Il 2021 IN 15 FILM

Ciao, eccoci qua. Siamo alla summa theologica, il listone più importante dell’anno, quello dei 15 film che hanno segnato il 2021. Perché 15. Perché ho il cuore troppo maledettamente soffice per selezionare solo 10 film, e allo stesso tempo – per quanto vorrei dirvene 20 – la cosa diventerebbe un po’ lunghetta. Ho atteso fino all’ultimo per vedere se qualche uscita natalizia entrava in lista, ma alla fine direi di no, e quindi possiamo incominciare senza meno. Poi siccome non ce la faccio, alla fine vi dico delle robe in più così, sciuè sciuè.

Belfast (Kenneth Branagh)

Ve l’avevo detto, questo è il film capolavoro di Branagh e per quanto mi riguarda il miglior film dell’anno. Da noi esce il 22 gennaio epperò vi consiglio nel modo più assoluto di vederlo in lingua originale. In bianco e nero, racconta l’infanzia del regista a Belfast al tempo dei primi troubles tra cattolici e protestanti. Una meraviglia.

The Card Counter (Paul Schrader)

L’ultimo film di Paul Schrader è un noir stilizzato, basato come Taxi Driver sulla storia di un reduce e nello specifico sullo scandalo di Abu Ghraib. La progressione geometrica della storia tra i tre personaggi principali e le esplosioni di violenza sempre fuori campo lo rendono veramente un trattato cinematografico su come si costruisce un thriller nel 2021.

Power of the Dog (Jane Campion)

Il potere del cane è una metafora biblica che indica il male – e la tentazione del male – che all’inizio del film sembra essere tutto dalla parte del personaggio di Benedict Cumberbatch mentre invece più andiamo avanti in questo western atipico e più capiamo che il male sta tutto da un’altra parte. Sorprendente.

Last night in Soho (Edgar Wright)

Edgar Wright ci aveva abituato a un talento visionario, ironico e molto frammentato. Il suo nuovo film è diverso, più serio, ma non rinuncia allo stile e alle evoluzioni della macchina da presa. Un thriller psichedelico che guarda agli anni ’60 per leggere il presente con un cast azzeccatissimo.

Promising Young Woman (Emerald Fennell)

Promising Young Woman è uno dei due film in questa lista girati da registe donne esordienti. Emerald Fennell – aiutata qui dalla performance stupefacente di Carey Mulligan – propone un thriller femminista ironico ma durissimo e senza troppe speranze. Uno dei film più scioccanti dell’anno.

The Velvet Underground (Todd Haynes)

Il documentario di Todd Haynes sui Velvet Underground è una delle vette del film musicale del 2021. L’altra vetta ovviamente è il documentario sui Beatles di Peter Jackson che sta nella lista delle migliori serie TV dell’anno. The Velvet Underground propone un focus non tanto sulla storia del gruppo quanto sulla sua genesi e sul clima culturale che l’ha favorita. Affascinante e coinvolgente.

Luca (Enrico Casarosa)

Luca è la Pixar al suo meglio da molti anni a questa parte: una storia semplice, un’amicizia tra due bambini (che però sono anche due mostri marini) senza tutti i livelli di senso che i film animati dell’ultimo decennio ci hanno abituato a sovrapporre. Un capolavoro di poesia e di tecnica che guarda più a Miyazaki che a Disney.

The Suicide Squad (James Gunn)

The Suicide Squad è semplicemente il film definitivo sui supereroi: il cinecomic così come dovrebbe essere. Adulto, sporco, cattivo, senza la serietà di Watchmen, ma non insipido come il 99% delle produzioni Marvel. Ogni personaggio e iconico, ogni scena fa saltare sulla sedia, ogni soluzione registica è un grosso “cosa cazzo”. Per me è geniale.

Malignant (James Wan)

Malignant è la riproposizione a cura di James Wan dei gialli italiani anni ’70 aggiornati al 2021 e – forse – è il miglior horror dell’anno. Echi di Dario Argento e Brian De Palma risuonano in ogni inquadratura. Si vede lontano un miglio che il regista si è divertito un mondo a farlo, e tanto basta.

The Mitchells vs. The Machines (Michael Rianda)

I Mitchell contro le macchine, un po’ come Spider-Man: Into the SpiderVerse, è una festa di diversi stili di animazione diretta da un regista che proviene da Gravity Falls, una delle serie chiave degli anni 2000. Se la storia può sembrare convenzionale, il racconto è sorprendente e ricco di spunti di follia. Cane, maiale, pane in cassetta.

Freaks Out (Gabriele Mainetti)

Il film di Gabriele Mainetti è l’unico italiano della lista anche perché – effettivamente – è l’unico film italiano che ha osato veramente molto nel 2021. Un fantasy che mescola neorealismo e cinema di genere, freaks e nazisti, partigiani e magia, con una storia produttiva ricca di colpi di scena. Una festa per gli occhi.

Titane (Julia Ducournau)

Al di là dei premi vinti, Titane è un thriller/horror molto atipico che riserva più di una sorpresa. Julia Ducournau si conferma un talento di razza nel saper gestire storie al limite e nel saper dosare tensione, disgusto, scene splatter e tesi politiche. Titane è il body horror aggiornato agli anni ’20.

Nomadland (Chloé Zhao)

Nomadland è stato il primo film che ho visto in sala dopo un periodo di lockdown duro. Forse questo influenza il mio giudizio. Lo ritengo uno dei migliori film dell’anno per il suo mescolare fiction e documentario seguendo la figura della protagonista (una perfetta Frances McDormand) silenziosamente, quasi di lato, testimoniando un tipo di vita che non conosciamo e facciamo fatica a comprendere.

Censor (Prano Bailey-Bond)

La protagonista di Censor, film d’esordio di Prano Bailey-Bond, è appunto un’impiegata dell’ufficio censura britannico impegnata a tagliare le scene più splatter dei cosiddetti video nasties negli anni ’80. Ovviamente tra le pieghe dell’orrore meta-cinematografico arriva l’orrore vero, a base di traumi infantili e misteri mai risolti. Un horror rigoroso, da vedere assolutamente.

Cry Macho (Clint Eastwood)

L’ultimo film di Clint Eastwood non è mai l’ultimo film di Clint Eastwood. A 92 anni il vecchio cowboy è ancora in lizza per passare il testimone a un giovane messicano che deve essere riportato a casa e nello stesso tempo fatto diventare uomo. Un film che offre una prospettiva inedita sul tema del maschio e dei rapporti tra vecchie e nuove generazioni.

BONUS TRACKS

I film bellini che non ce l’hanno fatta (a entrare in questa lista, dico): È stata la mano di Dio, Dune, Spider-Man: No Way Home, Nobody, Summer of Soul, Pig.

Le mezze delusioni (ma qui ero io che mi aspettavo troppo): The French Dispatch, The Last Duel, Shang Chi and the Legend of the Ten Rings, Prisoners of the Ghostland.

Le occasioni perse (nel senso che me li sono persi, porcoddue): Madres Parallelas, Ghostbusters Legacy, Diabolik, Eternals, Petite maman.

I più attesi del 2022: Licorice Pizza, The Tragedy of Macbeth, Doctor Strange in the Multiverse of Madness, Matrix Resurrections, The Northman, Turning Red, Spider-Man: Across the Spider-Verse.

IL 2021 IN 10 SERIE TV

Sveliamo subito il segreto di Pulcinella, in questa lista ci sono 10 serie + 1, ma quella singola voce in più non è veramente una serie quanto uno speciale televisivo che però è una delle “cose” migliori viste nell’anno e andava pur messa da qualche parte. Le serie che stanno in questa lista hanno due caratteristiche: sono uscite nel 2021, sono miniserie o prime stagioni di una nuova serie, stanno sulle piattaforme legali che vedo a casa mia (cioè, non vi ho messo per amor di chiarezza le cose che vedo in giro con metodi, diciamo così, fluviali). Soprattutto, non stiamo a dire la terza stagione di questo o la quinta stagione di quello se no ogni anno ci ripetiamo e alla fine due palle. Quindi, voilà.

Arcane (Netflix)

La miglior serie dell’anno, per me, è una serie animata. Spider-Man: Into the Spider-Verse aveva rivoluzionato ogni canone del film di animazione; Arcane fa lo stesso per la serialità animata. Una storia fantasy adulta e credibile (tratta da una nota serie di videogame), un reparto tecnico eccezionale, profondità di scrittura, personaggi convincenti, character design magnifico, concept americano con stile europeo. Arcane si prende i suoi tempi (9 episodi da 45 minuti) e scardina tutti  i pregiudizi che chiunque di noi potrebbe avere. Guardatelo: ne rimarrete stupiti.

The Beatles: Get Back (Disney+)

Se la gioca con Arcane per il “numero uno” di quest’anno, ma ho soltanto voluto privilegiare la fiction rispetto al documentario. Qui Peter Jackson ha fatto un lavoro monumentale dandoci in pasto quasi nove ore di John, Paul, George e Ringo come non li avevamo mai visti prima. Improvvisamente i Beatles tornano ad essere sulla bocca di tutti, e non potrebbe essere altrimenti. Una boccata d’aria fresca.

Midnight Mass (Netflix)

La fiction live action migliore dell’anno è certamente questa miniserie horror sui generis in cui Mike Flanagan può finalmente andare a briglia sciolta tra cattolicesimo wow, vampirismo, demoni, miracoli inquietanti e soprattutto la claustrofobia delle comunità chiuse (si svolge su un’isola dove un giovane prete mysterioso arriva in sostituzione del vecchio parroco con Alzheimer). Si tratta di una serie “diesel” (7 episodi da un’ora e le cose cominciano a ingranare al quarto episodio), ma comunque i primi 3 episodi sono un campionario di horror senza spaventoni da manuale…

Maid (Netflix)

Maid (e la sua protagonista Margaret Qualley figlia di Andie McDowell che qui interpreta… la madre) sono state una gradita sorpresa del 2021. Anche qui una miniserie autoconclusiva tratta dal memoir di una aspirante scrittrice che sbarca il lunario facendo la signora delle pulizie. Splatter quanto basta nelle scene di scrostamento cessi, Maid è soprattutto uno studio sui personaggi mai isterico e mai sopra le righe: 10 puntate che ci fanno appassionare a una storia dove il vero villain è lo stato sociale americano.

Them (Prime Video)

Them ha la palma di serie più scioccante dell’anno (se pensiamo in particolare al quinto episodio) ed è un a discesa agli inferi del razzismo sistemico in USA. Prodotta da Little Marvin e Lena Waithe, parla di una famiglia di neri che si trasferisce in un quartiere di Los Angeles popolato solo da bianchi. Ovviamente i bianchi non sono contenti. Ma anche alcune non meglio identificate forze del male non sono contente. Il tasso di violenza razziale è altissimo: è una serie pugno nello stomaco. Ma da recuperare.

Sweet Tooth (Netflix)

Parliamo adesso di serie carucce e pucciose: Sweet Tooth ha i suoi morti e il suo tributo di sangue, ma ha comunque un piglio da favola fantasy post-apocalittica, un po’ “La strada” e un po’ “Kamandi” (perché cazzo nessuno ha mai fatto un film o una serie su Kamandi non me lo spiegherò mai). Il giovane protagonista, bimbo mutante con le corna da cervo è perfetto per stemperare nello zucchero ogni evento terrificante della serie, che funziona a più livelli per adulti e bambini (non la farei vedere a un bimbo di 6 anni, ma magari a 9-10 anni sì).

Only Murders in the Building (Disney+)

Altra serie caruccissima e molto New Yorker (fin dai credits il riferimento è esplicito) è questa con Steve Martin, Martin Short e Selena Gomez. I due mostri sacri con la giovane ex-promessa in una trama da crime story che mescola podcast, furti di gioielli, suicidi e loschi titolari di gastronomie armene. La prima stagione è stata una deliziosa sorpresa e adesso io ne voglio sempre di più.

Strappare lungo i bordi (Netflix)

Chi non ha visto la serie di Zerocalcare? Pochi, in verità. Con tutti i difetti che le si possono attribuire, è una miniserie che funziona, anche all’estero, per i temi universali che tratta. Per me l’unico difetto è che va un po’ troppo a rotta di collo, ma se faranno altre stagioni potrebbero anche correggere un po’ il tiro. Nell’ultimo libro di Zero c’è anche un backstage molto interessante a fumetti.

WandaVision (Disney+)

Le serie Marvel, devo confessare, mi annoiano un po’. Quest’anno abbiamo avuto WandaVision, Loki, The Falcon and the Winter Soldier, What If e Hawkeye (le ultime due non le ho nemmeno viste), e ogni volta la sensazione è quella del “raschiamo il barile per imbastire qualcosa su personaggi secondari di cui non frega un cazzo a nessuno”: WandaVision però è diversa, con il suo approccio metatelevisivo e le sue trovate che riprendono i diversi decenni di sitcom USA. Poi dopo diventa convenzionale, ma i primi cinque episodi sono geniali.

Colin in Black and White (Netflix)

Una piccola sorpresa del catalogo Netfix segnalatami in corner e che non mi ha affatto deluso… anzi! Non conoscevo la storia personale di Colin Kaepernick (diciamo pure che non sapevo chi era finché non l’ho googlato): è quel giocatore NFL che per primo si inginocchiava a titolo dimostrativo durante l’inno nazionale pre-partita. In questa miniserie prodotta con Ava DuVernay riflette sul razzismo sistemico in forma di dramedy alternando spezzoni di fiction (con la storia di lui da giovane) a parti di documentario (in cui interviene lui stesso). Curioso e interessante.

Bo Burnham: Inside (Netflix)

Il 2021 non sarebbe il 2021 senza Bo Burnham, che dal cuore del profondo lockdown ci ha regalato un one man show comico al vetriolo, uno spettacolo che fa ridere ma fa soprattutto angosciare, deprimere e imbarazzare. Tutto girato in una stanza, dove Bo ha il suo equipaggiamento da creator digitale, ricco di canzoni orecchiabili e acidissime (le mie preferite “Welcome to the Internet”, “White Woman Instagram” e “Sexting”), Inside è il distillato di un anno di Covid che sembrano dieci (anni) (di Covid).

IL 2021 IN 20 DISCHI

Proseguiamo con i listoni della morte, stavolta vi consiglio i 20 dischi (secondo il mio insindacabile giudizio) più rappresentativi dell’anno. Siccome io sono una persona a) di bocca (anzi di orecchio) abbastanza buona e b) ho gusti parecchio ma veramente parecchio eclettici, qualcosa che vi può piacere lo trovate senz’altro. Ho cercato di ridurre a venti perché ne avevo una cinquantina ma forse poi vi annoiavate. Essendo stata un’annata inaspettatamente buona anche per il Belpaese, ho fatto un mischione di roba italiana e internazionale. Enjoy, sapendo che ogni link vi porta al corrispettivo album su Spotify!

IRA (iosonouncane)

Certamente album migliore dell’anno per la musica italiana e – mi voglio rovinare – anche internazionale, perché questo amalgama sonoro plurilingue, ipnotico, coinvolgente e densissimo è una roba che ti lascia senza fiato. Due ore piene di sonorità a volte claustrofobiche, a volte estasianti, più spesso inesplicabili. Da ascoltare e riascoltare ma – diciamo – non in auto o come sottofondo sonoro.

Sometimes I Might Be Introvert (Little Simz)

Tra i due litiganti (Drake e Kanye) la terza (Little Simz) gode. Il miglior album hip-hop dell’anno è dell’artista londinese dal flow assassino che spazia dal grime al soul all’afrobeat con una sicurezza incredibile. Point and Kill è in heavy rotation su tutti i miei dispositivi da quando è uscita, per dire.

Fatigue (L’Rain)

Scoperta dal vivo per caso a Club2Club, L’Rain (Taja Cheek) da Brooklyn ha confezionato un album perfetto per l’era pandemica, tra frammenti di free jazz, rumorismo, ambient, beat hip-hop low-fi, gospel e neo-soul. Fatigue è la fatica accumulata negli ultimi due anni, che qui si sente tutta e viene trasfigurata.

Magica Musica (Venerus)

Venerus ha fatto il miracolo di portare nella musica italiana un mix di avant-pop, soul ed elettronica che finora avevamo sentito arrivare solo dai paesi anglofoni. Magica musica è un album denso, senza un suono fuoriposto, con una produzione incredibile (di Mace) e con momenti irresistibili (io ho un debole per “Fuori fuori fuori” e “Sei acqua”).

Song Machine S1 Strange Dayz (Gorillaz)

Sì, ho barato, quest’album è del 2020 ma ha contraddistinto per me questo anno assurdo con le sue canzoni sghembe e con il singolo di traino cantato dal mio amatissimo Robert Smith, sempre in forma. Strange Dayz, proprio come quelli che abbiamo vissuto in questi mesi.

OBE (Mace)

Mace è il producer più interessante che abbiamo in Italia, e il suo album OBE (Out of Body Experience) è lì a dimostrarlo. Molti featuring interessanti (Venerus, Blanco, Salmo, Chiello, Gemitaiz, Rkomi, Ketama126, Guè, Madame, per fare alcuni nomi) ma soprattutto un superamento della trap in favore di un pop italiano elettronico e urban veramente adulto.

Donda (Kanye West)

Impossibile non averlo ascoltato quest’anno. Il decimo album di Kanye ha una durata smisurata, è tutto nero (a lutto) ed è dedicato alla madre morta Donda. Detto ciò, è un’opera intensa e a volte un po’ avvitata su sé stessa ma che si fa ascoltare e riascoltare per trovare nuove sfumature. E poi è sempre Kanye.

Colourgrade (Tirzah)

Ancora meno strutturato di Devotion, il nuovo album di Tirzah è super intimista, un acquerello elettronico sognante e crepuscolare. Sentito dal vivo è come essere avvolto da una coperta calda e morbidosa, che ha un profumo strano e un po’ intossicante.

La terza estate dell’amore (Cosmo)

Cosmo ha fatto un disco che magari non è il suo migliore ma è un manifesto di resistenza corporale ed elettronica al distanziamento sociale. Con i suoi beat, la sua voglia di ballare e le sue melodie sempre appiccicose questo album vuole farci tornare a sudare, a stare insieme e a vivere appunto una “terza estate dell’amore”. Io faccio tantissimo il tifo per lui.

Friends that Break Your Heart (James Blake)

Siamo sempre in territorio urban / electronica / cantautorato intimista, e qui James Blake mi sta basso in classifica perché questo album non è un capolavoro come Assume Form e la forma-canzone se vogliamo è “più tradizionale” e vira alla semplicità del folk. Però bello.

Daddy’s Home (St. Vincent)

Annie Clark ha fatto il sorpresone dell’anno confezionando un album filologicamente rock blues di matrice seventies. Cioè, sembra un’altra artista del tutto. Ma la cosa non è poi negativa, anzi. L’album come si capisce è dedicato al padre e riprende in tutto e per tutto quel tipo di rock che animava le strade di New York quando il padre era pischello. Curiosissimo.

Medioego (Inoki)

Ragazzi, è tornato Inoki dopo 7 anni di silenzio e spacca di brutto come sempre. Uno dei migliori rapper “storici” che abbiamo in Italia, qui impreziosito da produzioni del livello di Crookers, Salmo, Chris Nolan, lasciato libero di volare alto con un flow old skool sempre all’altezza della situazione.

Chemtrails over the Country Club (Lana del Rey)

Niente, per me qualunque cosa faccia Lana Del Rey è comunque un “album dell’anno”, anche se stavolta è uscita con due album (c’è anche Blue Banisters) e c’è l’imbarazzo della scelta. Lana è sempre lei, e appena parte White Dress sei conquistato e non hai più speranza.

Epsilon (Jolly Mare)

Una piccola perla poco conosciuta del panorama italiano elettronico odierno. Jolly Mare (il pugliese Fabrizio Martina) confeziona un album ricco di groove, funky e psichedelia, appoggiato su tappeti di synth che ricordano a volte Tony Esposito, altre volte Franco Battiato, più spesso Tullio de Piscopo se avesse incontrato i Kraftwerk. Tutta l’estate ho sentito solo questo.

Noi, loro, gli altri (Marracash)

Arriva a fine anno e sbaraglia il rap italiano con un nuovo disco che magari non è totale come Persona, ma è comunque la dimostrazione che Marra è veramente il king del rap. Testi intelligenti, storie che si fanno seguire, e una punta di nostalgia nineties per il pop di Infinite Love con Guè, che è la mia canzone di Natale.

Montero (Lil Nas X)

Ho visto il futuro del pop e il suo nome è… vabbè, dai, Lil Nas X può piacere o meno. Per me è un fenomeno assoluto. Chiaramente come tutti i fenomeni pop è un prodotto multimediale in cui la musica è solo uno dei molti componenti, e tuttavia Montero è un album piacevole ed è ideale per capire dove sta andando il pop nel 2021.

Carnage (Nick Cave / Warren Ellis)

Il mio amore per Nick Cave non scema nemmeno di fronte a Carnage, l’album della pandemia. Più difficile di Ghosteen, o forse semplicemente difficile in modo diverso, questo è l’album dove “& The Bad Seeds” scompare in favore di “& Warren Ellis”, e infatti le sonorità sono molto più secche. Però è un must.

Madame (Madame)

Madame per me è una sorpresa continua, e vorrei dire che – piaccia o no – è una delle poche performer italiane che riconosci al volo qualsiasi cosa faccia. L’album d’esordio ha qualche piccola caduta (ci stava magari mettere meno pezzi) ma fa veramente ben sperare per un’artista che rappresenta bene il nostro panorama urban.

Happier than Ever (Billie Eilish)

Billie è cresciuta e si muove in territorio pop/urban con una consapevolezza incredibile, aiutata dal fratello produttore (ma testi e musiche sono suoi). Ci sono ancora episodi electro che richiamano il primo album ma ora ci sono anche sonorità più mature che vanno dalla psichedelia a broadway passando per la bossa nova (!!!). Adorabile.

Promises (Floating Points / Pharoah Sanders / London Symphony Orchestra)

Fuori da ogni schema, potrebbe essere al ventesimo come al primo posto assoluto, l’outsider di questa lista è un disco etereo e paradisiaco, che mescola il jazz del saxofonista ottantenne Pharoah Sanders con l’elettronica di Floating Points. Una suite unica in 9 movimenti accompagnata dalla London Symphony Orchestra da ascoltare con attenzione e in stato meditativo (meglio di notte al buio). Adatto a chi vuole sentire qualcosa di assolutamente nuovo e al tempo stesso antichissimo.