ROAD HOUSE: GUILTY PLEASURE DEPOTENZIATO

Va detto che il primo Road House (quello con Patrick Swayze) era già un bel filmazzo guilty pleasure di quelli che andavano visti schiamazzando mentre il buttafuori Dalton faceva robe esageratissime anni ’80, tipo ad esempio strappare la carotide a mani nude a uno dei cattivi. 

Questo nuovo Road House che trovate su Prime Video (direttamente lì, è un peccato e dopo vi dico perché) ha come frecce al suo arco essenzialmente la stessa sceneggiatura e lo stesso produttore (Joel Silver) ma un diverso Dalton (Jake Gyllenhaal al massimo della sua pompatura) e Doug Liman, che si diverte un casino a fare la handshake camera intorno ai pestaggi.

Allora, il nuovo Road House è comunque un film di pestaggi senza se e senza ma, ed è anche divertente, ha qualche battuta simpatica e ha in più un coccodrillo burlone. E Jake Gyllenhaal ha il carisma giusto da cagnolino bagnato che si trasforma in bestia sanguinaria. Però.

Laddove il primo Road House era semplicemente (come dicono gli ammerigani) OUTRAGEOUS anche per le varie scene di sesso e splatter un po’ gratuiti in un film che è essenzialmente un western moderno (qui ci tengono a dichiararlo almeno 11 o 12 volte nel corso del film), questo di Doug Liman sembra un po’ “anestetizzato”. Cioè, per esempio, quando ti aspetti la scena di sesso, o almeno un limone duro, Gyllenhaal si tira indietro dicendo “no… you don’t want to know me”, O comunque, generalmente, c’è un tasso di sangue minore rispetto al predecessore.

Di ossa rotte però ce ne sono parecchie. Le risse sembrano fighe, ma questo fatto di volteggiare intorno alle mazzate non fa capire benissimo i combattimenti. Comunque, la storia la sapete, e ci sono anche un paio di apparizioni fighe, tipo Post Malone all’inizio, nel ruolo del supercampione di lotta di strada che appena vede arrivare Dalton sul ring dice “col cazzo” e sparisce (ottima presentazione di Dalton senza nemmeno farlo combattere) e ovviamente il pazzo irlandese pompatissimo che gli scagliano contro nella seconda metà del film, che è un po’ il boss finale e se non ho capito male è letteralmente un campione UFC (Conor McGregor).

Ecco, quando entra in scena l’irlandese pazzo diventa chiaro che Road House non è tanto un western, quanto un cartone dei Looney Tunes, dove tutti si spezzano le ossa e si fanno esplodere ma tanto poi nella scena dopo sono di nuovo lì, al massimo ingessati (a parte il tizio del coccodrillo). Quindi, insomma, è anche divertente, ma preferivo il primo.

Ah, secondo me avrebbe meritato distribuzione in sala, perché film così vanno visti in compagnia schiamazzando e tirando i popcorn allo schermo. Sul divano di casa fa un po’ strano.

ANATOMY OF A FALL: TRA HITCHCOCK E TRUFFAUT

Uscito anche su Mubi da pochissimo, Anatomy of a Fall è un film di quelli che – magari inaspettatamente – finiscono per ossessionarti. Un dramma processuale francese di due ore e mezza? Naa, mi dicevo

E invece Justine Triet (che col marito Arthur Harari ha anche vinto l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale, oltre che la Palma d’Oro a Cannes), riesce a tenerti inchiodato grazie a un modo di raccontare la storia per accumulo di dettagli e suggestioni, e uno stile registico quasi dimesso, con camera a mano, spesso incollato al volto dei personaggi o dietro la loro nuca.

Sandra (Sandra Hüller) è una scrittrice tedesca di successo, che vive col marito francese Samuel in una baita vicino a Grenoble. Hanno un figlio quasi completamente cieco, Daniel (Milo Machado Graner, inspiegabilmente escluso dalla cinquina degli Oscar come miglior attore non protagonista, sinceramente la miglior performance vista da un attore bambino negli ultimi 10 anni).

Samuel cade dalla soffitta e muore, viene trovato dal figlio e viene denunciato l’incidente. Ma si è trattato veramente di un incidente? Il ragionevole dubbio c’è, e Sandra viene incriminata. Comincia un processo in cui la verità è estremamente difficile da portare a galla, e in cui la figura di Sandra e il suo matrimonio con Samuel vengono vivisezionati sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di Daniel, che oltretutto è uno dei testimoni chiave del processo.

Sandra è una donna assertiva, bisessuale, la metà “dominante” della coppia, non la tipica donna della porta accanto, e perciò viene messa in croce dal pubblico ministero. Emergono litigi, bassezze, zone di luce e di ombra di lei e del marito morto. Alla fine sta alla corte (e prima ancora al piccolo Daniel) decidere sulla colpevolezza o meno di Sandra in assenza di prove decisive.

Quando non si può stabilire il “come”, dice Daniel, forse è meglio provare a stabilire il “perché”. Un film destabilizzante e molto coinvolgente, a Truffaut e Hitchcock sarebbe piaciuto.

IO CAPITANO, REALISMO E VISIONI

Garrone sintetizza in questo film il suo realismo e la sua visionarietà consegnandoci un’opera di cinema “puro”, una storia di migranti costruita come un film d’avventura “di una volta”, una serie di facce e di luoghi indimenticabili. Un film costruito sui primissimi piani, sempre addosso al protagonista Seydou (Seydou Sarr) e al cugino Moussa (Moustapha Fall), e sui campi lunghissimi sulle strade del Senegal, nel deserto del Sahara, a Tripoli, sul Mediterraneo.

Io Capitano è tutto recitato in francese e in wolof, si percepisce che nella sceneggiatura ci sono le voci di persone vere che hanno affrontato quel viaggio e quelle difficoltà per davvero, e c’è la scelta bellissima di parlare non tanto di migranti per cause di guerra o di povertà, ma di migranti “aspirazionali”. Seydou e Moussa vorrebbero sfondare in Europa come rapper. Il tipo di migrazione che anche noi italiani intraprendevamo quando a inizio ‘900 andavamo nelle americhe.

Ovviamente il viaggio non è come pensavano, e ai primi compagni di viaggio lasciati morire tra le dune, il terrore comincia a segnare i volti dei due ragazzi, che al confine libico vengono anche separati. Garrone ci fa appassionare alle loro vicende senza risparmiarci nulla anche delle torture nelle carceri libiche, il sangue, le ferite, i morti, tutto quello che l’occidente fa finta di non sapere.

Gli squarci di visionarietà, come la donna volante del manifesto, la fontana nella villa da Mille e una Notte, la piattaforma petrolifera che sembra un regno fiabesco in mezzo al mare, il ritrovamento tra i due cugini punteggiano il film rendendolo un’esperienza veramente coinvolgente. Il film si conclude quando la nave con i ragazzi a bordo arriva in Sicilia, con le lacrime di gioia di Seydou. Ovviamente noi italiani sappiamo che c’è ben poco da ridere e che da lì comincerà per gli sbarcati l’ennesimo calvario.

Ma Garrone decide di interrompere qua, in pratica ribaltando il punto di vista e facendo vedere allo spettatore occidentale quello che lui non può vivere in prima persona. Sarebbe bello se un film così smuovesse coscienze. Non lo farà, ma io sono contento di averlo visto.