Dai. Carino che per una volta Illumination abbandoni il suo franchise più redditizio per esplorare un’idea nuova, senza affidarsi nemmeno ad ulteriori (e indesiderati) seguiti di Pets o Sing.
Migration è un film di anatre migratorie, e tanto dovrebbe bastare per immaginarsi grandi inquadrature a volo d’uccello (ehm). In ogni caso in Migration c’è la famiglia disfunzionale ma simpatica con il papà anatra nel quale mi identifico pienamente che vorrebbe mantenere lo status quo e perciò terrorizza il figlio adolescente e la figlia più piccola con racconti horror su aironi e predatori vari, la mamma sensata, il prozio stordito.
Quando il resto della famiglia esprime il desiderio vivo e vibrante di migrare in Giamaica per svernare, ecco che partono tutti. Seguiranno diverse avventure (la mia preferita è quella con la coppia di aironi anziani molto Texas Chainsaw Massacre), alcune delle quali un po’ debitrici della Aardman di Galline in fuga (qui si tratta di paperi).
Tutto è bene quel che finisce bene, film innocuo ma interessante per la presentazione delle dinamiche familiari e ricchissimo di gag divertenti tra piccioni metropolitani, pappagalli tropicali, paperi new age e un cuoco killer degno di Terminator.
Spinto dalla curiosità verso i film e la personalità di Mike Mills dopo aver visto il suo più recente C’mon C’mon, ho deciso di approfondire la sua limitatissima (per numero di film) filmografia. Scoprendo peraltro che Mills è un graphic designer e videomaker oltre che regista e sceneggiatore, e che c’è lui dietro le copertine iconiche e i videoclip degli Air (nonché dietro qualcosa dei Sonic Youth e altri gruppi molto underground).
Questo amore per la musica emerge bene in 20th Century Women (in Italia Le donne della mia vita) uscito nel 2017 e trainato da una Annette Bening in stato di grazia nel ruolo di Dorothea, madre di Mills. Cioè, il film è abbastanza autobiografico (e prima ancora Mills ne ha realizzato un altro sulla figura del padre, altrettanto complessa, che presto vedrò).
Il film in sé è una serie di vignette della Santa Barbara del 1979, in cui imperversavano lo skate e il punk rock, in cui era determinante stabilire se fossi un “art fag” che ascoltava i Talking Heads o un hardcore che ascoltava i Black Flag. La musica è molto ben riprodotta, la scelta dei pezzi non è mai banale (dove altro avete mai sentito Don’t Worry about the Government, dico io).
Jamie, il figlio di Dorothea nel film, è un quindicenne in confusione, che deve trovare la sua direzione. Vive in questa grande casa con la madre divorziata da tempo, Abbie (Greta Gerwig) una affittuaria artista underground e amante del punk con problemi di cancro alla cervice, William (Billy Crudup) un altro affittuario ancora legato alla controcultura hippy incaricato di ristrutturare la casa e Julie (Elle Fanning), l’amica del cuore di Jamie che tutte le notti dorme con lui (lui vorrebbe di più, ma lei lo ha pesantemente friendzonato).
Dorothea ritiene di non capire più o non sapere bene come indirizzare il figlio a diventare un uomo migliore, e assegna ad Abbie e Julie il compito di aiutarla a fare da guida al figlio. Ne risultano pasticci a volte amari, a volte esilaranti nel momento in cui le due ragazze riempiono Jamie di testi femministi della seconda ondata e lui – sinceramente interessato – si ficca in situazioni surreali come fare a pugni con un altro ragazzo sul tema della stimolazione clitoridea.
20th Century Woman è un film strano, ma non strambo in quel modo costruito da formula-sundance. È strano come sarebbero strane le vite normali di tutti noi se fossero rappresentate su schermo. Ed è inquadrato dall’evidente filtro dei ricordi del regista ogni qual volta ci sono stacchi di montaggio un po’ psichedelici, filmati di archivio in stile documentario o brani recitati di libri con in sovraimpressione il riferimento bibliografico (proprio come in C’mon C’mon).
Sono contento di aver scoperto un altro regista molto “nelle mie corde”.
Parte del mio progetto “recuperiamo i film A24 non ancora visti“, mi è capitato sottomano questo C’mon C’mon del 2021, di Mike Mills con un inedito Joaquin Phoenix in versione “normale”. Cioè un film dove non va in overacting costante, non è truccato abbestia, non interpreta un personaggio “larger than life”. Uno normale. Un giornalista radiofonico che sta realizzando un documentario sulle speranze e le paure dei teenager americani.
C’mon C’mon è un piccolo film in bianco e nero la cui cifra interpretativa sta proprio nel lavoro di Johnny, il personaggio di Phoenix, sempre alle prese con il suo registratore e il suo microfono direzionale. C’mon C’mon è un film sull’ascolto.
Johnny si sta riprendendo dalla morte della madre, è in rapporti non buonissimi con la sorella Viv, che a sua volta si barcamena tra un marito bipolare in crisi e un figlio di 9 anni, Jesse (un bravissimo Woody Norman) che è strambo come possono esserlo solo certi bambini di quell’età.
Per mettere una pezza alla salute mentale del marito, Viv molla Jesse per qualche giorno al fratello. Inizia così un road movie dalle vibe molto simili ad Alice nelle città di Wenders. Johnny, che non ha figli, è costretto a venire a patti con una presenza dirompente nella sua vita e Jesse, libero dalla pesantezza della sua routine familiare, può esprimere emozioni che avrebbe altrimenti represso.
Da zio e nipote, i due sviluppano una complicità più da colleghi / migliori amici, in un film che non cede a sentimentalismi ed è realistico senza cercare di strizzare l’occhio allo spettatore. A un certo punto si sente in colonna sonora The Ostrich di Lou Reed pre-Velvet. Chapeau.
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