ACROSS THE UNIVERSE

Non so precisamente come ci sono finito dentro. In passato ne ho visto alcuni spezzoni, ma senza particolare attenzione. Un mese fa, circa, mi è saltato all’occhio qualcosa on line, e ho pensato: vediamo com’è. E sono stato risucchiato da Steven Universe.

Una breve premessa: sono una persona di mezza età che guarda i cartoni animati. Li guardo con mio figlio, ma li guardo anche per conto mio. Ho studiato storia del cinema di animazione, e passo da Oswald il Coniglio a Mr. Magoo, da Astroboy a Neon Genesis Evangelion. Non guardo soltanto film di animazione, ma mi piace proprio guardare “i cartoni in TV”. Ho uno standard, certo. Ho sempre seguito l’animazione cosiddetta “young adult”, giapponese o americana. Negli ultimi anni ho amato molto Family Guy, Futurama, Adventure Time, Over The Garden Wall, Gravity Falls, Rick & Morty, Trollhunters. Steven Universe, a una rapida occhiata, mi sembrava lievemente fuori target.

E invece, la creazione di Rebecca Sugar (notare: l’unica donna in USA che abbia creato e prodotto da sola uno show animato) mi ha lasciato a bocca aperta per diversi motivi. Molti più motivi di quanto non abbiano fatto le divertenti e ottime serie citate nel paragrafo precedente. In particolare per motivi riguardanti il cosiddetto “world building” e la continuity, l’animazione e il character design, il sottotesto relazionale, l’aspetto musicale. Ci tengo quindi a spiegarvi perché Steven Universe è la serie animata che non dovreste perdervi.

Steven Universe è una serie, diciamo, fantasy / sci-fi. Tutto ruota intorno alle Gemme. Le Gemme sono una specie aliena di minerali senzienti che prendono forme femminili e che hanno (come tutti gli alieni) mire espansionistiche nell’universo. Qualcosa come 5.000 anni fa, le Gemme hanno colonizzato la terra, rapito esseri umani per inserirli in “zoo” spaziali, sfruttato il pianeta per “coltivare” altre gemme e formare un esercito, inserito un cluster al centro del pianeta per distruggerlo come una enorme bomba ad orologeria una volta che il pianeta avesse esaurito la sua utilità. Le Gemme hanno una società rigidamente divisa in caste (i Diamanti a capo di tutto, i Quarzi, i Rubini, gli Zaffiri, le Perle come servitori, etc). Ma non voglio dilungarmi su questi aspetti nerd che comunque vengono svelati sapientemente poco a poco nell’arco di quattro stagioni.

Si sa fin dall’inizio, però, che Steven — che vive nella città fittizia di Beach City con tre Gemme ribelli (Garnet, Amethyst e Pearl) — è in realtà una creatura ibrida, essendo figlio di un umano (Greg, il personaggio più cool della serie, secondo me) e di Rose Quartz, la leader della ribellione, che millenni prima ha guidato una “resistenza” per salvare la terra dalla distruzione. Steven, tipico preadolescente americano, deve quindi venire a patti con il suo supposto destino di eroe spaziale a caccia di Gemme cattive insieme alle tre madri surrogate, che vedono in lui il riflesso della loro amata compagna.

Il lato umano della faccenda è quello che colpisce di più. Molti episodi, specialmente nella prima stagione, si concentrano sulla vita quotidiana a Beach City, un sobborgo che non sfigurerebbe in un film di Kevin Smith. Rebecca Sugar stessa ha definito il concept di Steven Universe come “reverse escapism” — non si stratta di storie fantasy vissute da un ragazzo normale, che si guardano per evadere dalla realtà. Al contrario, si tratta di un eroe fantasy suo malgrado, un ragazzo “straordinario” che vive storie normali, passeggia sul pontile, osserva la varia umanità di commercianti, teenager, famiglie, occasionalmente combattendo contro mostri spaziali.

Il “world building”, cioè la capacità di costruire un credibile background fantascientifico ma anche quotidiano alle avventure del protagonista, è risolto in modo particolarmente felice nelle varie stagioni di Steven Universe che peraltro sono molto attente anche alla continuity: è importante cioè fare riferimento continuo a cose che sono avvenute in episodi precedenti per poter comprendere al meglio lo sviluppo degli eventi. Tutto ciò pur rimanendo in un contesto di episodi da 10 minuti (che è pochissimo, se ci pensate, per sviluppare una storia) molto spesso godibili come racconto a sé.

Il racconto è poi sviluppato in una forma che non può non colpire l’occhio del cultore della storia del cinema di animazione. Sottili citazioni (quasi mai sfacciate) sono sparse a piene mani dal team degli animatori. Un intero episodio (The Answer, 2×22) è realizzato con una tecnica che ricorda molto da vicino le animazioni di Lotte Reininger, famosa per il suo Die Abenteuer des Prinzen Achmed del 1926. Non a caso l’episodio ha vinto un Emmy e ha avuto anche uno spin-off in un libro illustrato. Un altro episodio (Kindergarten Kid, 4×01) è platealmente ispirato ai cartoon classici di Wil E. Coyote e Roadrunner. Una sorprendente sequenza di combattimento all’arma bianca (in Steven the Sword Fighter, 1×16) è presa quasi di peso da Revolutionary Girl Utena, peraltro una delle fonti dichiarate di ispirazione di Rebecca Sugar, a sua volta una simpatica nerd cresciuta a pane e anime. C’è molto Miyazaki (la danza di Ruby e Sapphire in Jailbreak, 1×52 richiama quella di Pazu e Shita, i protagonisti di Laputa il castello nel cielo, il titolo stesso dell’episodio Kiki’s Pizza Delivery Service, 3×13). Si possono ritrovare strizzate d’occhio a Dragon Ball Z, Neon Genesis Evangelion, Mobile Suit Gundam, basta guardare con occhio attento.  C’è persino una citazione del mai dimenticato Charlie Brown che manca il calcio al pallone da football (Storm in the Room, 4×17).

Ma non è solo il fan service, che conta. Il character design è più tondeggiante rispetto alla media dei prodotti Cartoon Network, quasi più Disney/Pixar, oserei dire. E dal mood Pixar Steven Universe prende anche quell’attenzione ai sentimenti che lo porta una spanna sopra a molte altre serie animate. Intendiamoci, non parlo di sentimentalismo (che in accezione negativa è tipico di molti prodotti disneyani). Parlo di intelligenza emozionale, di consapevolezza di sé.

Steven Universe è il cartone animato che tutti i ragazzini dovrebbero vedere. Se ci fosse stato ai miei tempi (modalità nonno: on), sarebbe stato il mio cartone preferito (o no? Forse resterebbe Daitarn 3). Perché dico questo? Nonostante il contesto di conflitto spaziale tra civiltà, Steven è il personaggio che riesce sempre a risolvere il conflitto tramite l’ascolto, l’empatia, la non violenza, l’inclusione, l’accettazione delle differenze, delle diversità.

Di diversità ce ne sono moltissime in Steven Universe. Diversità di corpi, diversità di generi, diversità di caratteri. Ad alcuni questo può fare paura: Steven Universe è chiaramente una serie queer. Per me è un elemento in più che mi porta ad apprezzarla. Non starò qui a spoilerare le varie implicazioni LGBT delle Crystal Gems (è un piacere scoprirle mentre la storia si dipana, e comunque non c’è nulla di particolarmente sessuale, le Gemme si “fondono” tra loro in una creatura/relazione paritaria), ma non è un caso che la relazione sentimentale principale di Steven con una sua pari (l’indiana-americana Connie) sfoci in un qualcosa che incarna letteralmente lo “shipping” tipico dei fan. Stevonnie, la fusione di Steven e Connie, è rappresentata come una creatura androgina con un misto di caratteristiche dei due ragazzi che fa infatuare di sé uomini e donne.

Nulla di nuovo sotto il sole, Ranma 1/2 già negli anni ’80 spingeva sul pedale del gender, ma in Steven Universe c’è una consapevolezza diversa. Steven è un soldo di cacio modellato per capirci sul tipo di Kappei Sakamoto (Gigi la trottola), eppure dovrebbe avere 14 anni. È un adolescente problematico, non ha conosciuto la madre, non va a scuola, vive con tre aliene di forma femminile, lotta contro un’imminente invasione aliena e occasionalmente passa del tempo con un padre un po’ scoppiato che vive in un furgone. Ma non ha nessuna delle caratteristiche che ci aspetteremmo di trovare in un ragazzo americano medio. Piange spesso, dà voce alle sue emozioni, passa interi episodi a dialogare con sé stesso sul senso della sua vita (il citato Storm in the Room, ad esempio), pratica la mindfulness e la consapevolezza del proprio mondo interiore (Mindful Education, 4×04 – uno degli episodi più belli della serie). Questo sì che è un role model per le giovani generazioni, insomma.

Buon ultimo, l’aspetto musicale. Steven canta molto spesso. Solo nella prima stagione contiamo una ventina di canzoni (su 52 episodi). Le canzoni in Steven Universe hanno ovviamente una funzione di traino per la storia, proprio come nei musical — che, per inciso, sono l’altra mia grande passione cinematografica. Steven suona chitarra e ukulele, abilità che ha ereditato dal padre Greg, e gli viene naturale prorompere in composizioni che in generale hanno quel taglio indie/low-fi sentito in molto cinema sundance (a me ad esempio ha ricordato molto alcuni brani di Juno) ma che spesso hanno richiami non troppo nascosti a Beatles, Bowie, Queen, Green Day, Journey, Kiss, e insomma — con le dovute strizzatine d’occhio ironiche — a un mondo radiofonico tipico di un adolescente americano degli anni ’80.

Questo trasforma alcuni episodi in mini-musical, come Steven and the Stevens (1×22) in cui Steven e tre suoi cloni nati per errore suonano come band al Beachapalooza (il festival di musica indie di Beach City) o come Mr. Greg (3×08), un vero e proprio musical “old school” in cui si risolvono alcuni importanti nodi emozionali (e si piange). D’accordo, si tratta di brani della durata massima di due minuti, pensati per essere contenuti in episodi brevissimi, ma la qualità della colonna sonora di Steven Universe è tale da poterne sostenere l’ascolto anche indipendentemente dalla visione. Per non parlare di testi meravigliosi come “I accidentally created an alternate timeline” o “I learned to stay true to myself by watching myself die” (dal citato episodio Steven and the Stevens).

Aivi & Surasshu, il duo di San Francisco che scrive tutte le musiche della serie, compone poi musica incidentale minimal dal sapore glitch, che incorpora suoni da videogame 8-bit e che rafforza l’estetica Nintendo dell’insieme: questo rende Steven Universe anche una gioia per le orecchie (se vi piace il genere, ovviamente). E non dimentichiamoci di Estelle, la cantante RnB che dà la voce a Garnet, la più cool delle Crystal Gems: a lei sono affidate le canzoni più interessanti, quelle che non sfigurerebbero in una normale classifica del 2017 (vedi ad esempio Stronger Than Youdall’episodio Jailbreak 1×52 o Here Comes a Thought dal citato Mindful Education).

Steven Universe ricomincia a metà maggio con una “Stevenbomb” (cioè cinque episodi trasmessi uno al giorno) che concluderà la quarta stagione. Seguirà certamente una quinta stagione, e poi si vedrà. Nel frattempo vi suggerisco vivamente di recuperarlo (io l’ho visto tutto in streaming su Dailymotion).

SUPERCLASSIFICASHOW: LE SERIE TV

SUPERCLASSIFICASHOW: LE SERIE TV

Ed eccoci al terzo appuntamento prenatalizio, quello sulle serie TV più fighe del 2016. Quest’anno sarà ricordato per essere un anno “cattivo” a causa di tutte le morti eccellenti e le brutture varie successe nel mondo, ma un’ottima annata per il racconto televisivo, ormai pienamente maturato come romanzo a puntate collettivo della contemporaneità. Le serie sono per il nostro immaginario un terreno di confronto tra vecchi e giovani, ricchi e poveri, di qua e di là dall’oceano. Quello che il cinema mainstream non riesce (più) a produrre, perso dietro a stantie ripetizioni di sequel, prequel e spinoff, viene raccolto amorevolmente dal piccolo schermo, che diventa ogni anno più “grande”. Quest’anno poi è stato talmente prolifico che ho deciso di parlare (quasi) solo di serie alla prima stagione, iniziate cioè nel 2016. E il materiale non manca (anche se siamo veramente in duopolio HBO/Netflix, il che dà da pensare).

THE NIGHT OF (HBO)
Una miniserie ideata da Steven Zaillian e quindi – per definizione – “scritta bene”. Racconta la storia di un povero cristo intrappolato nei meccanismi della giustizia, accusato per un omicidio che (forse?) non ha commesso. Il fattaccio è nella prima puntata, poi si svolge tutto tra la prigione e il tribunale. Storia classica, tesa, coinvolgente, convincente, misurata e con un finale non conciliatorio. Per me la migliore dell’anno.

STRANGER THINGS (Netflix)
Qui si gioca facile. In Stranger Things c’è la provincia americana dei primi anni ’80, i ragazzini che giocano a D’n’D, i fenomeni paranormali incontrollabili, gli esperimenti governativi, la sparizione di un bambino, e in definitiva un frullato – venuto molto, molto bene – di molto cinema di quegli anni: Stand By Me, E.T., Fusi di testa, Una pazza giornata di vacanza, I Goonies, Stephen King (tanto), Explorers etc. etc. etc. Ci sono Winona Ryder e Matthew Modine (direttamente dagli anni ’80) e soprattutto c’è Eleven, un personaggio fragile e potentissimo. Questa è la serie che mi ha coinvolto di più emotivamente, probabilmente per effetto nostalgia.

THE YOUNG POPE (HBO)
Sorrentino fa una serie TV. Bum! E invece. The Young Pope ti prende per i capelli dalle prime inquadrature e non ti molla più, e tu ti trovi inspiegabilmente attirato da preti e suore anziani (meravigliosi Silvio Orlando e Diane Keaton), vicende vaticane, missioni in Africa, problemi da ufficio stampa papale, etc. Merito di Jude Law, che con questa serie trova il suo ruolo di una vita. Odioso, antipatico, bellissimo, santo, intransigente: il papa giovane veste tute da ginnastica immacolate, fa il vogatore, passeggia nei giardini e ogni tanto butta lì un miracolo. Colonna sonora geniale (come sempre in Sorrentino), grande senso visivo, finale aperto. La serie più stranamente divertente dell’anno.

Leggi tutto “SUPERCLASSIFICASHOW: LE SERIE TV”

SUPERCLASSIFICASHOW: I FILM

SUPERCLASSIFICASHOW: I FILMIl cinema: che bello. Si guardano i film, ci sono le poltrone comode, c’è il buio, si limona, non ci sono continue interruzioni tipo “è ora di cena” o “guarda che tuo figlio si è pisciato addosso”. E insomma. Come sapete io riesco difficilmente ad andarci, in questo periodo di apprendista paterfamilias. Comunque io recupero quello che posso, perché once cinefilo forever cinefilo. E questi sono i film più belli che ho visto in questo dannato 2016, e ve li consiglio caldamente. Come sempre si tratta di titoli in ordine sparso, con almeno due capolavori strombazzatissimi, un paio di Marvel, ben quattro film francofoni e un outsider di lusso.

REVENANT
Un tour de force. Visivamente spettacolare, attorialmente (esiste questa parola?) roccioso. Un fortissimo man vs. nature per cominciare il listone, dato che poi finisco allo stesso modo (vedi sotto). Se ne esce soddisfatti. Leonardo Di Caprio mangia il fegato del cavallo.

THE HATEFUL EIGHT
Si può non vedere un film di Tarantino? No, non si può. Non sarà il suo migliore, ma mantiene le sue promesse. Cupo, funereo e asfissiante fino all’esplosione splatter finale. Il solito racconto cesellato da più parti, ma cesellato bene. A volergli trovare un difetto, un po’ di maniera. Aspetto ancora un nuovo Jackie Brown.

MICROBE ET GASOILE
Qui Gondry fa il suo capolavoro, riesce ad essere misurato nella sua follia visiva e racconta la storia di due adolescenti in viaggio per scappare dalla routine e per trovare sé stessi (come ogni viaggio, eh). Attori fantastici, provincia francese azzeccata, Audrey Tatou mamma stressata. Comunque ne avevo parlato diffusamente qui.

LAWRENCE ANYWAYS
I film di Xavier Dolan non ho capito perché qui da noi sono usciti tutti nell’arco dell’ultimo paio d’anni. Questo è del 2012 e da noi è uscito quest’anno. Detto ciò, colpo di fulmine. La storia è quella di un transgender che cerca di affermare il suo essere donna in un corpo maschile. C’è dentro The Chauffeur dei Duran Duran. Ed è uno dei mèlo più intensi che ho mai visto.

MA LOUTE
Classico film scelto più che altro per il poster, l’ultimo Bruno Dumont mi ha sorpreso fortemente. Commedia in costume (siamo sulla costa nord della Francia nel 1910) grottesca fino all’inverosimile (c’è del cannibalismo, per dire), debitrice del cinema delle origini e delle comiche del muto e con un gruppo di attori in assoluto stato di grazia, lasciati liberi di andare totalmente sopra le righe (vedi Juliette Binoche).

Leggi tutto “SUPERCLASSIFICASHOW: I FILM”