CHARLIE E IO

CHARLIE E IOBastano quattro giorni (nello specifico due giorni dalla “fine” della rappresentazione mediatica) a diradare tutto il fumo attorno a un caso come quello dell’attacco a Charlie Hebdo? Non lo so. Non so nemmeno perché o per chi sto scrivendo queste righe, forse solo a memoria futura. La memoria che manca, sempre di più, perché siamo sempre più “spinti” a planare sulla superficie delle cose, senza immergerci. Non sto dicendo come spesso sento dire, che “non siamo più capaci” di approfondire: non è vero. Se ce ne viene data l’opportunità, e se abbiamo gli stimoli giusti, io credo che ci sia ancora margine.

Io tutta questa storia l’ho vissuta a casa con la febbre alta, tra una diretta TV e un feed di Facebook. E qui sta il primo problema. La diretta TV è opaca, serve solo (soprattutto se hai anche la febbre) a fare da rumore bianco con alcuni picchi di informazione utile a brandelli, ripetuti ossessivamente, rilanciati da un angolo all’altro dello schermo. Il feed di Facebook, o quello di Twitter, servono più che altro… a farmi innervosire. La cosa è ben nota, ormai ci si fa dell’ironia consapevole eppure sembra assolutamente inevitabile. Succede qualcosa e voilà, la timeline si riempie di gente che “cambia l’icona del profilo” (una cosa che scusate ma ho sempre trovato idiota ai massimi livelli), o che posta frasi come “io sono Charlie” (vedremo poi meglio il peso di questa affermazione) aderendo in modo superficiale e acritico a quella che è semplicemente un’ondata di improvvisa emozione collettiva. Intendiamoci: non sto dicendo che è sbagliato emozionarsi. Sto piuttosto criticando la rappresentazione collettiva dell’emozione guidata peraltro da claim o visual inventati per l’occasione.

Io ci lavoro con gli hashtag, con il concetto di viralità, con le immagini accattivanti e con il sistema di comunicazione on line. Ci lavoro e capisco i meccanismi che ci stanno dietro e perciò stesso sono molto restio ad usarli. L’indignazione su Facebook non “serve” a nessuno se non a Facebook stesso. Soprattutto l’indignazione momentanea, superficiale o eterodiretta. Un altro caso sono i postatori seriali di articoli: qui divido la categoria in due semplici insiemi. Quelli che rilanciano le agenzie, e che quindi in sostanza contribuiscono ad aumentare il rumore di fondo senza aggiungere nulla alla comprensibilità dei fatti, e quelli che rilanciano articoli di approfondimento utili. Ecco, in casi come quello di Charlie, in cui la complessità della realtà non si può ridurre al livello-Fallaci dell’interpretazione (e la Fallaci, santiddio, è tornata purtroppo sulle labbra di troppe persone) è importante trovare nel proprio feed qualcuno che condivide analisi profonde. Non voglio dire verità assolute, non voglio dire che tutto ciò che ho letto in questi giorni di malattia e tragedia mediatica fosse oro colato o sempre condivisibile al 100%, ma interessante e stimolante, questo sì. Eppure devo confessare che io per primo, se non avessi avuto un momento di pausa forzata dalla vita attiva, non avrei probabilmente letto cose con la stessa attenzione, o avrei istintivamente pensato “OK, tragedia, risoluzione della tragedia, moving on“.

Se avete pensato che questo era il post, vi siete sbagliati. Questa era solo l’introduzione. Come dicevo poco fa, l’attacco a Charlie è stato il classico bubbone che scoppia su un groviglio inestricabile di nodi. La complessità del reale si è incancrenita in un punto specifico e ha eruttato le sue conseguenze nefaste, così come ogni giorno accade in Siria, in Palestina, e così come ad esempio ieri in Nigeria. Ma Charlie è nel cuore dell’Europa, quindi fa più notizia, suscita più emozione / indignazione. Questo è ovvio, è una delle leggi non scritte del giornalismo e penso sia inutile incazzarsi, basta prenderne atto. La prima cosa che mi è saltata all’occhio (all’orecchio): il commentatore che diceva “Da oggi abbiamo la guerra in casa nostra”. Da oggi? Ma siamo rincoglioniti? Deve sempre essere tutto appiattito sull’oggi? A questo proposito ho trovato una risonanza interessante (anche se il tema è un altro – le foibe – e viene anche trattato in modo superficiale per quanto ne ho discusso con un amico esule istriano) in un articolo di Wu Ming che parla proprio della rimozione delle premesse come strategia mediatica per appiattire tutto sul presente.

L’altra riflessione è sul perché Charlie Hebdo. Si tratta di una rivista satirica di fumetti, estremamente becera per scelta precisa della redazione (da noi, non so, forse il Vernacoliere può essere paragonabile, ma neanche). Ma una rivista “storica”, che per il francese medio rappresenta un sistema di valori condivisi. Non sto qui a fare la lezione sulla satira che deve essere al vetriolo se no non è satira, etc. perché mi pare ovvia e scontata. Alle voci che azzardano frasi come “Charlie se l’è cercata” o “Charlie è islamofobo” non merita nemmeno rispondere. Piuttosto interroghiamoci sul valore del fumetto. In questo senso ha parlato bene Enrico Sola, con l’articolo sul fumetto come medium che raggiunge tutti e suscita il riso (aborrito dai regimi e dai fanatismi). E poi ovviamente i pezzi di Luca Boschi su Cartoonist Globale tra il 7 e il 9 gennaio (Luca Boschi, che per me è un mito da quando teneva la rubrica di posta su Totem Comics, la rivista che portava in Italia l’umorismo demenziale e caustico della franco-belga Fluide Glacial, che in fondo mi è sempre stata più gradita di Charlie Hebdo, ma questa è un’altra storia).

Il discorso più urticante è quello sullo slogan Je suis Charlie, utilizzato da media italiani o – peggio – da politici italiani. Al di là della scemenza che scimmiotta un vecchio Ich bin ein Berliner pronunciato da JFK nel 1963 per esprimere vicinanza alla popolazione della città, il discorso per noi è proprio sbagliato alla radice. Vuoi esprimere vicinanza, va bene. Vuoi partecipare all’onda lunga degli hashtag, entrare nei trending topics, va bene. Vuoi dire che sei Charlie, quindi uno (come Stéphane Charbonnier) che per il bene della satira e della libertà di espressione preferisce “morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio”? Eh no, caro mio, allora va un po’ meno bene. Senza andare a ripescare dove sta l’Italia nella classifica della libertà di espressione e di stampa, ripensiamo a personaggi come Daniele Luttazzi, i Guzzanti, a programmi come Satyricon o Raiot. Luttazzi ha la stessa impostazione di Charlie (dobbiamo ricordare le copertine dedicate a Cristo, Dio, la Madonna e i santi…?) eppure… Su questo tema mi piace riportare la foto di una serie di tweet di Pasquale Videtta dell’Espresso che ho intercettato on line. Carlo Freccero probabilmente si è sentito toccato personalmente, e infatti si è tolto qualche sassolino dalla scarpa a TV Talk.

Abbiamo finito? No. Adesso arriva la parte più importante e delicata: quella dell’inquadramento storico-politico. Allora, io non sono un arabista. Non sono un esperto politico proprio di nulla, e quindi normalmente, come penso sia giusto e opportuno, le mie banali osservazioni da bar me le tengo per me. Sicuramente non le posto su Facebook, dove al più mi piace dire brevemente le mie solite minchiate che quando ho un po’ più di tempo dico in modo prolisso e pedante qui. Sicuramente non le posto su Twitter, dove al massimo rilancio qualche articolo (serio) che mi ha interessato o dico qualcosa di più professionale su quello che faccio. Ecco il motivo per cui latito nelle infiammate conversazioni di politica interna o estera. “Scrivi di ciò che sai”, si usa dire. Ciò non toglie che mi documento volentieri, e su questo tema (al netto degli articoli trash che incitano a bruciare le moschee o di quelli che invocano complotti da scie chimiche) qualche articolo un po’ più complesso l’ho letto, grazie anche a un paio di contatti che si premurano di postarne diversi. Primo fra tutti il pezzo di Karim Metref rilanciato anche da Internazionale (e Karim è di Torino, perciò massimo rispetto). Poi ad esempio il pezzo sul delirio islamofobo di Baruda.net che tutto si può dire ma mi sembra una che alle cose ci sta dentro e almeno parla per esperienza. L’articolo su Medium “Charlie Hebdo: This Attack Was Nothing To Do With Free Speech — It Was About War” sulla narrazione polarizzata che l’occidente propone del “noi buoni / loro cattivi e contro la libertà”. Poi per un volo d’uccello su tutto quello che il “fatto” sprigiona, un pezzo molto denso di Marco Assennato su Euronomade, che vale la pena spendere qualche minuto a leggere con attenzione. Buon ultimo un articolo del Guardian di ieri che evidenzia con britannico rigore come il cosiddetto “giro di vite” sui valori democratici sia esattamente quello che i terroristi vanno cercando (e noi ci caschiamo sempre, con grande gaiezza nel cuore battagliero).

Questo mi permette di formarmi un’opinione. Un’opinione che proprio in quanto tale io non lascerei libera di circolare fuori da un discorso tra amici. Nel dibattito pubblico – quello serio, non quello che può avvenire su un social media, se esiste ancora un’altra arena di confronto – io non vorrei opinioni, vorrei fatti. E per me i fatti sono anche ricordare che c’è un motivo per tutto (e il motivo non è “pazzi jihadisti decidono improvvisamente di distruggere un simbolo della libertà di espressione perché gli gira il cazzo e perché in fondo sono islamici”), che la nostra visione del cosiddetto conflitto di civiltà andrebbe fortemente relativizzata, che non esiste un Islam moderato che si deve scusare per i casini che fa l’Islam fanatico. Peraltro, poveracci, loro sono in prospettiva le seconde vittime di questo attentato, sempre più stretti tra fanatismo religioso da un lato e ultraliberismo criptorazzista dall’altro.

In tutto ciò, alla fine di 4 giorni di delirio, resta la voglia di tornare all’inizio: tutti i ragionamenti di cui sopra non vogliono togliere nulla allo shock di una redazione di vignettisti satirici uccisi. Vignettisti tra cui c’è quel Georges Wolinski che fin da piccolo attirava la mia attenzione con le sue donnine procaci ed espressive quando riuscivo a trafugare i Linus di mio padre. A lui, a loro, sarebbero piaciute certe derive cretine e cattive che ho visto in giro, vignette sull’accaduto ma anche sulle reazioni post-attentato. La mia preferita è quella che mostra Gérard Depardieu che non ha capito un cazzo di come funziona la solidarietà social ed espone il cartello “Je suis Gérard” (non la trovo più ma mi ha fatto molto ridere).

Insomma, alla fine l’impressione che resta è che viviamo in un mondo di merda e bisogna sforzarsi veramente tanto per capirlo. Sempre di più.