DIARIO DEL DISAGIO

Negli ultimi mesi – facciamo pure nell’ultimo anno – una situazione nuova e vagamente spiacevole ha preso piede nella mia esistenza: il disagio.

Il disagio è difficilmente esprimibile a parole, è un misto di ansia, noia, peso delle responsabilità, angoscia, tristezza per qualcosa di poco definibile, con pennellate di reazioni fisiche come rigidità, gelo, scarsissima energia. Come se corpo e mente volessero tantissimo un letargo infinito ma tu devi procedere nelle cose della tua vita, e quindi tutto diventa molto difficile.

Scriverne mi aiuta molto a focalizzare qualcosa che altrimenti è sfuggente per natura, e infatti da mesi tengo un “diario del disagio” che descrive minuziosamente il caos calmo dei miei pensieri, le più piccole sfumature delle mie emozioni e il loro riverbero in manifestazioni corporee. Si tratta di un diario tutto sommato noioso, in cui di tanto in tanto qualcosa rompe la routine e spicca, ma che di norma è fatto di ansie, e di strategie per contenerle.

Ecco, le strategie. Di decennio in decennio le strategie non possono evidentemente essere le stesse. Perché le cose che mi procurano ansia non sono le stesse di tanti anni fa. Oggi come ieri cerco equilibrio, centratura, leggerezza. Ma è sempre più difficile trovarli.

In questi mesi, con l’aiuto di una terapeuta, ho capito alcune cose.

1 – Mettere barriere aiuta a proteggersi ma c’è un prezzo da pagare. Tanti anni fa, alla morte di mio padre, avevo deciso che – fragile com’ero – avrei tirato su una barriera protettiva contro gli infausti eventi del destino. Lo so, sembra assurdo dire che “ho deciso”, ma ricordo perfettamente di averlo pensato in questi termini. Per dieci anni ho tirato avanti egregiamente, protetto da una sorta di intonaco esteriore impermeabile alle avversità che oggi si sta sgretolando. Lo sto sgretolando io. Perché le barriere proteggono, ma tolgono l’aria.

2 – Occorre liberarsi dalle cianfrusaglie emotive. Il problema è un problema di spazio. Non c’è spazio. Ci sono troppi oggetti, situazioni, ricordi, legati ad emozioni più o meno spiacevoli, che affollano l’orizzonte. Non c’è spazio e c’è invece peso, fisico ed emotivo.  Ma liberarsi di questi oggetti, di queste emozioni, è molto difficile. Può essere difficile iniziare a farlo e può essere difficile continuare dopo che si è iniziato (io, per la cronaca, ho quantomeno iniziato). Per quanto sembri comodo procrastinare e/o spazzare tutto sotto un metaforico tappeto, questo non aggiunge che ulteriore peso e sensazione di soffocamento.

3 – Occorre capire cosa vuol dire spazio “per sé”.  Ingenuamente si è portati a credere che lo spazio “per sé” voglia dire avere dei momenti liberi, del tempo da impiegare secondo i propri desideri del momento. E in una minima parte, lo spazio è anche questo. Ma lo spazio per sé è soprattutto uno spazio per ascoltare l’ansia. Inutile tergiversare, se ti tira per la giacchetta, magari facendoti anche venire attacchi di panico, rash cutanei o pianti immotivati, è perché c’è bisogno di fermarsi, ascoltarsi, comprendersi, darsi il permesso di essere così come si è senza giudicare. Vedo la mia ansia come una versione infantile e lagnosa (ma molto potente) di me stesso. Contenerla è stancante, ma se lo fai se ne va contenta.

4 – C’è qualcosa di nuovo nell’aria. Anzi di antico, direbbe il mio amato Pascoli. Questo qualcosa di nuovo sta lottando per venir fuori dalla barriera. Ha aperto delle crepe, ha messo in moto delle cose, sta lavorando per tornare alla luce. Non so cosa sia, ma sento che viene da lontano. Probabilmente c’è sempre stato, c’era “prima”. Per proseguire sulla china pascoliana, sono stanco di “vivere altrove”.

Tutto questo processo è estremamente faticoso, perciò l’unica cosa che mi viene in mente per concludere il ragionamento è ringraziare chi condivide parte della fatica quotidiana con me.
Ogni persona è preziosa a suo modo. E senza condivisione non ce la si fa.