ANNO NUOVO, PILLOLA ROSSA NUOVA

Ehi, ciao. Anno nuovo, vita… uguale. Chiusi in casa quasi sempre, con il solo aiuto delle piattaforme di streaming e della pesca d’altura. Vorrei dirvi tante cose, ma è meglio se cominciamo subito che c’è tanto da leggere.

HILDA AND THE MOUNTAIN KING (Andy Coyle, 2021)

Primo dell’anno, prima #recensioneflash per tutta la famiglia! Hilda and the Mountain King su Netflix è la degna conclusione, dopo tre stagioni, di una delle serie animate più belle degli ultimi anni. Il film sconta un po’ il problema di essere una sorta di capitolo finale (cioè, devi aver visto le tre stagioni di Hilda per goderlo appieno), ma del resto anche l’ultimo Spider-Man richiedeva un po’ di studio pregresso, no?

Comunque sia, Luke Pearson e il suo team sono riusciti a trasporre in modo eccezionale il mondo di Hilda dalle pagine del fumetto al film (Hilda e il re della montagna è uno dei libri più belli di Pearson). Il mondo dei troll si contrappone a quello degli umani sulle montagne intorno alla ridente cittadina di Trollberg: i personaggi che chi ha visto la serie ha già imparato ad amare stanno cercando di sciogliere l’enigma di Hilda, la bambina che è stata scambiata con un troll e adesso vive nel cuore della montagna. Un coinvolgente e mai banale apologo sulla guerra, la diplomazia, l’accettazione delle diversità e dell’amore familiare. Spero sempre che comunque facciano un’altra serie di Hilda, perché è veramente troppo bella.

LA FAMOSA INVASIONE DEGLI ORSI IN SICILIA (Lorenzo Mattotti, 2017)

Piccolo gioiello forse poco apprezzato dell’animazione italica (d’altronde, Lorenzo Mattotti, e ho detto tutto), La famosa invasione degli orsi in Sicilia è la trasposizione filmica dell’omonimo romanzo illustrato “per bambini” di Dino Buzzati (che – insieme al suo “Poema a fumetti” – si contendevano con Gianni Rodari il posto d’onore sui miei scaffali negli anni ‘70).

Questo LFIDOIS di Mattotti che qui cura regia, sfondi e character design è più debitore degli ultimi sviluppi del suo lavoro più recente come fumettista e illustratore (Ghirlande, la serie dei Pittipotti) che dei famosi fumetti degli anni ‘70 realizzati ad esempio per Alter Alter con il gruppo Valvoline (Dottor Nefasto, Fuochi) e non vorrei sbagliarmi ma presenta una cornice narrativa che non ricordavo – quella del cantastorie e della ragazzina che raccontano la storia all’anziano orso nella caverna.

Per il resto la storia è nota, il re Orso Leonzio perde suo figlio Antonio (il principe Orso). Per ritrovarlo si troverà ad interagire con gli umani, una razza infida e malevola, non certo onesta come gli orsi. Tra avventure naïf e creature mitiche (ma senza abdicare alla critica sociale che già era di Buzzati) e con l’aiuto di voci di punta come Toni Servillo, Mattotti porta a casa il risultato realizzando il film animato italiano degli anni ‘10 – se la giocano questo e La gatta Cenerentola, per dire. Da recuperare. #recensioniflash

GHOSTBUSTERS: AFTERLIFE (Jason Reitman, 2021)

Come si poteva pensare di riallacciarsi ai primi due Ghostbusters cancellando in un colpo solo l’odiatissimo film del 2016 di Paul Feig (che per la cronaca a me era pure piaciuto)? Solo Jason Reitman (col babbo a produrre) poteva osare tanto. E la cosa bella è che i Ghostbusters originali hanno solo un cameo.

Mi spiego meglio. Reitman non ha giocato tutto sull’effetto nostalgia rimettendo in campo Venkman, Stantz, Spengler e Zeddemore (anche perché Harold Ramis è deceduto da mo’), ma è riuscito a fare un film nuovo, diverso, con un tot di agganci e di legami con gli originali ma con protagonisti “nuovi” (vabbè, la figlia e i nipoti di Spengler, che guarda caso muore in circostanze misteriose all’inizio del film).

Per il resto è una bella cavalcata tra cimeli anni ‘80, nuove sensibilità anni ‘20, vecchi ritornelli (il mastro di chiavi e il guardiano di porta) e antagonisti (Gozer il Gozeriano), un’ambientazione decisamente inedita. Ottimo come sempre Paul Rudd (non fa rimpiangere Rick Moranis) e bravi i giovani protagonisti. Dove il film secondo me si incarta un po’ è proprio quando arrivano gli attesissimi Ghostbusters quasi tutti in carne ed ossa. Lì l’equilibrio si spezza ed è tutto un po’ “ooh guarda come sono invecchiati, ooh Venkman fa le stesse battute” e niente, diventa fan service. Ma con la lacrimuccia. Scene post credits (due) totalmente inutili ma simpatiche. #recensioniflash

FREE GUY (Shawn Levy, 2021)

Vabbè, questo è un curioso cocktail di Matrix, Groundhog’s Day, They Live (gli occhiali), Truman Show, Bandersnatch, Tron, Lego Movie (è tutto meravigliosooo) e chi più ne ha più ne metta. Non è indigesto e non è nemmeno così stupido come sembra a prima vista – di certo è il film perfetto per “staccare”. Guy (Ryan Reynolds, sempre simpatico nonostante vorresti odiarlo) è un PNG – personaggio non giocante – di un videogame genere Grand Theft Auto dove si fan punti compiendo crimini qua e là.

Nel mondo reale invece ci sono Millie (Jodie Comer) e Keys (Joe Keery), i programmatori che hanno creato il gioco. O meglio, una prima build del gioco, poi rubata dal perfido Antwan (Taika Waititi, meravigliosamente stronzissimo) e nascosta tra le pieghe del suo MMO. Millie gioca come una pazza per trovare prove del furto di Antwan nel gioco, ma nel frattempo Guy – che sviluppa una sorta di libero arbitrio – si innamora di lei.

La scrittura e la regia (Shawn Levy) non offrono grandi sorprese ma il film soddisfa per i suoi effetti speciali “buttati là” come se niente fosse e per un paio di strizzate d’occhio Marvel/Lucas… per il resto è derivativo, ma almeno deriva dalle sorgenti giuste. #recensioniflash

ANTLERS (Scott Cooper, 2021)

Antlers (in italiano “Spirito insaziabile” LOL ma anche CRINGE) è una curiosa variazione ecologica sul tema del Wendigo, la mitica creatura delle storie di paura native americane. Una storia pesa perché c’entrano bambini abusati, storie acide di metanfetamine e porte sprangate con diversi lucchetti. La componente splatter mi è parsa eccellente e basata su effetti prostetici di buona qualità – per lo più cadaveri e/o parti di corpi mezzi mangiati. Il problema è che il Wendigo, come viene spiegato ad un certo punto, una volta che assaggia la carne umana va in modalità berserk e sono cazzi.

Tutto è intrecciato con la storia di una maestra che inizia ad indagare sulla vita del suo allievo Lucas, un bambino evidentemente traumatizzato e – pensa lei – abusato dal padre. Solo che non si tratta dell’abuso che pensa lei. La aiuta il fratello sceriffo Jesse Plemons, per me attore dell’anno 2021. Comunque, più che guardabile, anche se sul Wendigo Larry Fessenden aveva messo la parola fine già qualche anno fa. Ah, c’è di mezzo Guillermo Del Toro, solitamente garanzia di qualità. #recensioniflash

MATRIX RESURRECTIONS (Lana Wachowski, 2021)

E finalmente ho visto The Matrix Resurrections. Avevo un po’ paura. Molti dicevano “bah, occasione sprecata”, altri dicevano “troppo meta”, altri “troppo poco meta”, alcuni dicevano “combattimenti mosci” e poi insomma, ormai è fin troppo facile arrivare alla visione di un film con la testa già piena di (pre)giudizi negativi. Invece devo dire che io ho goduto abbastanza. Perché io ho un sentire comune con Lana Wachowski.
Al di là di Bound e della trilogia originale di Matrix, io ho amato alla follia anche creature imperfette come Speed Racer o Jupiter Ascending, per non parlare di capolavori come Cloud Atlas. E – pur con un certo ritardo – ho scoperto Sense 8, vera summa del wachowski-pensiero. E proprio da Sense 8 (che cede alcuni attori a Matrix Resurrections) vorrei partire. L’interesse di Lana Wachowski, alla fine, è “banalmente” l’amore. E Matrix Resurrections, con buona pace di tutti è un film d’amore. Un fottutissimo film su una storia d’amore oltre la morte, oltre le macchine, oltre il mindfuck. Se questa cosa non vi va giù, meglio non vederlo.
Poi certo, c’è tutto il sottotesto filosofico: “It is so much simpler to bury reality than it is to dispose of dreams”, è la citazione di Don De Lillo scritta nel cesso del cafè dove Thomas Anderson incontra l’elusiva Tiffany nel “nuovo” Matrix frutto della mente perversa dell’Analista (il nuovo Architetto, in pratica). Ma è un sottotesto con cui Lana Wachowski gioca perché deve, in modo a volte un po’ imbarazzante con continui insert dai film precedenti come a dire “Vedi? Questo è il nuovo agente Smith, tienilo a mente” (e comunque Jonathan Groff si mangia ogni scena dove appare e il combattimento tra lui e Keanu Reeves è una delle cose migliori del film).
Quindi sì, tutta la prima parte del film è un po’ una selvaggia presa per il culo delle convenzioni di hollywood, un’autosatira a grana a volte un po’ grossa. Poi improvvisamente siamo di nuovo con gli uomini liberi, con le macchine, i baccelli, Niobe (Jada Pinkett invecchiata fighissima), i tentativi di liberare Trinity, il braccio di ferro con l’Analista, la super battaglia finale… Tutto molto giusto e (qualcuno potrebbe dire) tutto molto compitino.
A me che c’ho 50 anni e che ho cominciato a leggere cyberpunk nel 1990 e che nel 1999 mi esaltavo per le avventure di Neo, The Matrix Resurrections è sembrato comunque affascinante pur con i suoi lati imperfetti. Sono invecchiati anche loro come me, nessuno di noi si prende troppo sul serio, ma quando c’è da rivivere certe storie e certi temi, ci mettiamo d’impegno.
Che altro posso dire… occhio a Christina Ricci, all’autocitazione di Rise Up dei RATM nella cover di Sophia Urista e soprattutto alla scena dopo i titoli di coda, che non aggiunge un cazzo ma è assolutamente geniale.

THE ETERNALS (Chloé Zhao, 2021)

Quando ero piccolo, per me non esisteva la Marvel. Esisteva solo l’Editoriale Corno, i cui fumetti divoravo ogni giorno. I miei preferiti erano quelli di Jack Kirby, di cui adoravo il lavoro su Kamandi e i Fantastici 4, e di Marv Wolfman, che con il suo penchant per i vampiri aveva dato vita a Dracula con Gene Colan e ovviamente a Blade. Inutile dire che uno dei miei “giornaletti” preferiti era Gli Eterni, in cui Kirby e Wolfman titaneggiavano con le serie dedicate agli Eterni e al supereroe Nova.
Flash forward al 2022. Ricordo vagamente Gli Eterni come una saga complessa e filosofica, e mi approccio al film di Chloé Zhao con curiosità: la regista di Nomadland in un film Marvel? Cosa potrebbe mai andare storto? Sulla carta, molte cose. Alla prova dei fatti, Eternals è un film-fiume di 157 minuti che – almeno per la mia sensibilità – non è per niente noioso. È certamente contemplativo, filosofico, a tratti verboso (ma ci sta), epico in un senso in cui nessuno dei precedenti 25 film Marvel è mai stato “epico”. Ma non noioso.
Scopro dopo averlo visto che il film è stato preventivamente stroncato perché – orrore – reo di non aver rispettato il materiale d’origine (ma che noia, cazzo) e soprattutto di aver inserito tra gli Eterni un gay di colore e sovrappeso, una ragazzina androgina, una sordomuta, due asiatici, un indiano e Angelina Jolie. Finalmente, direi.
Polemiche a parte, Zhao ha fatto un film equilibrista, in linea con le sue consuete scelte registiche pur nel solco della “tradizione Marvel”. Perciò sì, è un film che a tratti ha delle questioni irrisolte, lungaggini, scene d’azione potenti, ma che è destinato a lasciare l’amaro in bocca ai fan dei film spensierati e cazzoni ma anche ai duri e puri dell’autorialità. Per me Zhao ha fatto una scelta coraggiosa e Kevin Feige indica Eternals come il film chiave per la nuova fase MCU (il che mi fa pensare che andremo sempre più verso il lato cosmico della Marvel, e da piccolo kirbyano questo non può che farmi piacere).
La trama, dai che la sapete, in due parole gli Eterni sono una razza “super” creata dai Celestiali che viene mandata sui pianeti a difendere la popolazione locale dai Devianti (che in questo film purtroppo sono mostroni in CGI) e far evolvere la civiltà. Da piccolo non avevo capito che molti dei nomi degli Eterni erano divinità olimpiche o comunque personaggi della mitologia (Ikaris/Icaro, Thena/Atena, Phastos/Efesto, Makkari/Mercurio, Sersi/Cerere, etc). Poi però gli Eterni si comportano come una qualsiasi famiglia (molto) disfunzionale e lì sono cazzi amari. A scompaginare il tutto la notizia che dentro la terra c’è un Celestiale intrappolato che vorrebbe uscire (ma per uscire deve distruggere il pianeta).
Due o tre flash interessanti: l’uso di Time dei Pink Floyd all’inizio del film, L’arrivo di Harry Styles (!!) nella scena post-credits, la riproposizione della rivalità tra Jon Snow e Robb Stark (qui rispettivamente fidanzato umano e amore Eterno di Sersi). Ah, ovviamente le scene post credits sono due. Guardatele entrambe. #recensioniflash

THE HOUSE (Niki Lindroth von Bahr, Paloma Baeza, 2022)

Due parole su The House, il film animato a episodi uscito di recente su Netflix, per il quale scomoderei Jan Svankmajer, il mio regista ceco favorito. The House è un film unico perché protagonista è la stessa casa in tre storie differenti: una si svolge nel lontano passato, in un’atmosfera da favola dei fratelli Grimm; una nel presente, una in un futuro post-apocalisse climatica. Tutti e tre gli episodi sembrano usciti da un misto di Henry Selick + Twilight Zone + Creepshow + Edgar Allan Poe.
Non si può dire che sia esplicitamente un film horror, anche se ne ha tutte le caratteristiche. Il primo episodio racconta la genesi della casa in un tripudio di scricchiolii, zone buie, inquadrature sghembe, silenzi carichi di tensione e un character design fortemente disturbante. Il secondo episodio (il cui protagonista ha la voce di Jarvis Cocker, nientemeno) è un esempio di grottesco urbano che con la scusa dell’ironia e del nonsense racconta una storia di discesa nella follia abbastanza agghiacciante. Il terzo episodio, forse il più “debole” si abbandona alla malinconia dell’ignoto ma ha comunque dei momenti visivamente molto potenti.
Tutto il film è animato in stop motion, con tre diverse regie e tre diversi character design. Sulla trama non dirò nulla di più perché ogni episodio riesce a spiazzare con soluzioni e svolte inaspettate. Alla fine c’è una canzone di Jarvis Cocker (obbligatoria, direi). Ho scomodato Svankmajer perché il mood è quello, per chi avesse mai avuto il piacere e l’inquietudine di vedere i suoi cortometraggi. Se non lo avete avuto, abbiatelo ora. E poi guardate The House. #recensioniflash

THE CONJURING 2 / THE CONJURING: THE DEVIL MADE ME DO IT (Michael Chaves, 2021)

Negli ultimi giorni (notti, per la verità) ho costretto la Titti a immergersi con me nel Conjuring Universe, di cui avevo visto finora solo tre film su otto (vabbè, direte voi, non che sia una gran perdita). Eppure, va detto che The Conjuring 2 e The Conjuring 3: The Devil Made Me Do It hanno un loro perché nel mercato dell’horror degli ultimi 10 anni. La serie “ufficiale” (se lasciamo perdere gli spinoff di Annabelle, The Nun, La Llorona) è quella che gradisco di più, probabilmente per l’efficacia della coppia Patrick Wilson / Vera Farmiga nel ruolo di Ed e Lorraine Warren, gli investigatori del paranormale e dell’occulto nei gloriosi seventies.
Conjuring 2 è l’episodio più lungo ed epico della saga (basato sul caso famosissimo degli Enfield Poltergeist, ma con un accenno alla storia di Amityville, dove anche i Warren avevano messo lo zampino), non a caso – a quanto pare – il maggior incasso horror di tutti i tempi dopo L’Esorcista di Friedkin.
Conjuring 3 è più un legal thriller che un horror vero e proprio (è basato sul caso che non conoscevo di un omicidio il cui colpevole era posseduto da un demone – e su questo si basò la sua difesa) ma ha comunque i suoi spaventoni, le sue ragnatele, i suoi angoli bui, il suo villain inquietante. I Warren si amano TANTISSIMO e con la forza dell’amore sconfiggono satanisti, streghe, suore demoniache, tizi contorti e ghignanti e tutto l’armamentario spaventoso tipico degli horror anni ’70 aggiornati al gusto di oggi (che poi è un po’ il motivo per cui apprezzo la saga). Insomma, se amate il genere non sono da buttar via, non dei capolavori ma molto godibili.
Sui titoli di coda, come nel primo Conjuring, ci sono sempre le registrazioni originali dei Warren dei vari esorcismi praticati, che comunque un filo di angoscia te lo lasciano. La Titti li guarda con la coperta sugli occhi e poi alla fine vuole vedere “un episodio di Seinfeld” per stemperare l’orrore. #recensioniflash

SING 2 (Garth Jennings, 2021)

Per dirvi di Sing 2 di Garth Jennings parto da alcune domande e una premessa. La premessa è che a me i musical piacciono, i film animati pure, quindi di base non potrei dire (troppo) male della serie di Sing. La prima domanda è: quanto senso ha nel frenetico mondo dell’intrattenimento attuale lanciare un sequel CINQUE anni dopo il film originale? Tipo, i piccoli fan del film originale saranno, come dire, un po’ cresciuti? Ma vabbè. La seconda domanda è: va bene che un sequel secondo il canone commerciale deve sempre essere la stessa cosa dell’originale ma DIPPIU’ MOLTO DIPPIU’, ma non è parso all’ineffabile Jennings di aver messo forse troppa carne al fuoco? Mi spiego.
Gli adorabili animali antropomorfi che già conoscevamo, il koala Buster Moon, l’elefante Meena, la porcospina Ash, il gorilla Johnny, la maiala Rosita etc etc partono da dove eravamo rimasti (stanno in cartellone con una produzione di Alice in Wonderland che prevede un numero su Let’s Go Crazy di Prince: un ottimo inizio) ma non sembra abbastanza. Loro vogliono sfondare nella big city stile Las Vegas. E ci provano, con un musical fortemente ispirato a Barbarella creato dal maiale Gunther e prodotto da un lupo manager che poi è il supercattivo del film. Fino qui tutto bene, ognuno ha il suo numero musicale, ci sono tante canzoni, tanti colori, una cura del dettaglio abbastanza maniacale.
Tanta roba. Forse… troppa? Il problema di Sing 2 è che accumula talmente tanti numeri musicali che ti stordisce, la bellezza della theatricality di cui il film (come il suo predecessore) è intriso non riesci quasi a godertela, dovresti mettere in pausa ogni tot per vedere le scenografie ma non puoi perché è già finita e si passa ad un’altra superhit. E poi il macguffin del leone/Bono che son 15 anni che non canta più ma loro lo convincono a cantare di nuovo le canzoni degli U2 (gli U2 che hanno anche fatto un pezzo nuovo apposta per il film).
Non so, a me questa cosa di metterci in mezzo Bono (che peraltro recita in growl costante) mi è sembrata vagamente forzata, un po’ come quando la Apple aveva infilato di straforo in tutti gli iPhone del mondo l’album Songs of Innocence. Poi magari la forzatura ce la vedo solo io e in realtà Sing 2 è proprio un film diretto ai fan adulti del musical MA ANCHE ai fan degli U2, e quindi bon. Però mi è sembrato sì “più grande” del primo ma non “più bello”.
A parte Mrs. Crawley. C’è bisogno di più Mrs. Crawley per tutti. #recensioniflash

GRANDI FILM, GRANDI RESPONSABILITÀ

Vi appoggio qui, mentre è ancora festa, la raccolta delle rece di dicembre: un mese tutto sommato dominato – almeno in sala – dall’uscita del nuovo Spider-Film, che inaspettatamente ha richiamato grandi numeri pur con obbligo di FFP2, distanziamento, Green Pass potenziato e sticazzi. Cioè, forse potevano intitolarlo Spider-Man: Una nuova speranza… (Ba-dum! Tss…!). Vabbè ho fatto la battuta d’ordinanza, possiamo passare alla raccoltona, che in un certo senso in retrospettiva dice molto del mio avvicinamento al santo Natale.

REAZIONE A CATENA (Mario Bava, 1971)

Negli ultimi giorni, per celebrare il clima natalizio, in famiglia stiamo rivedendo (o vedendo per la prima volta, in alcuni casi) alcuni grandi classici di Mario Bava. L’altra sera è stata la volta di Reazione a catena (altrimenti noto come Ecologia del delitto, Bay of Blood per gli anglofoni, ma a me piace ricordare il geniale titolo di lavorazione “Così imparano a fare i cattivi”). Se poco poco amate gli slasher, i gialli e gli horror in generale riconoscerete, (ri)vedendo Reazione a catena che è del 1971 tutta una serie di “semi” che germoglieranno poi nell’horror americano di fine anni ’70 / inizio anni ’80 (Venerdì 13 e Halloween, soprattutto, vedi foto). Bava qui fa anche da operatore, con le sue soluzioni storte e psichedeliche (la sequenza dell’omicidio della vecchia contessa all’inizio del film, per dire). Sanguinoso come non mai, con le classiche musiche di Stelvio Cipriani, Reazione a catena è cattivissimo ma anche ricco di humor nero acidissimo (vedere ad esempio il colpo di scena finale da teatro dell’assurdo). Machete, arpioni, coltelli, corde e asce protagonisti assoluti, in una fiera dello splatter il cui testimone verrà raccolto pochi anni dopo da Argento e Fulci. Della trama, confesso, si capisce poco. Cioè: è una storia intricatissima di eredità, proprietà immobiliari e speculazione edilizia in cui tutti ammazzano tutti, ci vanno di mezzo anche quattro giovinastri e in cui sostanzialmente non si salva nessuno perché sono tutti irrimediabilmente stronzi. Il fatto è che a Bava probabilmente interessa poco, e noi ci distraiamo con gli effetti speciali (Rambaldi) e con le continue transizioni fuori fuoco / a fuoco. Comunque imprescindibile. #recensioniflash

CANI ARRABBIATI (Mario Bava, 1974)

Altro grande capolavoro di Mario Bava (perduto fino a pochi anni fa) che qui non si era colpevolmente mai visto è Cani arrabbiati (internazionalmente noto come Kidnapped), che tanta influenza ha evidentemente avuto su Tarantino ed epigoni vari. Qui siamo in territorio che – per essere Mario Bava – non mi aspettavo assolutamente. Parte da un genere caro all’Italia dei ’70 (il cosiddetto poliziottesco, pieno di centrali operative fantascientifiche e di Alfa Giulia verde oliva all’inseguimento pazzo) per sfociare in un thriller claustrofobico e nerissimo, tutto girato nell’abitacolo di una macchina (una Opel Rekord Caravan del ’74, tanto per farci stare dentro tutti, anche George Eastman che è una pertica). Senza speranza, violentissimo e sanguinoso, Cani arrabbiati è la storia di una gang di rapinatori che scappa da una rapina finita male. Gli hanno fatto fuori l’autista quindi sequestrano la macchina di un distinto signore che sta portando il figlio malato gravemente all’ospedale, intanto hanno anche una tizia in ostaggio (ne avevano due, ma una la sgozzano per sbaglio). C’è Don Backy nel ruolo di Bisturi, quello bravo col coltello. George Eastman nel ruolo di Trentadue (si scopre poi nel film perché si chiama così) e Maurice Poli nel ruolo del capo, il Dottore. L’autista estemporaneo è Riccardo Cucciolla. Il livello di tensione, violenza malata e brutalità è molto alto, tanto che oggi secondo me manco lo farebbero uscire, un film così. Ha avuto una storia produttiva comunque travagliatissima già allora (esistono tipo sei versioni diverse del finale, per dire). Su Amazon Prime (dove risiedono tutti i maggiori film di Bava) c’è comunque il finale quello figo con il plot twist che non ti aspetti. Geniale. #recensioniflash

THE POWER OF THE DOG (Jane Campion, 2021)

Allora, c’è il nuovo film di Jane Campion (è in sala oppure su Netflix) che è un capolavoro. Sicuramente nella lista dei migliori film dell’anno che – non temete – arriverà presto sulle vostre bacheche come un colpo di mannaja natalizio. Intanto c’è Benedict Cumberbatch che fa il cowboy cattivo, e già solo per questo avrei detto la magica frase “SHUT UP AND TAKE MY MONEY”. Ma in realtà poi io amo Jane Campion da almeno 30 anni, l’ho scoperta con Sweetie nell’89 e con lei ho cominciato la mia carriera di wannabe critico cinematografico su miriadi di fanzine universitarie italiane (figuratevi poi come sono finito bene a fare le #recensioniflash del menga su Facebook, LOL). Eppoi c’è un cast sottotono ma azzeccatissimo e molto interessante: Kirsten Dunst imbruttita e alcolista, Jesse Plemons nella parte del fratello buono e boccalone (Jesse Plemons per me è uno degli attori più sottoutilizzati di Hollywood, fatelo lavorare, perdio!) e soprattutto Kodi Smit-McPhee nella parte dell’inquietante figlio adolescente. E c’è questa cosa del western atipico. Cioè, è un western a tutti gli effetti (incrociato ad arte con il mélo più straziante che possiate immaginare). Quindi non è un western revisionista. Ma è un western crepuscolare, nel senso che si svolge nel 1925, esistono già le macchine, i piaceri lussuosi come la vasca da bagno con l’acqua calda, i vestiti da dandy. Lo scontro è per l’appunto tra George, il fratello buono e desideroso di vivere nel presente e Phil, il fratello apparentemente stronzo, attaccato alle tradizioni da cowboy di 100 anni prima, sempre lì a strimpellare un banjo che fa molto Deliverance, che vive nel ricordo di tal Bronco Henry che in passato ha insegnato loro tutto quanto fa il vero cowboy. Ma a George fottesega dell’etica del cowboy brutto sporco e cattivo, e vuole sposare la minuta e piacente vedova Rose, che si porta appresso un attrezzo di figlio nerd e spilungone che ovviamente viene accusato di frociaggine da Phil e dai suoi mandriani. Avrete già capito che si vira verso il melodramma queer, perché chi di frociaggine ferisce di frociaggine perisce, ma non mi addentro nei particolari. Diciamo che dal momento in cui moglie e figlio adottivo entrano nella vita di George, la famiglia diventa sempre più disfunzionale e i rapporti sempre più esercizi di crudeltà senza limiti. Ma il “potere del cane” (metafora biblica che sta ad indicare Satana, o comunque il male) alla fine sta dove meno te lo aspetti. Io l’ho trovato un film abbagliante, che ti lascia senza fiato con poco, che si prende tutto il tempo di raccontare una parabola agghiacciante e che ha uno dei suoi punti di forza nella performance degli attori (sì, anche di Kirsten “cagna maledetta” Dunst). Guardatelo, poi mi dite.

THE LAST DUEL (Ridley Scott, 2021)

Ciao carissimi, oggi è la volta di The Last Duel di Ridley Scott che in verità, in verità vi dico ho visto due o tre sere fa ma mi ha lasciato talmente interdetto che non sono riuscito a scriverne prima. Ovviamente i film brutti sono altri, per carità. E poi c’è sempre Adam Driver. E poi è una sceneggiatura di Matt Damon e Ben Affleck, dai. I due si ritagliano anche due ruoli importanti nel film. E poi che bella fotografia, e quei fiocchi di neve che volteggiano e baluginano e gli spadoni medievali, il sangue e le urla delle battaglie e tutto grigio grigio grigio e Notre Dame in costruzione aaah che bel vedere. E poi la costruzione narrativa alla Rashomon, con le “tre verità” intorno a un fattaccio, quella di Matt Damon, quella di Adam Driver e quella di Jodie Comer (che diciamolo subito è la migliore del gruppo, poi vi spiego). Con Ben Affleck a fare da contraltare malefico in tutte e tre le storie. Insomma, sulla carta fico, no? Eppure The Last Duel ha qualcosa di stonato. Due ore e mezza di film per raccontare l’amicizia poi rivalità tra Jean de Carrouges (Matt Damon), legnoso scudiero con un terrificante mullet nu-metal anni ’90 e Jacques Le Gris (Adam Driver), sinuoso scudiero con la capigliatura goth/piratesca di un Ian Astbury nel 1987. Il primo impalma la bella Lady Marguerite ma c’è una storia acida di doti, tasse, feudi, feudatari, valvassini e valvassori per cui insomma ad un certo punto Le Gris stupra Lady Marguerite e ovviamente i due scudieri non sono più amici, anzi, si affrontano in THE LAST DUEL. Last nel senso che è una storia vera ed è proprio l’ultimo duello all’ultimo sangue autorizzato in Francia. Ora, è chiaro che Affleck (che nel film interpreta il perfido CONTE PIERRE con capello e pizzetto biondo platino molto pop punk anni ’90) e Damon, aiutati anche da Nicole Holofcener che ha scritto la “parte femminile”, hanno voluto scrivere un film che affrontasse di petto le ORIGINI DEL PATRIARCATO. Solo che è tutto estremamente didascalico, della serie “vedete come trattavano le donne nel medioevo?” (e non si capisce se la risposta implicita debba essere “adesso va molto meglio” o “fondamentalmente adesso è uguale”: se dipende dallo spettatore, cioè da me, io propenderei per la seconda ipotesi). Cioè: ad un certo punto c’è il dialogo ultradidascalico che dice proprio qualcosa tipo “Hahaha ma lo stupro mica è un crimine contro la persona è un crimine contro la proprietà”. Nel procedere delle “tre verità” (quella di Lady Marguerite è l’unica “verità vera”, se non ce ne rendiamo conto da soli ci pensa la didascalia didascalica) scopriamo che tutti i maschi del film sono dei pezzi di merda chi per un motivo e chi per l’altro, ma scopriamo anche che il personaggio di Lady Marguerite è l’unico che salva il film, grazie all’interpretazione di Jodie Comer che lascia margine a un minimo di ambiguità e mistero. Per il resto, è proprio il caso di dirlo, un film a tesi tagliato con l’accetta. In sostanza, in questo film tematicamente parlando io ci vedo della buona volontà: però c’è qualcosa che stona, sulla quale non riesco a puntare bene il dito. Magari se anche voi l’avete visto mi sapete dire (al momento è disponibile su Disney+). #recensioniflash

È STATA LA MANO DI DIO (Paolo Sorrentino, 2021)

È stata la mano di Dio di Sorrentino: non so se arriverei a dire uuuh il capolavoro di Sorrentino. Perché Sorrentino (che io amo assai) ha fatto almeno due film che mi fanno venire l’orchite, lascio a voi indovinare quali, ma tutti gli altri per me sono eccelsi. Questo è… diverso. Che non vuol dire meno bello o più bello, è proprio un altro approccio, un’altra angolazione. Ho amato molto e con molta tenerezza il fatto che lui si sia messo in gioco così, sulla sua storia personale. Ho apprezzato molto che i cosiddetti “sorrentinismi” siano decisamente ridotti (in foto uno dei sorrentinismi più efficaci del film, la signora Luciana). A dire il vero già il film inizia con un paio di sorrentinate mica da ridere, poi però si assesta sulla descrizione agrodolce di una famiglia allargata non disfunzionale ma comunque peculiare con il protagonista Fabietto alter ego del regista (Filippo Scotti, bravissimo e secondo me anche somigliante a Sorrentino stesso), il padre (Toni Servillo), la madre un po’ lunare (Teresa Saponangelo), la zia bona e un po’ matta (Luisa Ranieri) e via dicendo. La prima parte del film si dipana tra una strizzata d’occhio a un certo Fellini (di cui si sente anche la voce) e situazioni che in linea di massima non abbiamo mai molto visto nei film di Sorrentino (nella prima metà si ride, diciamo così per semplificare). Poi accade il fattaccio e nella seconda metà non si ride più. O meglio si ride ancora (epocali le scene della faccia d’o’cazz o della superfessa) ma solo per esorcizzare il dolore e le lacrime: tutto il discorso vira sul metacinematografico e su come trasformare il dolore in arte. Per questo È stata la mano di Dio dà l’impressione di essere due film in uno: ma “non ti disunire”, come dice Antonio Capuano a Fabietto verso la fine. E il film stesso “si tiene”. Mi ha fatto piacere questo ritorno a Napoli (che non si vedeva dai tempi de L’uomo in più”). Il film si conclude con l’unica canzone possibile: prima di quella non sentiamo mai cosa c’è nelle cuffiette del walkman di Fabietto. E l’ultima sorrentinata ha luogo alla stazione di Sessa Aurunca, un non-luogo tra Napoli e Roma da cui sono passato moltissime volte da adolescente, e anche questo mi ha colpito assai, anche se non ve ne potrà fregare di meno. Comunque, è ancora in sala ed è pure su Netflix, io direi che vale la pena. #recensioniflash

THE FRENCH DISPATCH (Wes Anderson, 2021)

Com’è come non è, l’altro giorno mi dirigo col mio amico Lorenzo a recuperare The French Dispatch prima che lo facciano sparire dalle sale del regno. Non si trova più in V.O. e vabbè, poco male. In foto c’è la mia inquadratura preferita del film (sta più o meno all’inizio). Cita una famosa sequenza di Mon Oncle di Tati mentre la voce fuori campo parla e parla di questo giornale (The French Dispatch, appunto), e del suo editore (Bill Murray). Il film, ma lo sapete già, è una collezione di cortometraggi molto wesandersoniani che dovrebbero rappresentare altrettanti articoli dell’ultimo numero della rivista in un curioso tentativo di connubio tra giornalismo e cinema (e anche un po’ metacinema). La sequenza con Owen Wilson infatti richiama tantissimo Tati, quella con Timothée Chalamet è molto Godard, e via inquadrando. Nel film c’è una valanga di attoroni, alcuni dei quali in brevi cameo, che assicurano che tutto sia ben fatto, ben recitato, ben inquadrato. Il problema con The French Dispatch è che è una collezione fighissima di potenziali sfondi per il mio desktop o per il mio smartphone, ma non è un film che coinvolge altro che l’occhio. Il santo Graal del film wesandersoniano perfetto, lo stesso Wes Anderson l’ha trovato giusto due o tre volte (I Tenenbaum, Steve Zissou, Moonrise Kingdom): film dove ti importava dei protagonisti, oltre a godere delle inquadrature perfettamente simmetriche, dell’accumulo di oggetti, dell’ossessività dei colori pastello, dei movimenti millimetrici e dei set a orologeria. The French Dispatch, un po’ come Grand Budapest Hotel, per me è un film da domenica pomeriggio. Nel senso che devi essere perfettamente riposato per vederlo senza ad un certo punto assopirti. E ve lo dice uno che adora le inquadrature perfettamente simmetriche, l’accumulo di oggetti, l’ossessività dei colori pastello, i movimenti millimetrici e i set a orologeria. Detto ciò, vado a scaricarmi qualche immagine per i miei sfondi. #recensioniflash

RON’S GONE WRONG (Sarah Smith, JP Vine, 2021)

Spinto dalla Creatura che lo voleva fortissimamente, abbiamo visto Ron’s Gone Wrong, che sta da poco su Disney+ ed è un fulgidissimo esempio di come anche nella vecchia Inghilterra sappiano fare i film animati ad alto livello quando vogliono. La storia è quella che ormai appartiene ad un preciso sottogenere di film animato che annovera tra i suoi esempi Ralph Spacca Internet, Next Gen, Emoji Movie, I Mitchell contro le Macchine. Il sottogenere “spieghiamo le big tech ai bambini strizzando l’occhio agli adulti e facendo vedere che internet e i device sono il male ma poi in fondo sono anche il bene”. Qui però la coppia di protagonisti, lo sfigatello Barney (Jack Dylan Grazer) e il robot difettoso Rob (Zach Galifianakis, tanto amore) è di quelle che funzionano alla grande. Tutte le parti del film che ruotano intorno al loro rapporto sono vere, coinvolgenti, mai stucchevoli (anche il finale, è un finale che non ti aspetti e infatti la Creatura l’ha gradito poco). Comunque, in due parole: Barney soffre perché è l’unico bambino della sua scuola a non avere un B-Bot, un device che sta a metà tra un Facebook che prende le decisioni al posto tuo, un hoverboard senziente e Baymax di Big Hero Six. Quando il padre e la nonna gliene regalano uno di seconda mano si scopre che è fallato e “non ha il codice giusto”. Seguono bizzarre avventure e rocambolesche fughe. Per il resto c’è tutto un contorno di compagni di scuola delle medie che sembrano usciti da un episodio di Black Mirror, una famiglia di origini bulgare che da un lato è la fiera dello stereotipo dall’altro aggiunge follia a un film già bizzarro, e ovviamente i tecnocrati (quello buono e quello cattivo) che vivono per i keynote, guardano ai profitti, ai dati personali degli utenti, agli algoritmi e alle vendite. Tolto tutto il folklore tecnologico, Ron’s Gone Wrong è un film sulla difficoltà di relazionarsi che i preadolescenti possono sperimentare, un saggio animato su “la maschera e il volto”. Certo, va bene per un pubblico più giovane. Se avete un dodici-tredicenne in casa, sulle stesse tematiche meglio il mai troppo celebrato Eight Grade di Bo Burnham. #recensioniflash

LA VETTA DEGLI DEI (Patrick Imbert, 2021)

Una cosa bellissima che potete guardare è il film La vetta degli dei su Netflix. Premetto, io ho una paura fottuta di tutto ciò che riguarda la montagna, l’alpinismo, l’arrampicata, le valanghe, etc. Quando ero piccolo diverse persone che conoscevo sono morte in montagna e ancora oggi non posso vedere film tipo 127 ore o Alive – Sopravvissuti e simili. Però riconosco un bel film (anche se doloroso) quando lo vedo. Tratto da una delle opere più recenti di Jiro Taniguchi (a sua volta tratta da un romanzo), La vetta degli dei non è propriamente un anime. Si svolge in Giappone (e più che altro in Nepal sull’Himalaya) con personaggi giapponesi, ma è in tutto e per tutto un film francese, di Patrick Imbert. Quindi un curioso ibrido tra animazione asiatica ed europea, con una storia intrigante a metà tra il documentario e la fiction, un sacco di ossessione per la montagna e per il superamento del limite e parecchie sequenze di scalata impressionanti. La storia è quella di un reporter che cerca la fotocamera dei primi scalatori dell’Everest scomparsi nel nulla negli anni ’20. Pare che la fotocamera ce l’abbia un famoso alpinista giapponese che però ha fatto perdere le sue tracce… Seguono investigazioni, scalate, flashback, scalate, momenti di contemplazione delle montagne, scalate, gente che muore, scalate, valanghe, ipotermia e hybris. Uno dei migliori film animati dell’anno, sicuramente. #recensioniflash

THE CARD COUNTER (Paul Schrader, 2021)

Ora, amici, vi dico perché The Card Counter è uno dei migliori film del 2021. Intanto perché è un film di Paul Schrader e voi ed io sappiamo che ogni film di Paul Schrader che esce è automaticamente nella top ten dei film dell’anno in cui è uscito. Poi perché è un noir bellissimo e atipico, tutto in sottrazione, il che non è facile per un film che ha le sue basi nello scandalo delle torture del carcere di Abu Ghraib. Poi anche perché probabilmente è il ruolo migliore mai interpretato da Oscar Isaac, nel ruolo del protagonista William Tell (haha ma non è il suo vero nome) che non è un collezionista di carte come dice il fuorviante titolo italiano ma “uno che conta le carte”, quindi uno che ha “il metodo” per vincere nei casinò. Comunque sia, lui lo vediamo che fa quello di mestiere ma vola basso e vince poco e spesso, per non farsi sgamare. Un bel giorno incontra La Linda (Tiffany Haddish) che è una sorta di scopritrice di giocatori di poker che lo assolda per fare i tornei. Lui accetta ma solo perché la sera prima ha incontrato Cirk (Tye Sheridan, il bietolone di Ready Player One che qui invece è figo e tormentato) che gli fa una misteriosa e inquietante proposta che rimesta le acque torbide del suo passato (suo di William), e lui rimane colpito da questa proposta ma in un modo un po’ strano, come se volesse quasi prendersi cura di questo ragazzo, e infatti accetta di giocare per vincere soldi per lui. William peraltro è uno che dorme solo in motel scrausi e prima di dormire toglie tutti i quadri e impacchetta metodicamente tutti i mobili in lenzuola bianche che si porta dietro per l’occasione, tanto per aggiungere mistero al mistero. Guardi un film così ed è impossibile non pensare alla follia di Taxi Driver. Poi pensi “adesso esplode la follia” e poi niente, non esplode mai. Allora pensi “dai è un bel film anche senza mazzate” e lì la mazzata arriva quando meno te lo aspetti, magari fuori campo, che ti sembra che ti arrivi di meno e invece arriva comunque. Occhio alla sequenza dei titoli di coda giocata su un’unica inquadratura che quantomeno offre uno spiraglio di redenzione. Azzardo un flash in due parole: un film squallidamente ipnotico. #recensioniflash

ENCANTO (Byron Howard e Jared Bush, 2021)

Mentre siamo ancora qui che ce la meniamo, due parole su Encanto, da oggi su Disney+. Vabbè, allora, visione pressoché obbligata e comunque, dato che per Natale ci siamo regalati un televisore nuovo eravamo lì a dire ooh aah come si vede bene come si sente bene. A parte il folclore di CasaIzzo, è ovviamente un film tecnicamente ineccepibile, che porta al limite estremo del sopportabile i musical di Lin-Manuel Miranda che secondo me (qui lo dico anche se può risultare impopolare) meglio farebbe a tornare alla sua antica passione, l’hip hop, invece di propinarci costantemente salsa, cumbia, ritmi latini e va bene che sei immigrant e you get the job done, ma hai anche un po’ rotto il cazzo. Detto ciò, è indubbio che le canzoni del film, specie in originale, hanno quella qualità per cui ti si appiccicano in testa e non ti lasciano più e la cosa bella è che tutti i numeri da musical (non tantissimi) sono messi in scena con la tipica follia Disney al cubo (tipo: La bella e la bestia + Alladin + Le follie dell’imperatore ma con un reparto tecnico spettacolare, decisamente sopra la media). Comunque Encanto è la storia tutta colombiana di una famiglia che ha ricevuto in dono una magia alla morte del nonno e da lì in poi vive in una casa magica e tutti sono magici in qualche modo tranne Mirabel che non sa fare un cazzo. Ovviamente poi invece sarà lei a salvare la situazione quando la casa e la famiglia stessa saranno in pericolo. La storia è esile, i personaggi tanti (e io già non ci capivo nulla perché poi parlano e cantano velocissimi e mi fanno vorticare le balle a colpi di cumbia, vallenato e merengue) ma non hai tempo di annoiarti, perché effettivamente è come assistere ad uno spettacolo di fuochi d’artificio dove ogni inquadratura ti lascia senza fiato (o forse è il televisore nuovo, chissà). Comunque sia, io che son vecchio ho pensato tutto il tempo a Saludos Amigos e ai Tre Caballeros e a quanto è cambiato il rapporto della Disney con l’America Latina. Però tutto sommato è un film veramente con poca sostanza, con l’unico messaggio di “quando sei sotto pressione non cercare la perfezione ma stai scialla che va bene uguale” e con il blando richiamo a Garcìa Marquez delle farfalle gialle nel finale. #recensioniflash

SPIDER-MAN: NO WAY HOME (Jon Watts, 2021)

Che posso dire di Spider-Man: No Way Home? Che la baracconata (intesa in senso positivo come “attrazione cinematografica da luna park”) funziona e funziona anche bene. Si recupera quel senso di meraviglia che era proprio dei primi film di Raimi abbinandolo allo Spidey che più di ogni altro ha funzionato (questo di Tom Holland, che con buona pace di Maguire e Garfield è la faccia giusta per Peter Parker). L’idea del multiverso già pompata in Into the Spiderverse e richiamata a più non posso nell’ultimo anno da WandaVision, Loki, What If (nonché protagonista assoluta del prossimo Dr. Strange, guarda caso di Raimi) è sfruttata appieno con tutte le apparizioni del caso. Le scene di combattimento funzionano bene (ottima quella tra Spider-Man e Strange), gli approfondimenti e lo spessore dato al Parker di Holland anche. I comprimari di gran lusso servono a far crescere sempre più la figura eroica di questo giovane Spider-Man che finalmente, al terzo film, è diventato il supertizio che tutti conosciamo dai fumetti. Ci arriva tardi ma ci arriva. Il resto è fan service servito in maniera impeccabile, con le battutine, gli easter egg, le strizzate d’occhio e via così. L’ultima scena tra Peter, MJ e Ned è di una bellezza e una melanconia infinita, nemmeno Tobey Maguire riusciva ad essere così cane bastonato. Menzione speciale per i bellissimi titoli di coda con “Three is a magic number” dei De La Soul (LOL) e – parlando di pezzi iconici – chapeau per “I Zimbra” dei Talking Heads nella sequenza iniziale. Non so se vale ancora lo spoiler (ho resistito almeno 15 giorni senza leggere nulla su questo film, anche se immaginavo tranquillamente tutte le sorprese positive e negative della storia), comunque nel caso se ne discute nei commenti. #recensioniflash

BELFAST (Kenneth Branagh, 2021)

Confesso alla Universal e a voi fratelli che ho molto peccato perché ho visto il film dell’anno con metodi non propriamente legali, ma – a mia discolpa – mi è capitato sotto gli occhi e non ho potuto fare a meno di cliccare play. Domani, dopodomani al massimo, esce il mio personale listone dei film dell’anno, e stavolta ho deciso di farvi uno spoilerone grosso così: al primo posto ci sarà questo film (che in Italia temo uscirà tra un paio di mesi), di cui però voglio parlarvi un po’ più diffusamente oggi. Il film è Belfast, il regista è Kenneth Branagh. Sì lo so, pazzesco, vero? Belfast non è il solito film di Branagh (diverso nello stile, nella storia, nei contenuti) ma alla fine è 100% un film di Branagh (cinematico ma teatrale, con una grandissima attenzione ai personaggi e alla direzione degli attori). Belfast è un film autobiografico, che racconta il 1969 dell’inizio dei troubles nell’Irlanda del nord dal punto di vista di Buddy (Jude Hill), un bambino di 9 anni che è Branagh stesso. Branagh, come Buddy, è originario di Belfast ma – proprio come il piccolo protagonista del film – è costretto a trasferirsi in Inghilterra a causa delle tensioni tra protestanti e cattolici. Questa la premessa. Incorniciato da alcune inquadrature silenziose a colori di viste della Belfast odierna, il film passa al bianco e nero scavalcando il muro di un quartiere e inizia la rievocazione della memoria, tra giochi di bambini e bottiglie molotov, esplosioni di violenza e prime cotte, cattolici e protestanti, fumetti Marvel e televisione, litigi dei genitori e nonni che danno consigli bizzarri, piccoli furti al supermercato e l’esperienza della morte, giorni di scuola e pomeriggi al cinema o a teatro (i film che il piccolo Buddy guarda, “Un milione di anni fa” e “Chitty Chitty Bang Bang” sono le uniche cose a colori di Belfast, una scelta un po’ naif ma che si sposa bene con il punto di vista infantile). Buddy è sempre il centro della narrazione, le inquadrature sono quasi sempre basse, ad altezza bambino, dove lui non è in campo si scopre che è nascosto da qualche parte, in un angolo dell’inquadratura o ai margini del campo perché tutto è filtrato dal suo sguardo, dalla sua sensibilità. Eccezionali i genitori (Caitriona Balfe e Jamie Dornan) che sembrano usciti da un vecchio film di Truffaut e ancor più i nonni (Ciaran Hinds e Judi Dench, cui è riservato l’intenso primo piano finale) che rappresentano lo spirito e la saggezza dell’Irlanda che fu. Mi rendo conto che dalle mie parole esce fuori l’idea di un film tutto sommato moscetto, ma non è così. Belfast ti tiene incollato allo schermo per il mix di storia personale e Storia che si riversa nelle inquadrature tramite schermi televisivi, radio o direttamente barricate, filo spinato, spranghe che entrano a far parte della quotidianità. Quando esce, insomma, non perdetelo. Io lo andrò a rivedere in sala. #recensioniflash
EDIT: Ho dimenticato di parlarvi della colonna sonora IMMENSA costituita da tutti pezzi stratosferici di Van Morrison che praticamente si comporta come un personaggio a sé (ogni canzone parte nel momento giusto e commenta nel modo più giusto possibile l’azione) e lo so che detta così sembra un videoclippone, ma Van Morrison, capite…?!?

Il 2021 IN 15 FILM

Ciao, eccoci qua. Siamo alla summa theologica, il listone più importante dell’anno, quello dei 15 film che hanno segnato il 2021. Perché 15. Perché ho il cuore troppo maledettamente soffice per selezionare solo 10 film, e allo stesso tempo – per quanto vorrei dirvene 20 – la cosa diventerebbe un po’ lunghetta. Ho atteso fino all’ultimo per vedere se qualche uscita natalizia entrava in lista, ma alla fine direi di no, e quindi possiamo incominciare senza meno. Poi siccome non ce la faccio, alla fine vi dico delle robe in più così, sciuè sciuè.

Belfast (Kenneth Branagh)

Ve l’avevo detto, questo è il film capolavoro di Branagh e per quanto mi riguarda il miglior film dell’anno. Da noi esce il 22 gennaio epperò vi consiglio nel modo più assoluto di vederlo in lingua originale. In bianco e nero, racconta l’infanzia del regista a Belfast al tempo dei primi troubles tra cattolici e protestanti. Una meraviglia.

The Card Counter (Paul Schrader)

L’ultimo film di Paul Schrader è un noir stilizzato, basato come Taxi Driver sulla storia di un reduce e nello specifico sullo scandalo di Abu Ghraib. La progressione geometrica della storia tra i tre personaggi principali e le esplosioni di violenza sempre fuori campo lo rendono veramente un trattato cinematografico su come si costruisce un thriller nel 2021.

Power of the Dog (Jane Campion)

Il potere del cane è una metafora biblica che indica il male – e la tentazione del male – che all’inizio del film sembra essere tutto dalla parte del personaggio di Benedict Cumberbatch mentre invece più andiamo avanti in questo western atipico e più capiamo che il male sta tutto da un’altra parte. Sorprendente.

Last night in Soho (Edgar Wright)

Edgar Wright ci aveva abituato a un talento visionario, ironico e molto frammentato. Il suo nuovo film è diverso, più serio, ma non rinuncia allo stile e alle evoluzioni della macchina da presa. Un thriller psichedelico che guarda agli anni ’60 per leggere il presente con un cast azzeccatissimo.

Promising Young Woman (Emerald Fennell)

Promising Young Woman è uno dei due film in questa lista girati da registe donne esordienti. Emerald Fennell – aiutata qui dalla performance stupefacente di Carey Mulligan – propone un thriller femminista ironico ma durissimo e senza troppe speranze. Uno dei film più scioccanti dell’anno.

The Velvet Underground (Todd Haynes)

Il documentario di Todd Haynes sui Velvet Underground è una delle vette del film musicale del 2021. L’altra vetta ovviamente è il documentario sui Beatles di Peter Jackson che sta nella lista delle migliori serie TV dell’anno. The Velvet Underground propone un focus non tanto sulla storia del gruppo quanto sulla sua genesi e sul clima culturale che l’ha favorita. Affascinante e coinvolgente.

Luca (Enrico Casarosa)

Luca è la Pixar al suo meglio da molti anni a questa parte: una storia semplice, un’amicizia tra due bambini (che però sono anche due mostri marini) senza tutti i livelli di senso che i film animati dell’ultimo decennio ci hanno abituato a sovrapporre. Un capolavoro di poesia e di tecnica che guarda più a Miyazaki che a Disney.

The Suicide Squad (James Gunn)

The Suicide Squad è semplicemente il film definitivo sui supereroi: il cinecomic così come dovrebbe essere. Adulto, sporco, cattivo, senza la serietà di Watchmen, ma non insipido come il 99% delle produzioni Marvel. Ogni personaggio e iconico, ogni scena fa saltare sulla sedia, ogni soluzione registica è un grosso “cosa cazzo”. Per me è geniale.

Malignant (James Wan)

Malignant è la riproposizione a cura di James Wan dei gialli italiani anni ’70 aggiornati al 2021 e – forse – è il miglior horror dell’anno. Echi di Dario Argento e Brian De Palma risuonano in ogni inquadratura. Si vede lontano un miglio che il regista si è divertito un mondo a farlo, e tanto basta.

The Mitchells vs. The Machines (Michael Rianda)

I Mitchell contro le macchine, un po’ come Spider-Man: Into the SpiderVerse, è una festa di diversi stili di animazione diretta da un regista che proviene da Gravity Falls, una delle serie chiave degli anni 2000. Se la storia può sembrare convenzionale, il racconto è sorprendente e ricco di spunti di follia. Cane, maiale, pane in cassetta.

Freaks Out (Gabriele Mainetti)

Il film di Gabriele Mainetti è l’unico italiano della lista anche perché – effettivamente – è l’unico film italiano che ha osato veramente molto nel 2021. Un fantasy che mescola neorealismo e cinema di genere, freaks e nazisti, partigiani e magia, con una storia produttiva ricca di colpi di scena. Una festa per gli occhi.

Titane (Julia Ducournau)

Al di là dei premi vinti, Titane è un thriller/horror molto atipico che riserva più di una sorpresa. Julia Ducournau si conferma un talento di razza nel saper gestire storie al limite e nel saper dosare tensione, disgusto, scene splatter e tesi politiche. Titane è il body horror aggiornato agli anni ’20.

Nomadland (Chloé Zhao)

Nomadland è stato il primo film che ho visto in sala dopo un periodo di lockdown duro. Forse questo influenza il mio giudizio. Lo ritengo uno dei migliori film dell’anno per il suo mescolare fiction e documentario seguendo la figura della protagonista (una perfetta Frances McDormand) silenziosamente, quasi di lato, testimoniando un tipo di vita che non conosciamo e facciamo fatica a comprendere.

Censor (Prano Bailey-Bond)

La protagonista di Censor, film d’esordio di Prano Bailey-Bond, è appunto un’impiegata dell’ufficio censura britannico impegnata a tagliare le scene più splatter dei cosiddetti video nasties negli anni ’80. Ovviamente tra le pieghe dell’orrore meta-cinematografico arriva l’orrore vero, a base di traumi infantili e misteri mai risolti. Un horror rigoroso, da vedere assolutamente.

Cry Macho (Clint Eastwood)

L’ultimo film di Clint Eastwood non è mai l’ultimo film di Clint Eastwood. A 92 anni il vecchio cowboy è ancora in lizza per passare il testimone a un giovane messicano che deve essere riportato a casa e nello stesso tempo fatto diventare uomo. Un film che offre una prospettiva inedita sul tema del maschio e dei rapporti tra vecchie e nuove generazioni.

BONUS TRACKS

I film bellini che non ce l’hanno fatta (a entrare in questa lista, dico): È stata la mano di Dio, Dune, Spider-Man: No Way Home, Nobody, Summer of Soul, Pig.

Le mezze delusioni (ma qui ero io che mi aspettavo troppo): The French Dispatch, The Last Duel, Shang Chi and the Legend of the Ten Rings, Prisoners of the Ghostland.

Le occasioni perse (nel senso che me li sono persi, porcoddue): Madres Parallelas, Ghostbusters Legacy, Diabolik, Eternals, Petite maman.

I più attesi del 2022: Licorice Pizza, The Tragedy of Macbeth, Doctor Strange in the Multiverse of Madness, Matrix Resurrections, The Northman, Turning Red, Spider-Man: Across the Spider-Verse.