FOO FIGHTERS SPLATTER!

Ovviamente il film horror dei Foo Fighters è una solenne vaccata, questo va detto subito. Però è innegabilmente divertente la riproposizione di quelle vibe stile “Morte a 33 giri” e a tutto l’ambaradan da slasher demoniaco anni ’80.

Comunque: Dave Grohl e soci devono fare il nuovo disco, lo vogliono con un suono che spacca e cosa c’è di meglio che andarlo a registrare in una villazza a Encino dove 30 anni prima una oscura band grunge/metal aveva evocato un demone che – impossessatosi del corpo del leader – aveva trucidato male tutti i membri?

Studio 666 ha dalla sua – ovviamente – una notevole colonna sonora, un altissimo tasso di demenza e effetti prostetici allo stato dell’arte, con una spinta sul pedale del gore più estremo che mi ha fatto pensare a Terrifier di Damien Leone. Occhio: crani sfondati a manetta, cannibalismo, organi interni “sviscerati” e quant’altro. Divertente.

LA SATIRA BLACK DI AMERICAN FICTION

American Fiction, dell’esordiente Cord Jefferson è l’ultimo film candidato agli Oscar che vi manca di vedere, e allora vedetelo (si trova su Prime Video). Ah, non fatevi ingannare dal trailer che lo fa sembrare l’ennesimo insulso film comico.

C’è un motivo per cui questo film è piaciuto così tanto in patria, ed è (secondo me) questo: è un film che parla di razza e di stereotipi, di rappresentazione e di senso di colpa bianco, mescolando la satira sociale ad una storia familiare disfunzionale drammatica e comica al tempo stesso e che mantiene sempre il ritmo e il tono giusto mescolando materiali potenzialmente poco mescolabili e aggiungendoci anche un pizzico di metacinematografia.

Vado a spiegarmi illustrando la trama: Thelonious Ellison, detto (ovviamente) Monk, interpretato da un Jeffrey Wright in stato di grazia, è un professore universitario nero che insegna storia della letteratura americana sudista. Il film comincia con lui che scrive alla lavagna il titolo di un libro da analizzare che contiene la parola “nigger”

Una studentessa bianca e woke dice “ma quella è una parola che non si usa, è offensiva e mi mette a disagio”. Lui replica che il libro da studiare è quello, e che cento anni prima quella parola era di uso comune. La studentessa replica che lei proprio non ce la fa a vederla scritta. Lui le dice in sintesi “scusa ma se ci passo sopra io direi che puoi farlo anche tu”. Ovviamente viene sospeso dall’insegnamento.

Avete capito dove si va a parare, il sottile confine tra l’uso di un linguaggio politicamente corretto e la follia di voler in qualche modo censurare il passato. Ma soprattutto il senso di colpa bianco portato al parossismo.

Il tema viene sviluppato in modo veramente gustoso nel momento in cui Monk, scrittore sopraffino che però non pubblica e che ha bisogno di soldi per via delle sue questioni familiari, decide di dare alle case editrici wasp quello che il mercato chiede: un vero romanzo afroamericano.

Che ovviamente è tutto a base di ghetto, spaccio, periferie degradate, gravidanze indesiderate, sgrammaticature e stereotipi portati all’eccesso: tutto quello che Monk odia e disprezza. Lo propone per scherzo firmandolo con lo pseudonimo Stagg R. Leigh (capito la finezza) e ovviamente piace TANTISSIMO.

Da qui in poi, nella parte satirica del film, parte una ridda di situazioni sempre più allucinanti che portano a premi letterari, adattamenti cinematografici e un sempre maggiore scorno e imbarazzo di Monk,

Nella parte “familiare” del film, una serie di personaggi di contorno amabili (nel senso che ci viene voglia di amarli, un po’ come i personaggi di The Holdovers, altra grandissima commedia americana dell’anno scorso) ruotano intorno a Monk. La sorella da cui si era allontanato, il fratello minore gay e in bancarotta, la madre con l’alzheimer (è per i soldi della casa di cura che Monk accetta di scrivere un libro che odia), la governante che si sposa in terza età, la vicina di casa che diventa fidanzata, confidente e che a causa delle tensioni provocate dalla vita lavorativa di Monk si estrania. 

Ci sono diverse scene memorabili nel film, intessute nella storia in modo perfetto (la mia preferita è quando Monk, nei panni di Stagg R. Lee propone di intitolare il suo libro “FUCK” e la direttrice della casa editrice gli dice “sì, è coraggioso, è molto black”).

Ovviamente non vincerà l’Oscar come miglior film, ma tra Jeffrey Wright e Cillian Murphy non avrei dubbi sul miglior attore. Magari vincerà la statuetta per la miglior sceneggiatura non originale (è tratto da un romanzo inedito in Italia), anche se credo che quello sarà il premio di consolazione per The Zone of Interest. Comunque vedetelo, che vale.

L’INTERESSE PER IL FUORI CAMPO

The Zone of Interest di Jonathan Glazer, tratto dal romanzo di Martin Amis, è un capolavoro. Nello stesso tempo, è un film che mi ha fatto desiderare di uscire dalla sala. Poi l’interesse ha prevalso sull’angoscia, ma diciamo che ho dovuto fare un bello sforzo di astrazione per pensare “guarda che meravigliosa scelta registica” evitando di soffermarmi sui significanti e sui significati.

The Zone of Interest racconta la storia vera e banalissima di un uomo che ha una villetta meravigliosa accanto al suo posto di lavoro e ha una famiglia felice con cui condividere feste in piscina nel giardino curatissimo dalla moglie, pranzi e cene con gli amici, gite al fiume, feste di compleanno e quant’altro.

Solo che l’uomo è Rudolf Hõss e il posto di lavoro è il campo di concentramento di Auschwitz. Questa cosa non è nemmeno che venga fuori come un colpo di scena, a un certo punto. No. Semplicemente, alla quarta o quinta inquadratura dal giardino della villa, si vede il muro di cinta col filo spinato e le ciminiere dei forni che emettono costantemente fumo e fiamme.

La storia procede, Rudolf deve essere trasferito, la moglie Hedwige monta su un litigio coi fiocchi, perché non vuole andarsene: quale miglior posto per crescere i bambini che questo eden in cui i bambini giocano con i denti delle persone cremate nel campo e lei e le amiche possono appropriarsi delle pellicce e dei vestiti delle donne ebree sterminate?

A un certo punto arriva anche la suocera e la cosa prende una piega surreale, quasi da commedia. Ma sempre con le ciminiere dietro. E attenzione, non si vede mai nulla se non l’idillio. La cosa intollerabile è questa: Johnnie Burn, il sound designer che ha lavorato molto con Lanthimos, complice la musica atonale e dissonante di Mica Levi, riempie ogni inquadratura con rumori assortiti di spari, cani che abbaiano, gente che urla, che supplica, che muore.

I rumori sono attutiti quando gli Hõss sono in casa, ma abbastanza forti quando sono in giardino, o nei sentieri che portano al fiume. Ed è il contrasto tra il sonoro fuori campo e quello che vediamo in campo che crea un disagio fortissimo.

A contrappunto della banalità del male vediamo inserti totalmente neri, bianchi o rossi con la musica di Levi protagonista, e spezzoni onirici in cui una giovane servetta polacca lascia delle mele in un terrapieno (per i prigionieri?) tutte girate con camera termica, virate in bianco e nero e in 4K, che contribuiscono al disagio complessivo con una sensazione di “fuoriposto” raramente provata al cinema.

Il finale, in cui le piccole vicissitudini lavorative di Rudolf si intrecciano con la Storia (e con la memoria) può sembrare antidrammatico, ma i conati di vomito che lo sottolineano non lasciano dubbi sul fatto che The Zone of Interest è una mazzata in piena faccia.

Ovviamente è “il” film da vedere quest’anno, ed è una delle rare cose che vedremo che – come diceva Godard – ci dice qualcosa sul mondo e ci dice qualcosa anche sul cinema.