GALLEGGIANO TUTTI

IT 2017

Vi devo dire la mia sul capitolo 1 di IT.
Non si tratta di una recensione, quanto di una raccolta di impressioni da persona “informata sui fatti” (credenziali: fan di King da quando avevo 12 anni, IT è stato ed è tuttora il mio romanzo preferito tra quelli scritti da lui anche se in età adulta se l’è giocata molto con 22.11.63). E vi devo dire la mia con spoiler, se di spoiler si può parlare per una storia che è nota anche ai sassi da circa 30 anni. Ve la devo dire perché sono rimasto abbastanza colpito da alcune cose, impossibili da sintetizzare in due righe di post.

Questo IT 2017 è un film da vedere per diversi motivi. Primo tra tutti quello dell’effetto nostalgia e del confronto ozioso ma divertente tra libro, miniserie anni ’90 e film attuale (per quanto siamo solo alla prima parte di un dittico).
IT non è né più né meno di quello che mi aspettavo: un film ben realizzato (i brutti film sono altri, diciamocelo), che tradisce molti dei passaggi del romanzo e reinventa alcune cose. Nessun problema per me, sono mezzi diversi, ci sta che racconti storie leggermente diverse: non tutti i bambini protagonisti hanno gli stessi “traumi” che hanno nel romanzo, ci sono alcune aggiunte, certamente anche molte omissioni – prima fra tutte la famigerata scena del rito sessuale nelle fogne – ma se non è rispettata la lettera kinghiana, c’è comunque lo spirito (anche se tutta la parte più “magica”, la tartaruga, le deadlights sono solo accennate con una strizzata d’occhio allo spettatore nerd) .

Hanno voluto evitare di edulcorare la narrazione mettendo in scena tutto quello che potevano permettersi di mettere in scena (nulla di più di un horror mediamente splatter, comunque) e il film “funziona”, anche se allo spettatore attuale può mancare il montaggio alternato tra le storie dei bambini e quelle degli adulti. La scelta di assegnare a due film diversi le due linee temporali fa sì che questo capitolo 1 si inserisca perfettamente nel revival anni ’80 che nuovamente sta prendendo piede (sì, c’è anche l’attore di Stranger Things, sì, questo IT è quello che Super 8 di Abrams non è riuscito ad essere qualche anno fa). Suppongo che il capitolo 2, al netto delle scelte di casting, sarà invece un film molto triste e dolente (laddove questo dipinge molto bene la meraviglia del passaggio da infanzia a adolescenza).

Quello che certamente contraddistingue questo IT è che… non fa paura. Intendiamoci, il lavoro di Bill Skarsgård su Pennywise è ammirevole, ma chi si mangia la scena sono i bambini (contrariamente alla miniserie dove i bambini e gli adulti erano abbastanza insignificanti mentre Tim Curry dominava incontrastato). Ma, c’è un ma. IT è un romanzo degli anni ’80 ambientato negli anni ’50: la nuova versione modernizza e riambienta negli ’80 mimando (come fa anche Stranger Things) non solo mode, ambienti e storia ma anche il modo di raccontare. Perciò la paura che suscita IT 2017 è quel tipo di paura cosiddetta jump scare che fa subito vecchio. Cioè, va benissimo intendiamoci, colonna sonora di tensione, bambino che si guarda intorno nel buio e TA-DAAAN! il pagliaccio maniaco è dietro le sue spalle. Un meccanismo che però temo non spaventi più nemmeno i tredicenni.

IT non ti rimane dentro per la paura che fa, insomma. Pennywise è reso bene, visivamente tutto il film è “oscuro” il giusto, c’è un ottimo lavoro su scenografie e sound design (bellissima la tana di IT dove “galleggiano tutti”), ci sono dei picchi di humor nero molto divertenti, c’è una colonna sonora che almeno in un paio di momenti (i Cult, i Cure…) mi ha positivamente sorpreso. Ma quello che resta è un’altra cosa.

Dicevo, i bambini.
IT (sempre come Stranger Things che poi è un superomaggio al mondo di King incrociato con quello di Spielberg) vale soprattutto per l’alchimia che si crea nel gruppo dei bambini, i “Perdenti”. E quindi va a toccare più che altro quelle corde lì. È un ottimo film di coming-of-age. Sophia Lillis, che emerge più degli altri nel cast corale, è la bambina di cui tutti ci siamo innamorati da piccoli. E – insieme a Millie Bobby Brown di Stranger Things – può diventare la nuova “fidanzatina d’america”.

A margine, questo può presentare dei problemi nella misura in cui entrambe le attrici minorenni stanno un po’ patendo quella che è la sessualizzazione tipica dell’industria dell’intrattenimento (media che tendono a farle apparire più “forzatamente sexy” di quanto non siano in realtà). Nel caso di Sophia Lillis è ancora andata bene che non si sia insistito, come dicevo all’inizio, su quanto seguiva al primo rito di Chüd. Sul suo ruolo di motore della narrazione esclusivamente in quanto portatrice di “effetto puffetta” e oggetto del desiderio di tutti, se ne può parlare, ma in fondo era così anche nel romanzo.

Ecco, direi che al netto di alcune scelte di sceneggiatura (tagli, cambiamenti rispetto al romanzo originale), quello che un po’ mi ha deluso nel nuovo IT è che poteva essere un po’ più sgradevole. Non voglio dire che un bambino di quattro anni con un braccio strappato da un clown fognario, uno scarico di lavandino che manda fuori più sangue di un geyser o una donna deforme che mangia la faccia a un dodicenne non siano sgradevoli. Ma ci sono alcuni aspetti sui quali avrei usato una mano più pesante. Sgradevole per me è Henry Bowers che incide col coltello la trippa di Ben (e lasciatemi dire, nel film Henry fa più paura di Pennywise). Sgradevole è il padre di Beverly. Sgradevole è la vecchia che si gira dall’altra parte mentre Georgie viene ucciso.

Derry è marcia nel midollo, ecco – mi sarebbe piaciuto se questo fosse venuto un po’ più fuori.

 

GRAVITY FALLS, E L’ESTATE FINISCE

Tutte le cose hanno questa disgraziata tendenza a finire, prima o poi.
L’estate, l’infanzia, le belle serie televisive.

A questo proposito, non posso fare a meno di parlarvi di Gravity Falls, una serie animata di quelle che ti fanno pensare (e a volte anche esclamare a voce alta) “ma com’è possibile che non l’abbia mai guardata prima?!?”. Quindi sedetevi, rilassatevi qualche minuto, e leggete perché questo è il momento giusto per spararvi tutti gli episodi di Gravity Falls in un colpo solo.

Cominciamo subito con un po’ di sano namedropping. Alex Hirsch, il creatore della serie, è ovviamente ossessionato da David Lynch. Questo per dire che i fan di Twin Peaks (più la serie originale che non il seguito del 2017) non potranno non amare Gravity Falls. Negli episodi della serie, però, traspare molto di più: un distillato di mistero, avventura e horror tipici della cultura pop a cavallo tra i ’70 e gli anni zero. Tutti i luoghi comuni del fantastico, dell’horror e dell’avventura vengono frullati e restituiti con un sapore agrodolce, mai scontato: da Carpenter a Raimi, da Craven a Spielberg e Shyamalan fino addirittura a Cronenberg, l’appassionato può trovare spunti e rimandi.

Gravity Falls è una cittadina dell’Oregon in cui i gemelli Dipper e Mabel Pines passano l’estate dal prozio Stan, proprietario di un’improbabile attrazione locale stile Ripley’s Believe It Or Not Museum dal programmatico nome di Mystery Shack. Siamo proiettati fin dalla sigla in un’atmosfera di mistero a metà fra il dark e il demenziale (siamo pur sempre in una serie Disney) in cui vediamo i personaggi principali in azione: Dipper, il gemello precisino e ansioso di risolvere qualche “vero mistero”; Mabel, la sorella caotica ma di gran cuore; Stan, presentato subito come un maestro della truffa. E poi ci sono i personaggi di contorno, mai banali, a partire dal tuttofare del Mystery Shack, il mai cresciuto Soos, e da Wendy, la cassiera adolescente oggetto delle attenzioni e dei sogni puberali di Dipper.

Tutto ruota intorno a due piani narrativi: da un lato la routine della vita di provincia in compagnia di una “famiglia” più bizzarra che disfunzionale, tra la gestione del Mystery Shack, le prime cotte preadolescenziali, il rapporto con gli altri ragazzi del luogo come Pacifica Northwest (la nemesi di Mabel, la ragazza più popolare della città), Grenda e Candy (le amiche nerd di Mabel), Robbie (il rivale emo di Dipper) e soprattutto Gideon Gleeful (il villain della prima stagione, nonché pretendente al cuore di Mabel). Dall’altro il “vero” mistero di Gravity Falls, sorta di centro di attrazione di tutte le stranezze possibili (mostri, non-morti, gnomi, fantasmi, creature fantastiche di ogni sorta) accuratamente catalogate in tre diari vergati in uno stile a metà tra il Necronomicon di Evil Dead e il Codex Seraphinianus, di cui uno in possesso di Dipper (gli altri due… dovete vedere la serie per scoprirlo). Con l’aiuto del diario e dei suoi amici — e in spregio allo scetticismo del prozio Stan — Dipper riesce (quasi) sempre a risolvere misteri e a scongiurare catastrofi cosmiche.

Detta così, potrebbe sembrare una variante un po’ più raffinata sul tema di Scooby Doo. Nulla di più lontano. La serie ha una continuity molto stretta, e l’evoluzione dei personaggi, anche di quelli secondari, è molto ben delineata. Nel pre-finale della seconda stagione, nell’episodio Dipper & Mabel vs. the Future, i due gemelli si trovano a dover passare la famosa linea d’ombra, per loro rappresentata dal tredicesimo compleanno. Non troverete facilmente nelle serie animate rivolte a un pubblico di ragazzini una descrizione così incisiva del passaggio all’età adulta e della realizzazione che tutte le cose finiscono. Ma non sono solo i protagonisti ad avere sorprendenti evoluzioni (una su tutte la rivelazione della backstory del prozio Stan, nell’episodio cruciale A Tale of Two Stans): ogni singolo personaggio di contorno è ben delineato e ha un suo arco specifico, concluso in modo soddisfacente nel corso della seconda stagione (non vi ho detto che sono solo due stagioni? Questo favorisce il binge watching, no?).

Un esempio di come Alex Hirsch gioca con lo spettatore più attento è il personaggio di Blendin Blandin, il viaggiatore del tempo. Blendin appare nel nono episodio della prima stagione, The Time Travelers’ Pig. Al di là del gustoso riferimento nel titolo al romanzo culto di Audrey Niffenegger, e del fatto che in questo episodio appare per la prima volta anche l’adorabile maialino Waddles, è la struttura stessa del racconto a far drizzare le antenne. Blendin viaggia nel tempo andando a visitare scene e situazioni di precedenti episodi della serie. Fino qui tutto bene, è un gioco “meta” abbastanza godibile. Ma se andate a rivedere gli episodi specifici in cui si svolgevano quelle scene e quelle situazioni (nella fattispecie Tourist Trapped, The Legend of the Gobblewonker, e Headhunters) potrete vedere Blendin Blandin apparire in qualche inquadratura… e ancora non sapevate chi fosse! Questa è la cura che Hirsch mette nella scrittura degli episodi.

Questo, e ovviamente i crittogrammi. Probabilmente è una cosa da veri nerd/enigmisti, e altrettanto probabilmente un pubblico di preadolescenti non ci fa nemmeno caso. Ma al termine di ogni episodio Hirsch inserisce frasi in codice (crittogrammi in chiave tipo cifrario di Cesare, Atbash o Vigenère) che — una volta risolti — rivelano semplici battute o più spesso dettagli importanti per capire cosa sta per succedere negli episodi successivi. Nemmeno a dirlo, i crittogrammi diventano di episodio in episodio più difficili, e la chiave va trovata in qualche parola o immagine buttata lì ad arte all’interno della puntata (esiste comunque un Wiki che li risolve tutti, per i più pigri come me).

Sempre a Hirsch va dato il merito di aver immaginato — e doppiato magistralmente — il villain più inquietante di tutti, Bill Cipher. Rappresentato come un triangolo con un’occhio, decisamente “altro” come character design rispetto al resto dei personaggi, Cipher (in inglese, guarda un po’, “cifrario”) è per Dipper e Mabel quello che il Joker è per Batman: una nemesi folle, con un senso dell’umorismo molto particolare e che può risultare buffa o agghiacciante a seconda dei momenti. È lui che, nei tre episodi finali della serie, scatena il cosiddetto Weirdmageddon (non dico altro per non spoilerare) che la famiglia Pines al completo, con l’aiuto degli abitanti di Gravity Falls, dovrà contrastare.

Quindi: avete una grossa fortuna, quella di non dover aspettare più di un anno tra il cliffhanger del finale della prima stagione e la seconda (più dark e apocalittica) e di poter godere anche di una manciata di “corti” intermedi come quelli delle miniserie Dipper’s Guide to the Unexplained, Mabel’s Guide to Life o Fixin’ It with Soos (un tripudio di finti effetti digitali anni ‘90).

Cosa state aspettando? KLK MBOABQBSBIL!

ACROSS THE UNIVERSE

Non so precisamente come ci sono finito dentro. In passato ne ho visto alcuni spezzoni, ma senza particolare attenzione. Un mese fa, circa, mi è saltato all’occhio qualcosa on line, e ho pensato: vediamo com’è. E sono stato risucchiato da Steven Universe.

Una breve premessa: sono una persona di mezza età che guarda i cartoni animati. Li guardo con mio figlio, ma li guardo anche per conto mio. Ho studiato storia del cinema di animazione, e passo da Oswald il Coniglio a Mr. Magoo, da Astroboy a Neon Genesis Evangelion. Non guardo soltanto film di animazione, ma mi piace proprio guardare “i cartoni in TV”. Ho uno standard, certo. Ho sempre seguito l’animazione cosiddetta “young adult”, giapponese o americana. Negli ultimi anni ho amato molto Family Guy, Futurama, Adventure Time, Over The Garden Wall, Gravity Falls, Rick & Morty, Trollhunters. Steven Universe, a una rapida occhiata, mi sembrava lievemente fuori target.

E invece, la creazione di Rebecca Sugar (notare: l’unica donna in USA che abbia creato e prodotto da sola uno show animato) mi ha lasciato a bocca aperta per diversi motivi. Molti più motivi di quanto non abbiano fatto le divertenti e ottime serie citate nel paragrafo precedente. In particolare per motivi riguardanti il cosiddetto “world building” e la continuity, l’animazione e il character design, il sottotesto relazionale, l’aspetto musicale. Ci tengo quindi a spiegarvi perché Steven Universe è la serie animata che non dovreste perdervi.

Steven Universe è una serie, diciamo, fantasy / sci-fi. Tutto ruota intorno alle Gemme. Le Gemme sono una specie aliena di minerali senzienti che prendono forme femminili e che hanno (come tutti gli alieni) mire espansionistiche nell’universo. Qualcosa come 5.000 anni fa, le Gemme hanno colonizzato la terra, rapito esseri umani per inserirli in “zoo” spaziali, sfruttato il pianeta per “coltivare” altre gemme e formare un esercito, inserito un cluster al centro del pianeta per distruggerlo come una enorme bomba ad orologeria una volta che il pianeta avesse esaurito la sua utilità. Le Gemme hanno una società rigidamente divisa in caste (i Diamanti a capo di tutto, i Quarzi, i Rubini, gli Zaffiri, le Perle come servitori, etc). Ma non voglio dilungarmi su questi aspetti nerd che comunque vengono svelati sapientemente poco a poco nell’arco di quattro stagioni.

Si sa fin dall’inizio, però, che Steven — che vive nella città fittizia di Beach City con tre Gemme ribelli (Garnet, Amethyst e Pearl) — è in realtà una creatura ibrida, essendo figlio di un umano (Greg, il personaggio più cool della serie, secondo me) e di Rose Quartz, la leader della ribellione, che millenni prima ha guidato una “resistenza” per salvare la terra dalla distruzione. Steven, tipico preadolescente americano, deve quindi venire a patti con il suo supposto destino di eroe spaziale a caccia di Gemme cattive insieme alle tre madri surrogate, che vedono in lui il riflesso della loro amata compagna.

Il lato umano della faccenda è quello che colpisce di più. Molti episodi, specialmente nella prima stagione, si concentrano sulla vita quotidiana a Beach City, un sobborgo che non sfigurerebbe in un film di Kevin Smith. Rebecca Sugar stessa ha definito il concept di Steven Universe come “reverse escapism” — non si stratta di storie fantasy vissute da un ragazzo normale, che si guardano per evadere dalla realtà. Al contrario, si tratta di un eroe fantasy suo malgrado, un ragazzo “straordinario” che vive storie normali, passeggia sul pontile, osserva la varia umanità di commercianti, teenager, famiglie, occasionalmente combattendo contro mostri spaziali.

Il “world building”, cioè la capacità di costruire un credibile background fantascientifico ma anche quotidiano alle avventure del protagonista, è risolto in modo particolarmente felice nelle varie stagioni di Steven Universe che peraltro sono molto attente anche alla continuity: è importante cioè fare riferimento continuo a cose che sono avvenute in episodi precedenti per poter comprendere al meglio lo sviluppo degli eventi. Tutto ciò pur rimanendo in un contesto di episodi da 10 minuti (che è pochissimo, se ci pensate, per sviluppare una storia) molto spesso godibili come racconto a sé.

Il racconto è poi sviluppato in una forma che non può non colpire l’occhio del cultore della storia del cinema di animazione. Sottili citazioni (quasi mai sfacciate) sono sparse a piene mani dal team degli animatori. Un intero episodio (The Answer, 2×22) è realizzato con una tecnica che ricorda molto da vicino le animazioni di Lotte Reininger, famosa per il suo Die Abenteuer des Prinzen Achmed del 1926. Non a caso l’episodio ha vinto un Emmy e ha avuto anche uno spin-off in un libro illustrato. Un altro episodio (Kindergarten Kid, 4×01) è platealmente ispirato ai cartoon classici di Wil E. Coyote e Roadrunner. Una sorprendente sequenza di combattimento all’arma bianca (in Steven the Sword Fighter, 1×16) è presa quasi di peso da Revolutionary Girl Utena, peraltro una delle fonti dichiarate di ispirazione di Rebecca Sugar, a sua volta una simpatica nerd cresciuta a pane e anime. C’è molto Miyazaki (la danza di Ruby e Sapphire in Jailbreak, 1×52 richiama quella di Pazu e Shita, i protagonisti di Laputa il castello nel cielo, il titolo stesso dell’episodio Kiki’s Pizza Delivery Service, 3×13). Si possono ritrovare strizzate d’occhio a Dragon Ball Z, Neon Genesis Evangelion, Mobile Suit Gundam, basta guardare con occhio attento.  C’è persino una citazione del mai dimenticato Charlie Brown che manca il calcio al pallone da football (Storm in the Room, 4×17).

Ma non è solo il fan service, che conta. Il character design è più tondeggiante rispetto alla media dei prodotti Cartoon Network, quasi più Disney/Pixar, oserei dire. E dal mood Pixar Steven Universe prende anche quell’attenzione ai sentimenti che lo porta una spanna sopra a molte altre serie animate. Intendiamoci, non parlo di sentimentalismo (che in accezione negativa è tipico di molti prodotti disneyani). Parlo di intelligenza emozionale, di consapevolezza di sé.

Steven Universe è il cartone animato che tutti i ragazzini dovrebbero vedere. Se ci fosse stato ai miei tempi (modalità nonno: on), sarebbe stato il mio cartone preferito (o no? Forse resterebbe Daitarn 3). Perché dico questo? Nonostante il contesto di conflitto spaziale tra civiltà, Steven è il personaggio che riesce sempre a risolvere il conflitto tramite l’ascolto, l’empatia, la non violenza, l’inclusione, l’accettazione delle differenze, delle diversità.

Di diversità ce ne sono moltissime in Steven Universe. Diversità di corpi, diversità di generi, diversità di caratteri. Ad alcuni questo può fare paura: Steven Universe è chiaramente una serie queer. Per me è un elemento in più che mi porta ad apprezzarla. Non starò qui a spoilerare le varie implicazioni LGBT delle Crystal Gems (è un piacere scoprirle mentre la storia si dipana, e comunque non c’è nulla di particolarmente sessuale, le Gemme si “fondono” tra loro in una creatura/relazione paritaria), ma non è un caso che la relazione sentimentale principale di Steven con una sua pari (l’indiana-americana Connie) sfoci in un qualcosa che incarna letteralmente lo “shipping” tipico dei fan. Stevonnie, la fusione di Steven e Connie, è rappresentata come una creatura androgina con un misto di caratteristiche dei due ragazzi che fa infatuare di sé uomini e donne.

Nulla di nuovo sotto il sole, Ranma 1/2 già negli anni ’80 spingeva sul pedale del gender, ma in Steven Universe c’è una consapevolezza diversa. Steven è un soldo di cacio modellato per capirci sul tipo di Kappei Sakamoto (Gigi la trottola), eppure dovrebbe avere 14 anni. È un adolescente problematico, non ha conosciuto la madre, non va a scuola, vive con tre aliene di forma femminile, lotta contro un’imminente invasione aliena e occasionalmente passa del tempo con un padre un po’ scoppiato che vive in un furgone. Ma non ha nessuna delle caratteristiche che ci aspetteremmo di trovare in un ragazzo americano medio. Piange spesso, dà voce alle sue emozioni, passa interi episodi a dialogare con sé stesso sul senso della sua vita (il citato Storm in the Room, ad esempio), pratica la mindfulness e la consapevolezza del proprio mondo interiore (Mindful Education, 4×04 – uno degli episodi più belli della serie). Questo sì che è un role model per le giovani generazioni, insomma.

Buon ultimo, l’aspetto musicale. Steven canta molto spesso. Solo nella prima stagione contiamo una ventina di canzoni (su 52 episodi). Le canzoni in Steven Universe hanno ovviamente una funzione di traino per la storia, proprio come nei musical — che, per inciso, sono l’altra mia grande passione cinematografica. Steven suona chitarra e ukulele, abilità che ha ereditato dal padre Greg, e gli viene naturale prorompere in composizioni che in generale hanno quel taglio indie/low-fi sentito in molto cinema sundance (a me ad esempio ha ricordato molto alcuni brani di Juno) ma che spesso hanno richiami non troppo nascosti a Beatles, Bowie, Queen, Green Day, Journey, Kiss, e insomma — con le dovute strizzatine d’occhio ironiche — a un mondo radiofonico tipico di un adolescente americano degli anni ’80.

Questo trasforma alcuni episodi in mini-musical, come Steven and the Stevens (1×22) in cui Steven e tre suoi cloni nati per errore suonano come band al Beachapalooza (il festival di musica indie di Beach City) o come Mr. Greg (3×08), un vero e proprio musical “old school” in cui si risolvono alcuni importanti nodi emozionali (e si piange). D’accordo, si tratta di brani della durata massima di due minuti, pensati per essere contenuti in episodi brevissimi, ma la qualità della colonna sonora di Steven Universe è tale da poterne sostenere l’ascolto anche indipendentemente dalla visione. Per non parlare di testi meravigliosi come “I accidentally created an alternate timeline” o “I learned to stay true to myself by watching myself die” (dal citato episodio Steven and the Stevens).

Aivi & Surasshu, il duo di San Francisco che scrive tutte le musiche della serie, compone poi musica incidentale minimal dal sapore glitch, che incorpora suoni da videogame 8-bit e che rafforza l’estetica Nintendo dell’insieme: questo rende Steven Universe anche una gioia per le orecchie (se vi piace il genere, ovviamente). E non dimentichiamoci di Estelle, la cantante RnB che dà la voce a Garnet, la più cool delle Crystal Gems: a lei sono affidate le canzoni più interessanti, quelle che non sfigurerebbero in una normale classifica del 2017 (vedi ad esempio Stronger Than Youdall’episodio Jailbreak 1×52 o Here Comes a Thought dal citato Mindful Education).

Steven Universe ricomincia a metà maggio con una “Stevenbomb” (cioè cinque episodi trasmessi uno al giorno) che concluderà la quarta stagione. Seguirà certamente una quinta stagione, e poi si vedrà. Nel frattempo vi suggerisco vivamente di recuperarlo (io l’ho visto tutto in streaming su Dailymotion).