SENSE OF WONDER

Lo stupore, la meraviglia. Quel sentimento poco razionale che ti prende quando accetti di calarti in un mondo che, bruscamente o poco a poco, si rivela diverso da quello che conosci. Potrei scomodare Coleridge (e vai che anche stavolta vi ho ficcato il riferimento culturale alto), ma preferisco procedere con qualche esempio di vita vissuta.

L’esempio di oggi è Super 8, il film che attendevo ormai da mesi e di cui non ho voluto mai sapere o vedere nulla, evitando come la peste anche i virali pur sapendo che JJ ci avrebbe messo del suo per rendere il tutto assolutamente incomprensibile (sono incappato nel trailer e comunque non è che in base a quello si capisca molto dove si va a parare). E alla fine della visione dico “Sì”. Super 8 riesce a riconciliarmi con il cinema… come lo vogliamo chiamare? Di genere? Popolare? Di effetti speciali? Genere “blockbuster”? Chiamiamolo solo “cinema”, facciamo prima e non sbagliamo.

Ma voglio prima fare un passo indietro: flashback, siamo nel 1979. La mia passione per le immagini in movimento la devo ai miei, e in particolare a mio padre. A ripensarci oggi, non so quanti padri portassero i figli a vedere certi film, a cavallo tra i ’70 e gli ’80. Certo, ci sono state le proiezioni disneyane di prammatica, come per tutti. Ma tra i 7 e gli 11 anni, un’età in cui sei già grandicello per Dumbo e però troppo piccolo per uscire da solo, mio padre usciva con me il sabato pomeriggio e mi portava al Nuovo Odeon di Via Venalzio 8 (lo ricordo così, indirizzo e tutto) a vedere The Rocky Horror Picture Show, The Blues Brothers, Animal House, Un lupo mannaro americano a Londra, Excalibur, 1941 Allarme a Hollywood (sì insomma, a mio padre piaceva Belushi, diciamolo), Incontri ravvicinati del terzo tipo e Star Wars, ça va sans dire, e varie altre amenità non sempre adattissime a un ragazzotto pubescente.

Io non capivo nulla di quei film lunghissimi, caotici, complicati. Ma capivo che c’erano esplosioni, devastazioni, crolli, depravazioni. Capivo che c’era qualcosa da radere al suolo nella vita, per poi ricostruire. In ogni caso, quelle proiezioni alimentavano il mio sense of wonder, coinvolgendomi in mondi e storie che accettavo come equivalenti di tutto rispetto alla mia realtà quotidiana. Ora, il sense of wonder da bambino o ce l’hai o non ce l’hai, non si può impararlo. Più facile è perderlo da adulti, e se lo perdi poi ritrovarlo diventa complicato.

Quando è così realizzi che stai semplicemente consumando blockbuster, digerendoli ed espellendoli dal tuo sistema mentale nel giro di poche ore. A volte, però, quella meraviglia capita di ritrovarsela lì davanti agli occhi, grossa come un gigantesco essere alieno con zampone di ragno che intravedi dopo un’ora e mezza di film. Super 8 è tutto quello che avete sentito dire, e molto di più. Operazione nostalgia, spudorato omaggio spielberghiano e tuttavia JJ al 100%, cinema americano classico, senza (troppe) concessioni al digitale, film con esplosioni vere. Voglio dire, confrontate le esplosioni di Super 8 con quelle di un qualsiasi Michael Bay. Anche nell’etica dello scoppio, JJ torna alle radici e ri-produce meraviglia. Poi c’è il metacinema, un tema che mi tocca da vicino, c’è il richiamo al filone teen pericolosamente a mezza strada tra i Goonies e Stand By Me, c’è l’amore, il lutto, i militari cattivi, le astronavi, tutto bilanciato alla perfezione e soprattutto non inquinato da star troppo famose che distraggono dal piacere puro dello storytelling.

Bene, in mezzo a tanti film che incuriosiscono per l’ennesimo effetto speciale, Super 8 emoziona. Con un’inquadratura finale semplicissima e stupenda, lascia persino un po’ di magone.
Poi, durante i titoli, c’è il filmino in Super 8 in questione. Per chi ama da più di trent’anni vedere e fare cinema, impossibile non identificarsi…

GASOLIO CONTRO SASSO

Siamo due splendidi quarantenni che vogliono passare una serata al cinema. Potremmo fare gli intellettuali e andare a vedere Moretti, che poi si discute della deriva del personaggio. Oppure, vista la voglia di evasione, potremmo andare a vedere uno di quei film di cui in pubblico ridiamo ma che in segreto tanto ammiriamo. Perciò, è logico che la scelta cada su Fast Five. Macchine, sparatorie e figa: c’è tutto quello che serve per un film perfetto. Bisogna dire che tutto nasce anche dalla ispirata recensione di Matteo Bordone: alle parole “pestaggio tra Gasolio e Sasso” e soprattutto “figa a buttare” ci siamo definitivamente convinti.
E io non posso che sottoscrivere pienamente l’entusiasmo.

Dimenticatevi le corse in auto con i motori truccati e i neon sotto carrozzeria. Cioè, le corse ci sono, come no, e le macchine anche. Non sarebbe Fast Five, se no. Ma l’estetica dell’art pour l’art dei primi film viene abbandonata a favore di uno storytelling più maturo: voglio dire, qui c’è un colpo elaboratissimo, un’evasione spettacolare, l’intensità dei legami di famiglia, un’intera squadra di agenti speciali guidati da THE ROCK che suda a secchiate anche solo quando parla, Rio De Janeiro e le favelas e il Cristo Rei e il Pan de Azùcar… Insomma, c’è una storia. Ed è una storia che traspone in un mondo tamarro l’estetica degli ultimi James Bond utilizzando trame alla Danny Ocean. Solo che Clooney lavora di fioretto, mentre il nostro imbolsito (ma sempre meravigliosamente canottierato) Diesel si fa largo a colpi di mazza da fabbro.

Non stupitevi: Fast Five dura CENTOTRENTA MINUTI, ma vi sembrerà che ne siano passati solo cinque. Il film è ben scritto, diretto e fotografato, e si eleva sopra la media dei normali film d’azione che passano in sala. Ma la cosa più entusiasmante non è tanto la trama (è presto detta, Toretto evade con l’aiuto di sorella e cognato, si infilano tutti in un brutto giro di auto rubate ad un signore della droga di Rio che li vuole tutti morti, allora loro escogitano la rapina del secolo con The Rock alle calcagna che li crede perfidi assassini mentre loro cazzo no, hanno solo rubato delle auto, poi comunque tra un colpo di bazooka e l’altro riescono a chiudere il film con una trovata degna di Lupin III). No, il meglio è l’esperienza totalizzante che vi attende andando a vedere Fast Five al cinema.

Noi abbiamo fatto i biglietti e abbiamo visto entrare un sacco di gente, diciamo… particolare. Ci siam detti “no, dai, quelli lì vanno a vedere Thor in 3D, o magari Source Code”. No. Andavano tutti a vedere Fast Five. La sala più grande del multiplex piena in un anonimo giovedì di maggio. E quando parte il logo Universal, tutti quanti esplodono in fischi, urla, applausi, che continuano senza sosta durante tutta la proiezione. Ora, normalmente io odio quelli che parlano al cinema. Ma la situazione si è rapidamente trasformata in un happening talmente surreale che i due splendidi quarantenni di cui sopra hanno cominciato a divertirsi di brutto. Dietro di noi, un gruppo di ragazze brasiliane si erano date appuntamento per vedere il film. Si capiva benissimo che 1) avevano a memoria tutti i Fast/Furious precedenti (a me per dire manca il 4 e dovrò recuperarlo al più presto), e 2) volevano dimostrare di saper parlare benissimo portoghese ripetendo ad alta voce tutte le battute in portoghese del film (circa un’ora del film è parlata in portoghese). Saudade!

Poi, rivelazione: ci sono spettatori che effettivamente ridono di gusto sentendo quegli epici one-liner tipici dei film d’azione (es. “Voglio sapere quante volte vanno in bagno e quante volte se lo sgrullano” – The Rock ai suoi agenti). Insomma, tra una ola e l’altra arriviamo alla fine del film: mi raccomando, non uscite! O, come ho sentito esclamare uno spettatore “Minchia-oU raga, fermi non è ancora finito”! A metà dei titoli di coda arriva Eva gnocca Mendes, si siede sulla scrivania di The Rock (che ovviamente ricomincia a sudare) e gli fa vedere una foto di Michelle gnocca-di-dio Rodriguez, che quindi NON È MORTA veramente e quindi trepidiamo tutti in attesa di FF6!

Tutti al cinema, raga, non ve ne pentirete!

CALIFORNICATION VS. BORED TO DEATH

Sgombrato il campo dai piccoli, perversi piaceri colpevoli televisivi (quest’anno Misfits e Spartacus hanno assolto egregiamente il compito con episodi eccessivi e coinvolgenti – divertimento puro), passiamo all’oggetto del post: Californication contro Bored To Death. Chiariamo subito che sono un fan della prima ora di Californication. Chiariamo anche, però, che a mio avviso nel confronto esce vincente Bored To Death. E vado a spiegarmi.

Californication è giunto al termine della quarta serie e – per quanto mi riguarda – ha chiuso egregiamente. Ma Showtime ha deciso di girarne ancora una quinta. Non per scarsa fiducia in Tom Kapinos, ma sarà difficile non cadere nel già visto. Californication vale per i tre personaggi principali: Hank, Charlie e Los Angeles. Hank (l’immenso e fighissimo David Duchovny), per chi si fa le fantasie da scrittore, è il dio dorato della categoria: quello che vorresti essere ma non puoi, quello che ha sempre una risposta per tutto, quello che si scopa tutte le comparse della serie, quello che manda a puttane tutto ma in fondo è adorabile.

Bored To Death ha chiuso la seconda serie ed è ancora tutto da scoprire. Non è solo questo, però, il motivo della mia preferenza. Sono molti i piani su cui le serie sono confrontabili: due scrittori in crisi, due sobborghi protagonisti (Venice e Brooklyn), amici e colleghi dai caratteri esuberanti, modelli di riferimento letterari (Bukowski / Fante da un lato, Capote / Chandler dall’altro), la rappresentazione della vita e delle avventure di uno scrittore oggi, tra realismo e commedia. Ma Bored To Death ha al suo arco un paio di frecce in più: umorismo ebraico newyorchese, per cominciare. Un aspetto della scrittura che per me, personalmente, rende la visione più accattivante. E poi il gioco tra realtà, fiction e vita. Jonathan Ames, il writer/producer della serie, è uno scrittore che mette in scena la sua vita in prima persona, attraverso il filtro dell’interpretazione di Jason Schwartzman. Quindi: il protagonista della serie si chiama Jonathan Ames, ma il vero Jonathan Ames ci mette la faccia (e non solo) in un ruolo marginale ma risolutivo.

Lo scrittore in Californication è una rockstar che vive un po’ di rendita; in Bored To Death è un simpatico sfigato che lotta per restare a galla e lo fa reinventandosi detective privato.

Mentre Californication iniziava col botto, passava attraverso una seconda serie poco ispirata e si riprendeva alla grande con una terza serie “universitaria”, Bored To Death inizia al rallentatore (può sembrare che le prime quattro puntate non portino da nessuna parte) ma in seguito prende il volo e offre una seconda serie geniale in ogni episodio. C’è da dire che gli archi narrativi sono poco confrontabili (le serie di Californication contano 12 episodi, quelle di Bored To Death 8), ma al di là di questo probabilmente l’argomento più valido a favore di Bored To Death sono i comprimari, il timido fumettista Ray (Zach Galifianakis) e il ricco e fumatissimo George (Ted Danson). Dal momento in cui i tre cominciano a cazzeggiare insieme, la serie guadagna punti a valanga.

Guardatela (non in italiano, vi prego, che già l’hanno intitolata “Detective per noia“) e poi mi direte. Ah, tra l’altro ha una delle sequenze di titoli di testa più belle degli ultimi anni!