MAR CO VAL DO

MAR CO VAL DONel 1970 io ero appena nato. In verità, proprio sul finire dell’anno. Non ho quindi fatto in tempo a vedere in diretta il Marcovaldo televisivo, trasmesso dalla RAI proprio in quell’anno. Oggi questo sceneggiato – così si chiamavano in quei tempi perduti le miniserie televisive – è tranquillamente disponibile sia sul sito della RAI, sia su YouTube (ho fatto una playlist dove raccolgo tutti gli episodi). Io ho da poco approfittato per farmi una maratona dato che, sapendo della mia passione per il personaggio ideato da Italo Calvino, mi hanno recentemente regalato una bella edizione in DVD.

Marcovaldo, per noi bimbi degli anni ’70, era quasi una lettura obbligata. Uscito nel 1963 (ma scritto già in anni precedenti), nel giro di 7 anni era già diventato un libro da antologia scolastica. Moltissimi bambini conoscevano “I funghi in città”, “Il bosco sull’autostrada”, “Il coniglio velenoso”, “Luna e GNAC” e gli altri 16 racconti brevi che componevano una sinfonia delle stagioni ripetuta per cinque volte. Marcovaldo rappresentava l’uomo di campagna inurbato, alle prese con l’alienazione della società dei consumi e sempre attento al manifestarsi di piccoli eventi naturali. Per me bimbo rappresentava semplicemente un personaggio comico alla Buster Keaton, impassibile in mezzo al caos, allampanato, fuori dal mondo, che agiva secondo una sua personale agenda che risultava incomprensibile a chi gli stava accanto. Insomma, un personaggio in cui mi potevo identificare.

Oggi per la prima volta, e in un momento particolare in cui sto ristudiando Calvino per altri motivi, vedo la riduzione televisiva in sei puntate: una meraviglia. Le storie ci sono tutte, adattate a una comicità resa il più possibile slapstick (a volte anche in modo un po’ fastidioso, ma del resto serviva qualcosa di più “visivo”), interpretate da un cast perfetto (Marcovaldo è Nanni Loy, ma poi ci sono Didi Perego, Arnoldo Foà, Daniela Goggi) e ambientate in modo molto caratterizzato a Torino (nel libro si parla vagamente di “una metropoli del nord”). Senza dimenticare le musiche pop, stranite e industriali di Sergio Liberovici, un musicista / agitatore culturale torinese di cui sapevo poco e nulla e che invece mi ha aperto un mondo (per dire, Umberto Eco dice di lui e della sua esperienza musicale con il gruppo Cantacronache che “senza di loro non ci sarebbero stati i cantautori”, da Tenco in giù).

Il Marcovaldo RAI può avere diversi livelli di lettura piacevoli: quello della narrazione, ben giocata e realistica anche se sempre sul filo del nonsense, e quello documentario, in cui vediamo scorci di una Torino pesantemente industrializzata, appena post-’68, dal parcheggio selvaggio, dal traffico mortale, con paesaggi desolati e quasi beckettiani (“questo è il sole FIAT”, dice a un certo punto Marcovaldo – “il sole dietro allo smog”). Una voglia di “documentare” la capitale industriale che emerge chiaramente anche dalle brevi introduzioni giornalistiche ad ogni episodio, dove un intervistatore interpella casalinghe, pensionati, operai, bambini e l’umanità più varia per le vie di Torino facendo loro le domande chiave che poi vengono sviluppate nelle avventure dell’episodio in questione: lo stato sociale, il lavoro, i consumi, l’inquinamento, la nostalgia per la terra di origine, il tempo libero, la sanità. Di queste interviste (veramente una chicca per chi vuole riscoprire la vera Torino di quarant’anni fa) ho preparato un videomontaggio disponibile on line qui (12 minuti in tutto). Vedendole, viene voglia di rifare lo stesso percorso di docu-fiction oggi, per vedere come in fondo cambiano alcuni fattori ma non cambia il risultato. Basta sostituire il televisore al plasma con il frigorifero e l’ossessione per i consumi è ancora qui. Basta sostituire l’omeopatia alla farmacia tradizionale e siamo sempre lì. Pensioni e welfare non credo otterrebbero risposte più soddisfatte da parte degli intervistati. E la nebbia e il freddo continuano a far montare la nostalgia ai nuovi immigrati.

Il teatrino dei personaggi di Marcovaldo, con i loro nomi ariosteschi come Viligelmo, Domitilla, Tornaquinci, Aligi, Diomira, Clorinda, diventa estremamente più umano in questo adattamento televisivo che – diventa presto evidente – è antenato diretto di quel Fantozzi che di lì a poco riscuoterà tutto il suo meritato successo. La fantomatica ditta SBAV (che sembra produrre solo scatoloni e che nella finzione è ambientata proprio dietro i cancelli della RAI di Via Verdi) in un finale amaro che non ricordavo nel libro licenzia in tronco sia Marcovaldo che il suo caporeparto Viligelmo, solo per ribadire che l’uguaglianza sociale, che sembrava incredibilmente vicina pochi minuti prima, deve sempre essere radicalmente osteggiata.

In questa, come in tante altre cose, Marcovaldo non invecchia mai.