PIANETI SELVAGGI

Avatar è meraviglioso.
Nel senso che è “mirabile”: non è un film da vedere – è da guardare. Spero di poter argomentare in pochi paragrafi quello che voglio dire. In effetti, è un po’ una questione di sfumature.

La meraviglia è l’emozione che ci prende quando vediamo qualcosa di nuovo, grandioso, perfetto, insolito. Come Avatar. La meraviglia non sta nel cuore, non sta nella testa, non sta nemmeno nello stomaco. La meraviglia è una questione puramente di sguardo, di occhi. Non a caso, ripensandoci, Avatar si apre e si chiude con un dettaglio di occhi. Gli occhi del “prima” e gli occhi del “dopo”. Con il film stesso a fare da spartiacque.

Che ci crediate o meno, per me è vero: Avatar è un punto di svolta. Non tanto o non solo per gli effetti speciali, che ci sono tutti e si vedono (ma non si “guardano”). Non tanto per la storia, che è classicamente hollywoodiana, nel senso migliore di “archetipica” e “universale” (non starò qui a far l’elogio della struttura e della cosiddetta “formula di hollywood” – c’è un articolo che ho pescato in rete che analizza perfettamente il problema, non tanto in merito al successo di Avatar quanto all’insuccesso di Baarìa, blockbuster con i piedi di argilla). Avatar è un punto di svolta e anche un nuovo punto di partenza. Un cinema di ingegneria che costringe a guardare al passato e al futuro nello stesso tempo, una proposta (tardiva) per il nuovo secolo così come Titanic, nel bene e nel male, era stato una summa narrativa, visiva e tematica del ventesimo secolo.

Ma lasciando da parte le speculazioni teoriche, diciamo pure che Avatar è un film soddisfacente. Ha poche cose che non funzionano, pochissime cadute di stile, e le sue quasi tre ore scivolano via in una sorta di esperienza psichedelica acuita dal 3D. Non un 3D becero stile “ti tiro gli oggetti verso la cinepresa così ti spaventi e salti sulla sedia”, ma un 3D che rende reale l’illusione di trovarsi su un pianeta alieno, studiato nei minimi dettagli (e in questo Cameron ha raggiunto la forza mitopoietica di un Lucas, tanto per intenderci). Avatar è un film di spessore. Te ne rendi conto quando pensi che Cameron – il folle – ha inventato da zero una cultura, una lingua, una società, una flora, una fauna, etc. Senza peraltro farlo pesare troppo.

Avatar è anche la summa del precedente cinema di Cameron. Ci sono gli esoscheletri che fanno molto Aliens (peraltro c’è anche la Weaver, uno dei personaggi migliori del film); ci sono i militari e le multinazionali contro gli scienziati affascinati dagli alieni; ci sono aggeggi che fanno tanto Strange Days (l’ha scritto lui)… e molte altre cose che si possono notare con compiacimento o disappunto (a seconda di quanto si apprezza Cameron). D’altra parte, si dice dei grandi autori che “fanno sempre lo stesso film“. Certamente è un po’ così anche per Cameron (anche se lui è più De Mille che Stroheim). Il sottotesto new age / spiritualista (Pandora come Gaia) può risultare vagamente irritante, ma l’idea di un popolo “connesso” con piante, animali e ambiente, e di un pianeta che in fondo altro non è che una gigantesca rete neurale a me è sembrata azzeccata e per certi versi illuminante: Avatar film del futuro ma ancorato ad un passato remoto filtrato dalla nostalgia del “buon selvaggio”.

Peraltro c’è azione, avventura allo stato puro, guerra, amore, pericolo, beatitudine visiva, un finale che te lo aspetti ma che ti fa felice lo stesso, perché a quel punto, dopo che porti i tuoi dannati occhialini da circa due ore, hai capito anche tu che la vera realtà è Pandora, e fuori non c’è altro che nebbia, grigio e nevischio. Avatar fa lo stesso effetto che facevano (nel mio caso) 30 anni fa i romanzi di Jules Verne. Meraviglia, per l’appunto. Uno stato dello sguardo che è fondamentale riuscire a non perdere.

Criticare negativamente Avatar è inutile. Avatar è inattaccabile, sta lì come il monolito di 2001. Un prodotto commerciale perfetto che magari non “cambierà radicalmente l’industria del cinema” ma resterà sempre un momento chiave, un crocevia per capire dove stiamo andando, o dove potremmo andare. Stroncarlo a priori perché è troppo pubblicizzato / troppo costoso o a posteriori perché “non ha lo spessore della fantascienza filosofica” (e poi ancora, un po’ di attenzione, guardatelo invece di limitarvi a vederlo) significa portarsi dietro costruzioni mentali che è sempre meglio lasciare fuori dalla sala, in generale.

In fondo, non mi stancherò mai di ripeterlo: c’è bisogno di andare al cinema con occhi puliti.
Come quelli di Jake Sully, che si aprono sull’ultimo frame di Avatar ad una nuova visione.

BEATI I DURI DI CUORE

Di mattina io sono tendenzialmente indifeso. Come i vampiri, rifuggo da qualsiasi luce. Mugugno e bramisco, mi trascino dentro i vestiti e fuori di casa. Solo dopo le 11 mi sono completamente ricomposto e riesco ad interagire in modo sano con il mondo. Ecco perché ho deciso che la matinée cinematografica è una buona cosa. Perché vai veramente al cinema con occhi puliti, liberi, e senza protezioni.

La matinée di oggi era dedicata ad UP, il nuovo film Pixar.
Ora sono le sette di sera, e mi sto riprendendo un po’ solo adesso.

Quando deve uscire un nuovo film Pixar io – già alcuni mesi prima – sono lì che spulcio i siti di cinema per vedere qualche immagine, qualche anticipazione. E nel caso di UP pensavo: ma cosa mi spiega un film con un vecchio che fa volare la casa coi palloncini? Divertente, sicuro, ma abbastanza idiota. Stamattina, uscito dalla sala, pensavo: ma com’è possibile realizzare un film d’animazione sulle difficoltà dell’elaborazione di un lutto e portare a casa il risultato senza colpo ferire?

Perché, ragazzi, UP è un mix impossibile. Impossibile. Roba che metà del pubblico in sala (i bambini) ride in modo convulso e l’altra metà (gli adulti) singhiozza senza ritegno. Lo so che voi sapete già che io ho la lacrima facile. Piango sempre ogni volta che vedo Mary Poppins, Il mucchio selvaggio o Shakespeare a colazione. Ma si tratta di una lieve commozione. Con UP dopo i primi dieci minuti di una magistrale sequenza a montaggio avevo già cestinato due fazzoletti pieni di lacrime e moccio. L’unica consolazione è che anche la tipa due sedili più in là faceva lo stesso.

Poi, va da sé, si ride anche tanto. Ma il bello del film è questo procedere su due registri sovrapposti come carta velina in cui se chiedi a un bambino ti dirà che è la storia di un simpatico vecchietto che decide di partire per il sudamerica facendo volare la sua casa con migliaia di palloncini e vive mille avventure con un bimbo ciccione un cane parlante e uno struzzo psichedelico. OK, magari il bambino non direbbe “psichedelico”. Lo dico io. Chiedilo a me, e ti dirò che è la storia di un vecchio triste, solo e abbastanza sgradevole che non riesce ad accettare la perdita della moglie e si porta dietro un lutto pesante come una casa, per poi lasciare finalmente che i morti stiano dove devono stare: al di là delle nuvole, vicino alle cascate del paradiso. Aiutato in questo percorso da un bambino ciccione, un cane parlante e uno struzzo psichedelico che alternativamente adottano, consapevoli o meno, il ruolo di terapista comportamentale.

Come dicono tutte le recensioni possibili su UP, la Pixar riesce incredibilmente a superare sé stessa ogni cazzutissima volta: fidatevi, è vero – e non era facile fare meglio di Wall-E. Il problema è che se qui ti porti i popcorn in sala, rischi che ti rimangano in gola. Siete avvertiti: gli agguati sono all’inizio del film, a metà e alla fine. Quello più devastante è a metà. Alla fine pensi che non hai più lacrime ma qualcosa resta sempre.

Ah, un’altra cosa. Se non avete occhiali neri coprenti con voi (o se avete la fortuna di essere molto, molto duri di cuore), sarà estremamente imbarazzante uscire dalla sala. Magari siete in uno di quei multisala tipo quello vicino a casa mia, che è incastonato in un meraviglioso centro commerciale. La folla di acquirenti domenicali guarderà i vostri occhi rossissimi e il moccio (che nel mio caso cola su un bel paio di folti baffoni neri) e vi prenderà per pazzi.

Volete un giudizio in sintesi?
Non andate a vedere UP: è meraviglioso.

CINEMA CHE UCCIDE

Ho (ri)scoperto un nuovo concetto di cinema: la matinée. Quando ero piccino io, si poteva andare al cinema a tutte le ore del giorno, diciamo dalle 10 in avanti. Durante la mia adolescenza questo tipo di orario è stato riservato solo alle sale a luci rosse (quasi come se avessero capito che i miei gusti stavano cambiando). Dagli anni ’90 in poi l’unica possibilità di andare al cinema di mattina per me è stato (ed è tuttora) il Torino Film Festival. E invece, che ti combina il Pathé (sarebbe il cinema vicino casa)? Organizza le matinée domanicali alle 11! A prezzo ridotto! Con tamarri in sala pari quasi a zero! Troppo bello per essere vero… Lo testo subito con un caffé macchiato e una visione totalizzante di Inglourious Basterds!

Lo so, sto usando troppi punti esclamativi rispetto al solito! Adesso mi calmo. Non è così facile parlare senza esclamazioni di Inglourious Basterds.

I bastardi, o li ami o li odi. Un po’ come tutto il cinema di QT. C’è qualche detrattore, che punta il dito sul solito pasticcio di generi e stili. Ma QT in questo è un po’ come il nostro Mr. B.: i suoi ammiratori (me compreso) vengono improvvisamente spogliati di senso critico una volta entrati in sala. E comunque dài, a mente fredda: Inglourious Basterds è il miglior film di QT dopo Pulp Fiction. Voglio dire, non è che non ci siano stati film entusiasmanti, nel frattempo. Ognuno con i suoi buoni motivi per assurgere all’olimpo dei film del cuore di ogni bravo fanboy. Ma qui si deborda meno, si godardeggia di più e il solito citazionismo colpisce maggiormente al cuore.

Tra l’altro un film in cui le due anime, americana ed europea sono perfettamente bilanciate. Un film che purtroppo non sono riuscito a vedere in originale: porca zozza, il 90% del film è in francese o tedesco, costava tanto lasciare anche quel 10% di inglese… in inglese? Ma non si può pretendere tutto da una matinée, immagino. Un film che come sempre ha una soundtrack ricca di colpi di scena: stavolta è quasi tutto Morricone riciclato, con un pizzico di Schifrin e Bernstein e una chicca nel prefinale tutta da gustare (vedi sotto).

I primi quattro capitoli del film (sì, anche questo è diviso in capitoli) sembrano altrettanti film a sé stanti, salvo poi ritrovare tutti i personaggi nel quinto, catartico, capitolo (dal titolo più improbabile di tutti “La vendetta della faccia gigante“). Semplificando, il primo capitolo è quello che fa da subito gridare al capolavoro. Quello che evidenzia con un apparentemente semplice dialogo sul latte, le pipe e la vita contadina tutta l’idea tarantiniana di “spaghetti western nella francia nazista”. QT scomoda Sergio Leone e John Ford in modo non gratuito (diciamo pure che nulla nel film è “gratuito” e che QT si è abbastanza tenuto, stavolta). Circa mezz’ora di interrogatorio in cui la tensione aumenta fino ad esplodere nell’ultimo minuto della scena. E con buona pace di tutti gli altri interpreti, Christoph Waltz meriterebbe dieci Oscar.

Il secondo capitolo è… Beh, il “solito” QT. Quello che ti aspetti – quello su cui ha puntato il trailer e tutto il marketing del film. Brad Pitt e soci che fanno lo scalpo ai nazi e gli spaccano il cranio con le mazze da baseball. C’è tutto quello che ci piace, in una mezz’ora a tratti un tantino autocelebrativa ma sempre estremamente godibile. Nel terzo capitolo incontriamo (ritroviamo) la vera protagonista del film, Shosanna Dreyfus. Gestisce un cinema nella Parigi occupata, dice frasi immense come (cito a memoria) “Sono francese. Noi francesi rispettiamo i registi” e si trova la sua tremenda vendetta servita su un piatto d’argento.

Il quarto capitolo contiene l’immancabile stallo alla messicana con massacro finale, impreziosito da un cameo di Mike Myers nel ruolo del generale Fenech (!) e da una Diane Kruger mai così in parte (il dialogo sul tavolo operatorio tra lei e Brad Pitt cancella le “colpe” di Troy). Il quinto capitolo comincia con una sequenza da antologia (la mia preferita del film): Mélanie Laurent / Shosanna si trucca sulle note di David Bowie prima del massacro cinematografico. Come dire: i film di QT sono sempre stati un po’ un gioco di testa. Nel quinto capitolo di Inglourious Basterds si abbandona la testa e ci si sposta nel cuore. Nella passione dell’odio, dell’amore per il cinema e nel cinema, della vendetta. Una fantasia bruciante in cui anche la storia cambia, perché non è la storia che interessa a QT ma la fiamma dei suoi personaggi.

Tutto va a fuoco, mentre è una faccia gigante su uno schermo argenteo a vendicare l’olocausto.
Il cinema che vince sulla realtà. Il cinema che uccide.