TANTI FILM DI PAURA, DUE PISOLINI E UN MARVEL

Luglio col bene che ti voglio fa caldo e si guardano solo horror con l’ausilio del raffrescatore, perché qui il condizionatore non entra mai anche perché sto al quinto piano, basta aprire le finestre e passa tanta aria fresca, considerando però che si sentono anche i rumori del traffico e vivendo tra due ospedali in tempo di Covid le ambulanze sono parecchie (ricorderete che io sono quello della foto delle ambulanze della seconda ondata) e di conseguenza l’audio dei film si sente sempre poco anche perché devo tenere basso che io sti film li guardo sempre di notte e il bimbo dorme e le #recensioniflash le scrivo tipo alle due con il rischio che siano piene di refusi che poi correggo in seguito (se mi ricordo) e se no comunque sono un po’ bizzarre come ad esempio quando mi addormento mentre guardo un film e ne sogno delle parti che poi non si abbinano con quella che è la trama reale. Ma comunque ho visto anche Black Widow.

CENSOR (Prano Bailey-Bond, 2021)

Censor è un film passato da poco al Sundance che dovreste vedere se vi piace un certo tipo di horror. Il film è ambientato in piena epoca thatcheriana in cui – chi ha la mia età potrà ricordarlo – ci fu una legge contro i cosiddetti “video nasties”, cioè i film ultrasplatter del periodo come Driller Killer di Ferrara, Tenebre e Inferno di Argento, Cannibal Holocaust di Deodato e molti altri film (la polemica era che chi vedeva splatter avrebbe voluto anche performare splatter, una roba che da noi arriva qualche anno più tardi come “crociata contro Dylan Dog”). Quindi: anni ’80, estetica splatter/tristanzuola/VHS, personaggio principale che di lavoro fa appunto il “censor”, cioè l’impiegata statale che taglia tutte le scene tipo crani che esplodono, occhi strappati, cannibalismo vario e tutte le amenità che facevano grande il cinema horror anni ’80. Una riflessione meta-horror, un po’ come Berberian Sound Studio (dove il malcapitato protagonista era un tecnico del suono) che mima lo stile del giallo all’italiana negli eccessi, nei colori, nelle allucinazioni. La protagonista oltre a doversi sorbire ore di splatter da tagliare ha già di suo un trauma grosso come una casa: la sorella è scomparsa quando erano piccole e a lei pare di vederla in uno dei film da censurare. Da lì in poi è una lenta discesa nella follia, perfetta fino a che – nel terzo atto del film – si butta tutto in caciara (o si arriva al sublime, a seconda di come la vogliamo vedere) con un finale matto e disperatissimo. Diciamo che per replicare filologicamente la struttura dei film del periodo la regista (la quasi esordiente Prano Bailey-Bond) ha deciso di far finire il suo film PROPRIO come se fossimo nei primi anni ’80, con un urlo convulso e completamente scollegato dalla realtà. Può piacere, a me è piaciuto assaje. #recensioniflash

FEAR STREET: 1994 (Leigh Janiak, 2021)

Se state pensando di vedere Fear Street: 1994 su Netflix… beh, secondo me vedetelo! All’apparenza un horror all’acqua di rose e derivativo come fosse l’ultimo degli stanchi epigoni di Wes Craven, con il contentino di Maya Hawke fatta sparire quasi subito, in realtà ha il suo perché. Sicuramente è un pastiche di vari archetipi dell’orrore, dallo slasher al film di possessione diabolica / stregonesca, ma non è mai compiaciuto, se capite cosa intendo, e soprattutto si diverte a disattendere le aspettative. Nel senso che le aspettative erano “sarà una cagata” e invece, non sarà Quella casa nel bosco di Drew Goddard, ma è comunque una visione abbastanza spiazzante. Prima di tutto per il lavoro sui protagonisti, che nello slasher classico muoiono male seguendo “le regole” che ormai tutti sappiamo a memoria, e che invece qui – almeno fino ad un certo punto – seguono tutto un altro percorso. Poi per il lavoro sul genere e sui practical effects. A chi piace il gore, siete avvertiti: per tre quarti di film sembra il classico direct to video dedicato a un pubblico di adolescenti, poi esplode la macelleria negli ultimi 20 minuti, con un omicidio talmente disgustoso che nemmeno nei peggiori video nasties anni ’80. Ovviamente Fear Street: 1994 è parte di una trilogia netflixiana che prevede anche tra pochi giorni Fear Street: 1978 e poi Fear Street: 1666. Vedremo come continuerà questo esperimento a metà tra una trilogia cinematografica e una serie TV (c’è il cliffhanger alla fine di questo primo film). A me ha incuriosito e continuerò.  #recensioniflash

FEAR STREET: 1978 (Leigh Janiak, 2021)

Ormai è un po’ che sono indietro con le #recensioniflash quindi ve ne sparo qualcuna a raffica, cominciando dagli altri due film di Fear Street che si agganciano al primo, visto qualche tempo fa e che in effetti dovrebbero viaggiare sul filo della “recensione unica”. Sì perché Fear Street 1978 e Fear Street 1666 non possono essere visti da soli, sono parte di un nuovo “ibrido cinetelevisivo” che mantiene i tempi del cinema favorendo una visione seriale consumabile come una miniserie TV. A sua volta però caratterizzando in modo molto particolare i tre film l’uno rispetto all’altro. Insomma, a mio avviso un esperimento interessante. Intendiamoci, sempre di teen horror premasticato e patinato di nostalgia si tratta. Però schifo non fa, assolutamente. Se il primo film pescava a piene mani da Scream e da un immaginario horror già postmoderno, Fear Street 1978 si attesta pari pari sullo slasher alla Venerdì 13 (il campeggio è proprio QUELLO), con morti ammazzati meno fantasiosi ma con una tensione onesta che recupera certe soluzioni registiche e certe dinamiche anni ’70-’80 in modo gustoso. L’innesto della storia del maleficio della strega permette a questo film – che in sostanza è un lungo flashback – di portarci alla terza parte, che a sua volta è un flashback ancora più indietro nel tempo.

FEAR STREET: 1666 (Leigh Janiak, 2021)

Fear Street 1666 è il più interessante dei tre film della trilogia netflixiana. Leigh Janiak vorrebbe fare Eggers ma non ci riesce, per ovvi motivi di target, direi, ma confeziona un interessante omaggio ai film di caccia alle streghe, rivelando sempre di più quello che Fear Street veramente è (uno studio di personaggi mascherato da film horror per teenager) e insistendo molto sul discorso della diversità. Terminata la storia della strega che lancia il maleficio che come già sappiamo colpisce la sfortunata cittadina di Shadyside e avute le rivelazioni che servivano… si torna di colpo al 1994, dove l’intreccio viene risolto con tanto di inquadratura inquietante dopo i titoli di coda che lascia lo spiraglio aperto per ulteriori seguiti. Oh, a me ha divertito, poi è chiaro che è un’operazione dedicata ad una fascia di pubblico che non è propriamente la mia, ma è un po’ il discorso dei Maneskin: non sono un gran che, ma se li ascolti e ti viene voglia di suonare ben venga. Qui la voglia che ti dovrebbe venire è quella di guardarti tutti gli horror possibili. #recensioniflash

A CLASSIC HORROR STORY (R. De Feo / P. Strippoli, 2021)

A Classic Horror Story su Netflix è un bell’esperimento fuori tempo massimo, uno di quei film che dici “minchia, ma è molto poco italiano” (nel senso di Stanis La Rochelle) e poi invece mi cade di brutto sul finale… peccato! Come dice il titolo è una storia dell’orrore classica, che più classica non si può. Mette insieme slasher, soprannaturale, folk horror e torture porn, spiazzando lo spettatore all’incirca ogni 20 minuti. Ma mentre la prima parte è efficace, con la caratterizzazione dei personaggi sgradevole il giusto e un senso di oppressione che deriva da scelte di regia e fotografia molto azzeccate, è dal momento in cui il film si rivela per un’operazione metacinematografica che comincia a perdere un po’ di colpi per arrivare poi a uno scivolone finale inutile e moralistico (quello sì, “molto italiano”). Eppure ci sono molti punti di forza nel film, a partire dalla volontà di trasformare la Calabria in luogo da incubo e di costruire una mitologia horror credibile con la leggenda di Osso Mastrosso e Carcagnosso (i tre mitici fondatori delle mafie italiane). Ci sono dei colpi di scena non telefonatissimi, ci sono interpretazioni convincenti, ci poteva essere molto più sangue per i miei gusti, dato che gran parte del film ruota intorno al concetto di snuff – quindi speriamo in una versione uncut perché allo stato attuale tutte le torture sono viste da lontano o se viste da vicino si interrompono subito prima del “momento Fulci”. A copiare comunque bisogna essere bravi, e i riferimenti espliciti (Midsommar, The Wicker Man, Quella casa nel bosco soprattutto) risultano un po’ troppo buttati lì. Francesco Russo (l’autista calabrese che si porta nell’incubo tutti gli altri) è bravo anche quando è un po’ sopra le righe e rattuso quando serve. Un’occasione mancata, un bell’horror interruptus. Comunque un grosso daje ai registi Paolo Strippoli e Roberto De Feo. #recensioniflash

WONDERSTRUCK (Todd Haynes, 2018)

Sto perdendo colpi. Nelle ultime sere ho voluto vedere due film di qualche anno fa che da un po’ tenevo in lista (Wonderstruck di Todd Haynes su Prime e BuyBust di Erik Matti su Netflix). Vi dico subito che entrambi i film mi hanno fatto addormentare a più riprese, per cui le #recensioniflash saranno veramente flash, oltre che probabilmente un po’ psichedeliche.
Wonderstruck sulla carta è perfetto, è tratto da un romanzo grafico che ho molto amato di Brian Selznick (anche sceneggiatore), mette insieme due storie di bambini alla ricerca di un genitore, uno nel 1977 e una nel 1927 e riprende il tipo di fotografia e di aspetto dei film delle due epoche, in un montaggio alternato molto interessante. Purtroppo dopo una mezz’ora in cui è tutto molto di atmosfera e i due bambini (entrambi sordi) decidono di andare l’uno alla ricerca del padre, l’altro della madre, mi sono addormentato e il resto della trama l’ho probabilmente sognato. Mi sono risvegliato ai titoli di coda che sono molto ben fatti. Aggiungerei che è tipo la quinta volta che provo a vederlo e non ho mai visto più di mezz’ora.

BUYBUST (Erik Matti, 2017)

BuyBust è un altro film che sulla carta spacca, action filippino con un bodycount impressionante, che consiste quasi totalmente in un bagno di sangue di sparatorie e ammazzamenti al coltello e col machete. C’è un’agente antidroga che partecipa ad un’azione per catturare il boss latitante, ma è una trappola, la squadra finisce nel barrio e gli abitanti del barrio non sono precisamente amichevoli. OK, è uno stile un po’ differente a quello cui siamo abituati, ma Erik Matti gira tutto in camera a mano, montando tipo 80 inquadrature al minuto e dei combattimenti si capisce un po’ poco. Qui sono riuscito a reggere fino al minuto 56, dopo mi sono assopito e risvegliato ogniqualvolta si sventagliava una raffica di mitra. Il finale me lo sono perso ma fidatevi se vi dico che muoiono tutti (tranne la protagonista).
In questi giorni va così. #recensioniflash

BLACK WIDOW (Cate Shortland, 2021)

Ho visto Black Widow con scarsa motivazione ma alla fine mi sono ricreduto: è proprio dove sulla carta c’è meno interesse che i film Marvel mi stupiscono. Finalmente un film dove non per forza devi ricordarti ogni dettaglio dei precedenti o contemporanei film del giro, basta avere un’infarinature di chi sia Black Widow. Finalmente Scarlett che ha un adeguato screen time, fiancheggiata da un ottimo cast (Florence Pugh perfetta nel ruolo della “sorella” Yelena e poi Rachel Weisz e David Harbor). Inizio stile The Americans che già setta il tono del film, e poi via come è giusto che sia, con un action thriller alla Bond (peraltro esplicitamente citato) con scene di combattimento e/o di inseguimento da manuale – a me è piaciuta particolarmente la lotta “casalinga” tra Widows, l’inseguimento in moto/auto, il salvataggio di Red Guardian dal carcere siberiano. Il personaggio di Red Guardian meriterebbe un film a sé, ovviamente. Comprensibile senza essere banale, spettacolare ma in modo “tradizionale”, soddisfacente nelle premesse e nel finale (oltre che nella proverbiale scena post-credits che suscita sempre maggiore curiosità nei confronti del ruolo di Julia-Louise Dreyfus, già vista in The Falcon and the Winter Soldier), Black Widow è il film “medio” che vorrei vedere più spesso, per spegnere il cervello senza però sentirmi veramente idiota. Nella foto, Posawoman. #recensioniflash