (i nostri annoiati responsabili, mai in ritardo proprio perché "responsabili") e momenti di confessione personale. Il tutto con il pontifex in cattedra, che esordisce con un’omelia soporifera sul regolamento degli uffici che prevede l’entrata dalle 8 alle 9 e che dopo tre ritardi non avvisati scattano le sanzioni (tipo che se arrivi alle 9.01 ti tolgono 10 centesimi dallo stipendio) e cose così. Dopo la consueta dose di paternalismo ("noi dell’ufficio personale siamo qui per venirvi incontro, basta che facciate richiesta di una diversa articolazione dell’orario di lavoro"), di assolutismo ("noi dell’ufficio personale teniamo d’occhio ogni vostra mossa e non possiamo non sanzionarvi"), di pura rabbia da pugni sul tavolo ("non siamo qui per parlare dei difetti dell’ufficio personale", ad una collega che osservava che lei ha fatto richiesta di variazione orario da tre mesi ma loro si son persi la pratica), di sadismo (annuire con sorriso di circostanza mentre un’altra collega piangente spiega che uno può anche arrivare in ritardo per problemi seri, ma che è assurdo che dobbiamo arrivare a raccontare per filo e per segno i cazzi nostri all’ente), la riunione si conclude con la solenne promessa (nostra) di arrivare in orario e (loro) di comprendere che le regole applicate rigidamente non risolvono un cazzo. Ovviamente entrambe promesse da marinaio. Io arrivo in ritardo spesso per problemi imprevedibili. Chiaro che non posso sapere il giorno prima entro le 16 che cosa accadrà la mattina dopo, se un pazzo si butterà sotto il pullman, se la batteria della moto sarà scarica, se le pile della sveglia decideranno di esaurirsi… Comunque sia, io ci provo. Ho due sveglie di cui una lontano dal letto, un piano A (moto) e un piano B (bus) intercambiabili e perfettamente cronometrati. Eppure oggi, a un giorno dalla riunione cazziatone cosa succede? La moto non parte, il bus non arriva e scatta il ritardo di 10 minuti (il quinto del mese, per essere precisi). Sono proprio incorreggibile, eh? Preparate la croce

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