FOLGORANTI MASTERS OF HORROR

Come sempre, dopo una nottata al TFF gli occhi ti escono un po’ fuori dalle orbite. Questo è ancora più vero se hai fatto code lunghissime per vedere l’anteprima mondiale su grande schermo di Masters of Horror, la miniserie in 13 episodi (qui ne presentano 6) ideata da Mick Garris (noto ai più per essere il regista preferito di Stephen King che gli fa dirigere tutte le serie tv tratte da suoi libri). Garris è un simpatico tipo hippy che ha riunito colossi del calibro di Carpenter, Argento, Dante, Landis, Coscarelli, Romero e altri in una meravigliosa iniziativa. Immaginate che questi grandi, che al momento non fanno più film perché messi a tacere (Dante, Landis) o perché arrancano stancamente sul già visto per mancanza di stimoli (Argento) o perché se riescono a lavorare è con grande difficoltà economica (Romero, Carpenter), possano avere la massima libertà creativa ed economica, nessuna interferenza di censura, libero spazio alla loro macabra immaginazione, con l’unico vincolo di fare un film di un’ora e ambientato almeno in parte in Canada. Una pacchia, per noi e per loro. E così ieri sera quattro grandi ci hanno stuzzicato (Garris), disgustato (Argento), esaltato (Dante), terrorizzato (Carpenter). Garris propone "Chocolate", un thriller soprannaturale di discreta fattura, senza troppi sobbalzi. C’è Henry Thomas (ex ragazzino di E.T.) che sperimenta sul proprio corpo un orgasmo clitorideo (è in contatto psichico con un’assassina un po’ ninfomane). Argento con "Jenifer" racconta la storia malatissima di una ragazza dal corpo stupendo e il viso orrendamente sfigurato. E’ una specie di sirena che si nutre di carne umana e fa sesso in modo ultra-animalesco. Ovviamente porta alla rovina gli uomini che si prendono cura di lei… Argento si dà al gore che più gore non si può (occhio: è veramente rivoltante) e sembra voler dire "visto? anche se i miei ultimi film facevano schifo se voglio posso dare una bella zampata". La storia è tratta da uno dei mitici fumetti EC Comics, quelli stile Creepshow per intenderci. Dante si becca cinque minuti di standing ovation per il suo "Homecoming", storia di repubblicani alle prese con i corpi resuscitati dei giovani morti in Iraq. Gli zombi vogliono solo votare e rovesciare Bush!!! Grottesco, delirante, impagabile, geniale! Carpenter con "Cigarette Burns" realizza un film sulla traccia di Il seme della follia, portando il discorso sul potere del cinema all’estremo. Il film è sinceramente terrorizzante (c’è il film maledetto, un po’ di snuff, decapitazioni, accecamenti, intestini usati come pellicola, un inquietante angelo con le ali mozzate) e come dicono i Masters "it scares the shit out of you" (ti fa cagare addosso, letteralmente). Dopodiché, più che il cinema poté il digiuno. Si cena all’una con il kebab di Horas (via Berthollet), il kebabbaro più buono di Torino. Devo ancora digerirlo adesso…

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GUERRIERI… GIOCHIAMO ALLA GUERRA?

"Waaarriooooors… Come out and playyyyy-yyy" – la vocetta fastidiosa del trucidissimo cattivo dei Guerrieri della notte (che in italiano era altrettanto delirante con il suo "Guerrieeeeeeriiiiii… Giochiamo alla guerraaaa?…") risuona in tutta la sala. Il popolo del Torino Film Festival si riunisce per il primo mitico evento. Walter Hill porta a Torino il suo capolavoro The Warriors (1979) in versione Director’s Cut. Mitico. Basta dire che fuori dal cinema c’erano tre pazzi vestiti da Baseball Furies (una delle gang più vistose del film, quelli con la faccia dipinta e le mazze da baseball) che non attendevano altro che di essere fotografati e di poter toccare Walter Hill (simpatico sessantenne corpulento, un po’ come John Milius al quale lo accomuna la visione delle cose filtrata dal gusto per un certo tipo di western). Un western che è molto evidente in The Warriors, fumettone proto-hip hop con i truzzissimi Warriors alle prese con un "homecoming" un po’ difficoltoso, dato che tutte le gang di NYC sono convinti che abbiano ucciso Cyrus, il profeta del Bronx. Ma Hill propone al pubblico torinese una versione con (poche) inquadrature in più e soprattutto alcune transizioni a vignetta di fumetto, in cui personaggi e ambienti trascolorano dalla carta disegnata alla "realtà" della pellicola. Interessante. Forse si poteva risparmiare l’introduzione con il richiamo alle Anabasi di Senofonte, che non è per niente in tono con il resto del film, ma un director’s cut è un director’s cut e va rispettato. Bel feeling come sempre al TFF. Ulteriori eventi imperdibili dei prossimi giorni: la serie Masters of Horror (Argento, Carpenter, Landis, Dante, Hooper, Garris che si ritrovano a girare gli episodi di una serie televisiva culto), Dominion di Schrader (il vero prequel dell’Esorcista, altro che Renny Harlin), l’anteprima di No Direction Home di Scorsese sulla vita di Bob Dylan. Ci vediamo là.

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TRASFORMARE LA PORNOGRAFIA IN ARTE

La mostra di Robert Mapplethorpe che sta passando a Torino in questi mesi è assolutamente da vedere. Intanto è "la" mostra, nel senso che c’è praticamente tutto quanto è uscito dal suo obiettivo nei circa quindici anni della sua carriera di fotografo. E poi soprattutto per provare a vedere il mondo e noi stessi attraverso il suo occhio. Mapplethorpe è noto per essere il fotografo degli eccessi sessuali e omosessuali, il fotografo di Patti Smith, il ritrattista della New York off, il fotografo di omoni di colore con enormi attributi fallici, il fotografo sadomaso e perverso, il fotografo della purezza della forma. Per me Mapplethorpe è tutto questo insieme, ma in più la mostra evidenzia per così dire il suo debito nei confronti dell’arte classica, ponendo a confronto certi suoi stilemi con la scultura di Canova (e prima ancora quella classica greco-romana), con la pittura di Ingres, Géricault e Courbet, con la fotografia di Von Gloeden e Man Ray (altri due maestri dell’erotismo ambiguo). Come ha fatto Mapplethorpe a trasformare la pornografia estrema in arte? Semplice: ha trovato delle foto porno e ha pensato "Perché non potrei renderla arte studiandone la forma? In fondo non ci ha mai provato nessuno". Ed ecco che nasce il mito. Un percorso come il suo non sarebbe più possibile oggi, lo riconosceva lui stesso poco prima di morire nel 1989. Adesso intorno a noi c’è solo pornografia e purtroppo senza nessun filtro "artistico" o di forma. La sua frase che più ho apprezzato, riportata su un muro della mostra, è (parafrasando perché non la ricordo a memoria): "Fotografare un fiore o un pene per me è la stessa identica cosa: è tutta una questione di luce e di contorni". Certo è che la mostra ha il suo coté pruriginoso (hanno creato "la stanza nera" vietata ai minori con gli scatti più estremi)…! Per me l’unico problema è che un uomo si potrebbe anche sentire inadeguato vedendo tutte queste gioiose efflorescenze genitali. Comunque vale la pena. Anche il catalogo è bellissimo. Andateci.