THE ELECTRIC STATE: OCCASIONE SPRECATA

È difficile dire qualcosa di positivo su The Electric State dei fratelli Russo, il pompatissimo (di soldi) film Netflix che doveva essere il culmine dell’offerta 2025. Ci provo. The Electric State è tratto da un libro illustrato bellissimo di Simon Stålenhag che da noi è uscito nella collana Oscar Ink e ci prova veramente tantissimo a restituire quelle atmosfere a metà tra sogno e retrofuturismo.

Il problema poi è che ci troviamo di fronte a Millie Bobby Brown e Chris Pratt, che sono – come dire – un po’ fuori contesto. Capisco l’esigenza di squadernare un parterre di star più o meno affiliate a Netflix (ci sono anche Giancarlo Esposito, Stanley Tucci e Ke Huy Quan). Ma c’è la sensazione che tutti i cameo siano sprecati e che i due interpreti principali siano totalmente fuori posto.

Azzardo: potrebbe essere un problema di scrittura, la questione di aver voluto spingere un po’ troppo sul pedale dell’action e degli effetti speciali per creare uno di quei buoni vecchi film di avventura per famiglie: ci sta. Ma il risultato è spiazzante, altalenante e appunto disequilibrato.

Si salvano giusto alcune interpretazioni “robotiche” (con le voci di Woody Harrelson, Alan Tudyk, Hank Azaria, Brian Cox) e il ragazzino che purtroppo vediamo solo all’inizio e alla fine, Woody Norman, già protagonista eccezionale di C’Mon C’Mon, nel ruolo di Cristopher.

Ah, la trama: in una ipotetica guerra tra umani e robot svolta negli anni ’90, gli umani hanno vinto e i robot vivono in una riserva isolata dal mondo. Intanto Millie Bobby Brown resta orfana e perde anche il fratello geniale Cristopher. Un giorno le si presenta un robot che sembra aver introiettato la coscienza del fratello. Seguono avventure pazze in compagnia di Chris Pratt per sgominare la multinazionale cattiva e salvare il fratello.

Finale dolceamaro aperto, ma grandissime perplessità.

A REAL PAIN: CUGINANZA E OLOCAUSTO

Succede sempre così, che l’ultimo film che vedo tra quelli candidati agli Oscar alla fine è quello che preferisco. Cioè: non ho ancora visto The Brutalist, ma di quello proprio non mi fido. A Real Pain di Jesse Eisenberg, invece, è un piccolo film: una commedia sul tema dell’olocausto (un vero e proprio sottogenere ormai). Che è anche un buddy movie. Che è anche un road movie. E che mette in scena due personaggi scritti e interpretati splendidamente. Un film per il quale c’è da emozionarsi e che ricorda certe prove di metà anni ’70 di Woody Allen.

David (Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin, meritatissimo premio Oscar) sono due cugini in viaggio da New York alla Polonia per un tour sui luoghi dell’olocausto e per visitare la casa natale della loro formidabile nonna, scampata ai campi di sterminio nazisti. David e Benji non potrebbero essere più diversi. Il primo è pignolo, nevrotico, pieno di tic e socialmente inetto. Il secondo è senza filtri, infantile, ma anche affascinante, diretto e capace di entrare in contatto profondo con chiunque.

Il viaggio organizzato con una guida inglese (Will Sharpe) ha altri partecipanti, tra cui una sorprendente Jennifer Gray: tutti loro prima o poi cedono al fascino e alle proposte matte di Benji, oppure – in molti casi – sono vittima degli scatti emotivi di rabbia di Benji che evidentemente nasconde un disagio profondo, anche più del cugino.

Tra una canna fumata sui tetti di Varsavia, una visita al campo di Majdanek, e la scoperta della casa della nonna – una porticina abbastanza ordinaria in un villaggio vicino a Lublino – il rapporto tra i due cugini, un tempo così legati, si dipana sciogliendo alcuni nodi emotivi formatisi negli anni della maturità (David è sposato con un figlio e un lavoro stabile, Benji non ha nulla di tutto questo).

Tutto il film è in perfetto equilibrio tra dramma e commedia, non c’è nulla di fuori posto e c’è un ritmo precisissimo nel montaggio che è guidato da una colonna sonora quasi tutta a base di sonate di Chopin. Lo studio dei personaggi, anche di quelli minori, è eccellente. Ma se c’è una cosa per cui ricorderete A Real Pain è l’inquadratura finale.

Si tratta di uno di quei finali che a casa mia ti fanno dire “No, dai, se finisce così mi incazzo“. E poi ti incazzi, ma nello stesso tempo capisci. Che forse, in quei due fugaci secondi prima dei titoli di coda, il dolore può essere elaborato e un futuro ci può essere, per tutti.

OCEANIA E IL PROBLEMA DEI SEQUEL FOTOCOPIA

Quando si dice “andarci coi piedi di piombo“. Dopo i flop di Strange World e Wish, Disney torna… ai sequel. Oceania 2 nasceva per essere una serie su Disney Plus e invece è arrivato in sala. Nulla di male, sempre se non contiamo che nei prossimi anni ci toccheranno Zootropolis 2, Frozen 3 e 4 e via sequelando. Il problema di Oceania 2 è che è essenzialmente uguale a Oceania, ma con canzoni non memorabili e personaggi di contorno dimenticabili.

L’animazione è sempre al top, l’oceano come ambientazione è sempre eccezionale, fa piacere rivedere il maialino, il pollo, i pirati kakamora, Maui (qui parecchio depotenziato) e Vaiana “cresciuta” (adesso ha anche una sorellina molesta)… però non ci siamo sulla storia.

Vaiana è la navigatrice ufficiale del suo popolo e deve riunire tutti i popoli della Polinesia. Per far questo deve tirar fuori dai fondali oceanici un’isola maledetta dal dio delle tempeste Nalo. L’isola di Motufetu, da cui partono tutte le “correnti” che richiamano i navigatori dei vari popoli, è protetta da una sorta di gigantesco mollusco all’interno dei quali Vaiana e il suo equipaggio (una piacevole quanto poco sfruttata novità) si trovano imprigionati.

Qui incontrano Matangi, una donna pipistrello doppiata da Giorgia, che sembra una scagnozza di Nalo ma alla fine aiuta i nostri eroi. Boom! Crash! Gli eroi ce la fanno, Vaiana muore e poi risorge come semidivinità (così ho capito io, almeno) e torna unendo tutti i popoli della Polinesia. 

Alla fine c’è una scena nei titoli di coda un po’ stile Marvel che ci anticipa (dio non voglia) Oceania 3. Vabbè.