LA SCUOLA DELL’ASSENZA

L’altro giorno l’ennesimo post che ho letto sulla situazione della scuola (era un post di Luca De Biase, come sempre riflessivo e stimolante) mi ha tirato fuori un commento un po’ lungo, così lungo che poteva essere un post a sé stante sulle meraviglie della didattica a distanza e sul miraggio di una scuola in presenza a settembre. E allora, eccolo qua.

Premetto che io ho un figlio che quest’anno ha fatto (si fa per dire) la prima elementare, quindi le mie riflessioni sono per forza di cose molto legate all’esperienza personale e familiare. Lo dico perché non ho alcuna pretesa di essere più di tanto universale nel mio ragionamento. Con tutta probabilità ogni scuola, proprio come ogni bambino, fa storia a sé.

E quindi, cosa è successo? Lo sappiamo tutti, a fine febbraio scatta l’emergenza Covid-19, così, da un giorno all’altro. La risposta della scuola, dopo qualche giorno di sconcerto, è la famosa didattica a distanza. Cosa vuol dire, nella pratica? La prima settimana passa attraverso la comunicazione di compiti su un gruppo WhatsApp di classe. Poi i docenti si confrontano tra loro e la scuola decide di adottare un sistema di DAD univoco, scegliendo WeSchool. Hanno evidentemente vagliato sia Google Classroom che altri sistemi, per concludere che – per l’età dei bambini e la maneggevolezza dello strumento – WeSchool era la soluzione più adatta.

WeSchool si configura come una specie di Gruppo Facebook di classe, con un Wall dove tutti possono postare, una Board dove gli insegnanti possono inserire lezioni, video, dispense, esercizi in forma di gioco (generalmente presi da Scratch), un ambiente di Test dove inserire delle verifiche con valutazione integrata e una Live Classroom basata su Jitsi. Ben presto l’ambiente viene “rodato”: non si sa per quanto tempo dovremo utilizzarlo (al momento sono 11 settimane), ma le cose almeno tecnicamente procedono bene, soprattutto a confronto con altre scuole in cui – veniamo a sapere – gli insegnanti si rifiutano di ricorrere alla DAD, probabilmente più che altro per scarsa competenza loro.

Perché vedete, il fatto è che nelle prime settimane di lockdown la maggior parte dei genitori (salvo uno sparuto gruppo di pessimisti cosmici di cui mi pregio di far parte) premeva e sbuffava e fremeva di malcontento perché “non si fa abbastanza DAD”, ossia non si fanno abbastanza videolezioni, i docenti non sono abbastanza preparati, sono “vecchi dentro”, non sanno affrontare la situazione e non si può rimanere indietro col programma e dove andremo a finire signora mia. Noi genitori “da elementari” (ribadisco che qui il punto di vista personale comanda la narrazione) eravamo già oltre, e capivamo già allora che il punto non era quello. Ma intanto la Ministra trionfalmente annunciava che la DAD si fa, la DAD funziona, e dove non funziona la facciamo funzionare.

A conti fatti, basandomi su una risposta “emergenziale” e considerando la cosa da un punto di vista prettamente tecnico, io da genitore e nerd sono soddisfatto di come è stata affrontata la DAD dai maestri di mio figlio, pur vedendo notevoli criticità nello strumento usato. In una società come quella italiana, fatta di piccole corporazioni tutte in lotta tra loro e tutte pronte a tirare la giacchetta al ministro di turno, non si può ignorare che alcuni docenti erano e sono tuttora “contro” la DAD per il semplice motivo che li porta fuori dalla loro comfort zone pedagogica. Da noi però tutti i maestri (di italiano, matematica, inglese e perfino quella di religione) si sono formati al volo sullo strumento, ne hanno testato potenzialità e limiti, hanno creato esercizi, cercato video e giochi accattivanti su YouTube e Scratch, anche se prevalentemente hanno continuato a distribuire le maledette “Schede” – in sostanza dei documenti in PDF da stampare e compilare per esercizio (le vecchie abitudini sono dure a morire).

Ecco il primo limite: la DAD presuppone che ogni famiglia abbia in casa una stampante funzionante e TANTA carta. Per non parlare poi dell’elefante nella stanza: la DAD ha messo in luce più di qualsiasi rapporto o studio accademico il digital divide italiano. Il 30% degli allievi non ha un PC o un tablet per collegarsi alle lezioni live (che da noi sono stabilite in 3 ore a settimana, una di inglese, una di italiano, una di matematica). Se non ce l’ha, può collegarsi dallo smartphone di un genitore, ma non è detto che la fruibilità sia la stessa. L’accesso all’istruzione improvvisamente va a due velocità: molti “restano indietro”. Anche qui, la nostra scuola è venuta molto velocemente in aiuto degli studenti in situazioni di disagio, fornendo tablet a chi ne aveva bisogno (fun story: hanno dato tablet con account da admin, per cui i bambini che li usano possono a loro piacimento zittire o espellere dalle lezioni on line tutti gli altri bambini, haha).

In definitiva: la DAD è stata un’esperienza per certi versi positiva, se non altro nella misura in cui ha forzato la mano a docenti, genitori e allievi a familiarizzare con una tecnologia utile e a costruirsi un’alfabetizzazione digitale (di ritorno per i docenti e i genitori, fresca per i bambini) che magari non avrebbero avuto occasione di avere, non così presto e non così in fretta. Abbiamo capito che si può fare, con un po’ di sforzo e di impegno, ma abbiamo anche realizzato molto in fretta che non è la stessa cosa per tutti gli ordini di scuola.

Per molti versi infatti la DAD nella mia esperienza è stata negativa, per una semplice questione che oggi, dopo tre mesi di lockdown delle scuole, è evidente a tutti. La scuola non è solo “istruzione”, è soprattutto “educazione” e “relazione”. I bambini di prima elementare, a differenza degli studenti delle medie e delle superiori, soffrono la videolezione. Tentano in ogni modo di interagire one to one, sono insofferenti, hanno uno span di attenzione molto basso, trovano difficile rispettare le regole che pure hanno imparato dei microfoni spenti, dell’alzata di mano, etc. Interrompono la lezione per raccontare una storia, dicono ai maestri che gli vogliono bene, a volte piangono o si scollegano, ma soprattutto devono essere costantemente seguiti da un genitore mentre sperimentano questa cazzo di relazione a distanza che da un lato ti illude di avere un amico o un adulto di riferimento vicino a te e dall’altro non fa che ribadirti quanto sei fottutamente solo. Inutile negare che il lockdown ha avuto un effetto pesantissimo su di loro, anche se non lo danno a vedere (lo capiremo meglio dai conti degli psicologi tra una decina d’anni).

Per questo le proteste dell’ultimo weekend, quelle organizzate sull’onda della campagna #noncisiamo di Mammadimerda (che a sua volta mette l’accento sul pericolosissimo problema sociale del peso che ricade sui genitori che lavorano in un momento in cui i bambini sono costretti a stare a casa) sono state particolarmente sentite soprattutto da chi come me ha i bambini alle elementari. La questione non è se la DAD sia stata un successo o meno. Nell’emergenza ci ha messo una pezza, e tutti quanti hanno imparato qualcosa. La questione è stata (ed è ancora) la totale mancanza di discorso pubblico sulla scuola, salvo la tradizionale sequela di minchiate vaghe della serie “abbiamo istituito una task force” e “rifletteremo su come riaprire”.

Ora arriva il punto chiave, e vi prego di non pensare che questa affermazione mi contraddistingua come un genitore no-vax, un babbo pancino, un irresponsabile runner padrone di cane e amante della movida, un veterosindacalista amico dei docenti che non vogliono impegnarsi. Sono solo un genitore di un bimbo di sei anni, e dalla mia posizione particolare penso questo: la scuola DEVE riaprire in presenza. La scuola avrebbe dovuto riaprire in presenza già a metà maggio, almeno per far finire l’anno con una parvenza di normalità. In presenza, ma in sicurezza. All’aperto, dato che la stagione lo consente. A piccoli gruppi, a turni, distanziati, con mascherine, insegnando ai bambini le regole della sanificazione, spedendoli a lavarsi le mani almeno 4 volte al giorno, invitandoli a pulire da soli i loro banchi come in Giappone, gestendo diversamente il sistema di ristorazione scolastica. Ci avete fatto caso? I protocolli di sicurezza sono stati scritti per le aziende, per i parchi, per i bar e i ristoranti, per gli stabilimenti balneari, per i negozi, a quanto pare addirittura per i centri estivi, ma NESSUNO ha scritto un protocollo di sicurezza per le scuole. Evidentemente è troppo difficile.

Se la riapertura per la fine dell’anno – lo abbiamo capito – è un’utopia, adesso che ci sono 4 mesi per studiare un protocollo di riapertura a settembre, la sensazione è quella che a Viale Trastevere pensino molto semplicemente di rivolgersi a una forma più o meno estensiva di DAD, vedendo solo il lato positivo dei successi ottenuti tra marzo e giugno. Ma questa cosa non può e non deve passare. Occorre una profonda ristrutturazione organizzativa, ma vorrei dire prima ancora proprio una ristrutturazione a suon di mattoni e calce della scuola italiana. Si può fare, se si ha la volontà di farlo.

Ma io sono un pessimista cosmico, e credo purtroppo che questa volontà non ci sia.