SERIE DA QUARANTENA

Tutte le volte che rientro nel blog mi rendo conto dagli aggiornamenti di WordPress di quanto tempo è passato dall’ultima volta. Stavolta c’era un motivo in più: il nuovo coronavirus, l’emergenza Covid-19, la quarantena. Tutt’a un tratto, la rivelazione. Sono praticamente undici settimane che non esco di casa… e non ne ho approfittato per scrivere Alla ricerca del tempo perduto CasaIzzo edition? Un tempo avrei occupato tutto il tempo possibile a scrivere, ma oggi ci sono tante distrazioni che implicano sempre e comunque fissare uno schermo: lo smart working, la didattica a distanza, i webinar, le videocall. Lo streaming. Soprattutto lo streaming.

Ecco perché oggi voglio approfittare per ripercorrere la mia quarantena con voi, usando la cronologia delle visioni di Netflix e Prime (e dei torrent), e raccontarvi quali sono state le serie TV che hanno caratterizzato la mia quarantena, per consigliarvele o meno. Tanto lo so che poi abbiamo visto tutti più o meno le stesse, quindi sarò molto tranchant nei miei giudizi (ovvero adotterò quando possibile la celebrata dicotomia capolavoro / merda) al solo scopo di polarizzare la discussione e alzare il livello dello scontro. Ma andiamo a incominciare…

FEBBRAIO / MARZO – FASE 0

Il 22 febbraio torno da un paio di giorni passati a Barcellona, a presentare un documentario realizzato con Bamboo Productions. Un momento celebrativo a base di cinema, tapas, passeggiate notturne, paella, tutto concentrato in due giorni. Sarebbe stata l’ultima volta che sarei uscito dai confini della città (e più o meno anche dai confini del divano di casa). In Italia si parlava ancora poco del Covid-19, c’erano i primi casi a Codogno e Vo’ Euganeo, si alzavano le sopracciglia vedendo che la gente cominciava a fare incetta di Amuchina, farina per dolci (o lievito) e guanti in lattice. Le vacanze di carnevale finiscono, ma le scuole restano chiuse. Parte a singhiozzo la DAD, la didattica a distanza, in ufficio tutto sembra irreale (e infatti dopo poco tempo veniamo proiettati in una dimensione ancora più irreale, quella dello smart working). In quei giorni, il mio orientamento è stato soprattutto teen, un po’ fantasy e un po’ splatter, ma soprattutto teen.

LOCKE & KEY

Tratta da un fumetto ideato dal figlio di Stephen King, sulla carta una cosa molto edgy, alla prova dei fatti… beh, una serie fantasy per tutta la famiglia. Tre fratelli esplorano l’inquietante casa di famiglia e scoprono che il defunto padre era al centro di un misterioso complotto per nascondere delle chiavi magiche che aprono dimensioni fantastiche (ma una creatura demoniaca li aspetta al varco). Ci può stare. Ci sono dei momenti visivamente belli, alcuni plateali rimandi all’estetica del Re, ma protagonisti un po’ antipatici. L’idea di base però è carina, credo che guarderò anche la seconda stagione.

I AM NOT OKAY WITH THIS

Qui partiamo con la pregiudiziale perché c’è Sophia Lillis e tutto quello che tocca Sophia Lillis bisogna solo venerarlo strisciando nudi a terra. Comunque. C’è questa tipa che ha i poteri, un po’ tipo Carrie, ed è costantemente incazzata. C’è l’amico nerd che abita sull’altro lato della strada che vorrebbe stare con lei ma il sesso è imbarazzante. C’è il classico distillato di anni ’80 che Netflix cerca in tutti i modi di propinarci, e funziona. Sette episodi, alla fine succede una cosa alla Carrie, ma non dico nulla. Qui i protagonisti invece sono eccezionali.

THE END OF THE F***ING WORLD S2

La seconda stagione è un po’ più meh rispetto alla prima, ma si fa guardare. C’è di mezzo Bonnie, la fidanzata dell’uomo ucciso da James e Alyssa nella prima stagione, e tutto ruota intorno a una vendetta che non arriva mai, non arriva mai e quando arriva… Boh è un po’ sgonfia. Comunque, splatter anche in questa stagione e questo è un po’ ciò che conta. Volutamente sgradevole anche nella recitazione, si fa comunque guardare.

ON MY BLOCK S3

Son due anni che vado dicendo che On My Block è una delle serie teen più vere e più godibili in circolazione. Risate e lacrime vanno a braccetto in questo ritratto della vita nei sobborghi di L.A., tra gang rivali e giornate a scuola, latinos e neri, pistole e primi amori. Per una volta niente nostalgia anni ’80 (casomai, cuoriosamente, anni ’90) e un finale shock che ribalta tutto quanto avevamo sperato in un sad ending che mi fa pensare che non avremo una quarta stagione. Comunque guardatela, spacca.

MARZO / APRILE – FASE 1

Intorno a metà marzo, abbiamo capito che la didattica a distanza non può funzionare. La stampante è diventata il nuovo totem familiare, senza stampante non si vive: occorre stampare le autocertificazioni. Una, dieci, cento autocertificazioni. Tutti dicono #andratuttobene (io no), tutti panificano (io no), nessuno sa esattamente cosa fare, la gente la prima settimana canta ai balconi (io no), la seconda settimana urla “state a casa” dai balconi (io no), la distanza di sicurezza, le mascherine introvabili, la coda al Lidl, la gente che scappa al sud e al sud non li vogliono, le terapie intensive, il silenzio, gli animali selvatici, la pasta madre, i morti, la curva del contagio, i DPCM, le bare in colonna, il sito dell’INPS che va in crash, tutti che fanno cose tipo che avevano sempre sognato di fare (io no) (anzi sì, ho cominciato una serie di dirette Facebook a tema classic movies che sto raccogliendo qua, se vi fa piacere) (se non vi fa piacere siete sgarbati e cattivi). In quei giorni le mie visioni hanno assunto un tono un po’ più cupo, per poi sbracare nel trash. Oddio, guardandomi indietro in realtà è tutto molto trash.

THE CHILLING ADVENTURES OF SABRINA S3

Vabbè. Questa andava vista per completezza. Sabrina è una di quelle serie che sono fresh per le prime due o tre puntate poi mostrano quasi subito la corda della loro autoreferenzialità. Comunque, alle serie derivate da un fumetto si perdona (quasi) tutto. C’è molto inferno, molto camp (molto più di prima, intendo), giovani corpi seducenti per tutti i gusti (c’è anche l’amica non binary che limona dopo 26 puntate di stracciamento di palle). Insomma, comunque ‘Brina diventa queen of hell ma c’è una nuova minaccia, i GRANDI ANTICHI (Chtulhu? No, un gruppo di giostrai con la passione per The Wicker Man). Caotico.

THE OUTSIDER

Qui varrebbe a imperitura memoria quanto ha scritto Zerocalcare sulle pagine di Best Movie. Comunque. The Outsider è una serie (tratta da Stephen King) molto solida, molto ben scritta, recitata, prodotta. Ha tutto di buono, c’è tensione, c’è mistero (oddio, io avevo letto il libro da poco, quindi mistero anche no, però insomma). Unico grande problema – che avevo rimosso – il fatto che l’antagonista principale si chiami El Cuco. Che cazzo, dài. Comunque, l’ho detto: solida. Recuperatela (questa va “recuperata”, non so se mi spiego).

HUNTERS

Guardo poco Amazon Prime, ed è un peccato perché dentro ci sono chicche come Hunters, dove c’è Al Pacino che gigioneggia in mezzo a un azzeccatissimo cast di improbabili tipi anni ’70 (tra cui Ted Mosby coi baffoni) che tutti insieme costituiscono il supergruppo dei “cacciatori di nazisti”! Sì, sangue, ultraviolenza e tarantinate varie coi nazi cattivissimi che muoiono male (ma muore male anche qualcuno dei buoni). Molto criticata per aver romanzato l’olocausto nei flashback ambientati ad Auschwitz, io comunque l’ho trovata un buon passatempo, c’è anche il supercolponediscenafinale.

TIGER KING

Sulla carta, non c’è nulla di più lontano dai miei gusti di Tiger King, eppure. Molti contatti che stimo continuavano a proporla, e allora l’ho guardata. Tiger King, con il suo protagonista larger than life Exotic Joe (gay, white trash, ossessionato dai grandi felini e dalle armi), ci fa comprendere l’America che non siamo abituati a vedere. In poche puntate questa serie documentaria usa il true crime per parlarci della società che ha votato Trump. Si capiscono molte cose. E poi c’è anche uno special finale condotto da Joel McHale, tanto amore!

LA CASA DE PAPEL

La quarantena chiama necessariamente La casa de papel, è quasi un’equivalenza obbligata. Non l’avevo mai considerata anche perché avevo provato a guardarla in tempi non sospetti e l’avevo abbandonata dopo 20 minuti. Stavolta l’ho vista TUTTA, per far piacere a mia moglie che è diventata una fan. Responso: ho dormito per la maggior parte delle prime due stagioni (mi facevo raccontare la trama il mattino dopo a colazione). La terza e la quarta stagione mi hanno invece tenuto sveglio, si vede che i soldi di Netflix sono serviti a qualcosa. Ma è morta Nairobi, puta mierda, viva Nairobi!

APRILE / MAGGIO – FASE 2

La fase due, ormai è acclarato, è come la fase uno ma senza quell’afflato poetico/eroico dello #stateacasa, tutti sono scazzati, demotivati, da un pimpante eroismo siamo arrivati prima alla disperazione, poi alla delazione, all’incattivimento, al runner bastardo, ai pisciatori di cani, ai passeggiatori di bambini, c’è troppa gente in giro, ci vuole l’esercito, dagli all’untore, i TSO, le violenze domestiche, le dirette Facebook (quelle del Pres, non le mie), dire tutto per non dire niente, i dati ufficiali, i dati non ufficiali, i tamponi, i sierologici, i reagenti, gli amici che perdono i congiunti, i congiunti, diomadonna, i congiunti. E poi naturalmente la cucina: “cosa facciamo a pranzo”, e dopo pranzo “cosa facciamo a cena” e io non voglio più cucinare per almeno due anni. In questo caos grottesco, in CasaIzzo ha prevalso il dramma, l’introspezione. Oddio, prevalso. Diciamo che si è preso un buon 50% di visioni.

CRISIS IN SIX SCENES

Ragazzi, ci ho provato. Peraltro uno dei libri che ho letto in quarantena è stato proprio “A proposito di niente”, autobiografia di Woody Allen, moderatamente interessante e divertente. Eppure, non so. Continuo a non essere in sintonia con il Woody del nuovo millennio. Si vede che ha mestiere, che fa la sua cosa in scioltezza, ma… un po’ di noia c’è, anche se Miley Cyrus è sempre bona, e i dialoghi tra Woody e Elaine May sono sopra la media. Ah, si parla di diritti civili nell’America alto borghese dei primi anni ’60.

AFTER LIFE S2

Ricky Gervais è un genio. Tolto questo dal tavolo, possiamo dire che la seconda stagione di After Life è leggermente al di sotto dei risultati della prima? La struttura è identica (e perciò mostra un tantino la corda) e l’unica differenza è che Ricky cerca di essere più empatico e meno caustico con le persone. Certo è che lo zoo umano di cui si è circondato in questa serie vale tanto quanto lui (il mio preferito è il postino Pat, ma subito dietro c’è l’inquietante figlio della fidanzata del collega fotografo – perdonate il giro di parole lunghissimo ma non ho voglia di andare a reperire il nome del personaggio).

UNORTHODOX

Oh, la miniserie, che bella invenzione! Non dover aspettare un anno per vedere come va a finire la storia! Unorthodox è bella secca, quattro puntate di circa un’ora e bon. La storia vera è quella di una donna che rifiuta la sua comunità chassidica di ebrei ultraortodossi di Williamsburg (da cui il titolo) e che vive il suo sogno nascondendosi in un conservatorio di Berlino. Vabbè, comunque è curiosa perché è recitata mezza in inglese, mezza in yiddish e mezza in tedesco, poi c’è questa attrice Shira Haas che interpreta la protagonista che è super magnetica. Emozionante.

HOLLYWOOD

Una miniserie di Ryan Murphy. E già così avrei detto tutto. La storia è quella di alcuni giovani outsider che spingono per lavorare in uno studio cinematografico nella Hollywood post-war. Ovviamente ci sono un sacco di scene di sesso, gigolò, produttori assatanati che vogliono fare pompini (e questo è Jim Parsons, nel ruolo più anti-Sheldon Cooper immaginabile), Patti LuPone, teatralità a mille, un ritratto d’epoca filtrato attraverso la sensibilità camp di Murphy che alla fine somiglia più a una lunga puntata di Glee senza musical che non a una cosa “seria”. Comunque godibile, eh.

THE MIDNIGHT GOSPEL

Questa è stata la sorpresa più allucinante di tutta la quarantena. Prendi un podcast (che non conoscevo) dedicato a tematiche come meditazione, droghe, percezione di sé, morte e rinascita. Chiama Pendleton Ward (il creatore di Adventure Time) per creargli sopra una serie di immagini animate che non sempre o non del tutto sono in relazione con quanto viene detto in traccia audio. Mixa il tutto e niente… un’esperienza di pura psichedelia. Le ultime due puntate (se ci si arriva, perché è una serie “faticosa”) valgono qualsiasi cosa vista in TV negli ultimi anni. E strappano il cuore.

NEVER HAVE I EVER…

Torniamo a un teen drama, ma questa volta con la certezza che si tratti di un teen drama ben scritto. Never have I ever ha recensioni tutte positive, tipo il 100% di entusiasmoh, quindi dai. Sarà perché la protagonista (sfigata in botta per il figo della classe) è indiana, e molto della serie si basa sulla cultura indiana trapiantata in USA. O sarà perché per una volta hanno scelto attori credibili e situazioni non troppo sopra le righe. O sarà perché hanno scelto di chiamare John McEnroe e fargli fare la voce narrante (!!!). C’è un motivo per questa cosa di John McEnroe, comunque. E in effetti, nel suo genere, è una serie molto valida. Attendo con ansia la prossima stagione.

Mentre finisco di scrivere queste righe mi rendo conto che come al solito non ho saputo parlarvi di una cosa e una soltanto, e ho dovuto ficcarci dentro alcune considerazioni personali sul periodo che abbiamo vissuto negli ultimi tre mesi. Questo post è diventato quasi un diario della pandemia visto attraverso le serie TV. Ma se volete leggere veramente dei diari della pandemia, per ricordarvi quello che è successo in questi tre mesi che sono sembrati tre secoli, vi rimando a due amiche lombarde. Il diario del coronavirus di Barbara Sgarzi e Vivere nella paura di Daniela Losini sono due testimonianze vere, diverse, a volte buffe, ricche di introspezione e purtroppo anche devastanti.

E sono testimonianze che mi sono entrate nel cuore, più di qualsiasi serie TV.

STEVEN UNIVERSE FUTURE

Dicembre 2020: da quanto vedo questo post è molto ricercato, sul blog e su Medium, perciò mi sento in dovere di aggiornarlo parlando anche della seconda metà della stagione di Steven Universe Future (al momento ancora inedita in Italia). Scorrendo in giù troverete il solito vecchio post ma con qualche paragrafo in più… 😉

Sembra sempre strano quando lo scrivo, ma quando ci penso bene è effettivamente così. Dal 2016 ad oggi la mia vita (e quella della mia famiglia) ha avuto dei miglioramenti grazie ad una serie animata*.

Mi riferisco ovviamente a Steven Universe (160 episodi per cinque stagioni dal 2013 al 2019, disponibile ancorché poco agevolmente** su Cartoon Network, Boing e da un paio d’anni anche su Netflix), la serie di Rebecca Sugar sul bambino figlio di un umano e di una gemma spaziale che difende il nostro mondo dalle gemme malvagie, scoprendo a poco a poco i suoi super poteri e soprattutto venendo a conoscenza della intricata backstory dei propri genitori e tutori legali.

In pratica vi ho fatto il tipico blurb da Netflix, poi ovviamente la storia è molto più complicata di così e non è mia intenzione farne un’analisi adesso. C’entra il modo con cui cambia lo sguardo verso la figura genitoriale, c’entrano i traumi pregressi e i “carichi” che la storia familiare spesso ti dà, c’entra l’empatia come chiave per risolvere i conflitti, c’entra soprattutto la definizione di un’identità personale svincolata dalle convenzioni sociali e pienamente auto-affermata (il tutto in episodi animati da 10 minuti l’uno, figo, no?)… Vi rimando ad un mio vecchio post per approfondire.

Idee più chiare? Bene. La quinta stagione si è conclusa nella primavera 2019 con un lungo episodio speciale (“Change Your Mind“) trasmesso in Italia solo nell’autunno 2020. Nell’autunno del 2019 è uscito invece Steven Universe The Movie (qui la mia recensione), un vero e proprio musical che potrebbe definirsi come un “victory lap”, un ultimo giro di giostra che riprende in 90 minuti tutti i temi della serie e ne tira le fila. Ma il fandom di SU (di cui peraltro faccio parte a pieno titolo) è affezionato al limite della mania, e lo stesso deve essere per Rebecca Sugar stessa.

Ecco quindi che nel 2020 Steven Universe è tornato con una nuova serie “Future“, che come il film si svolge qualche tempo dopo il finale della quinta stagione. Steven è a pieno titolo un adolescente problematico, che sembra essere in pace con sé stesso, ma evidentemente non lo è. La chiave della nuova serie? Steven ha sempre risolto con la sua intelligenza emotiva i problemi di tutti, ma non ha mai risolto i suoi. E adesso questi problemi (sotto forma di “poteri”) stanno premendo dall’interno per uscire.

Nei dieci episodi che costituiscono la prima parte della miniserie, Steven scopre di avere grossi problemi di gestione della rabbia, per esempio. Una rabbia che si manifesta sotto forma di un aura rosa che aumenta a dismisura i suoi poteri, ma che lo rende decisamente meno umano. Si parte dal desiderio – ancora una volta – di essere d’aiuto per gli altri per arrivare alla realizzazione che l’unica persona che ha bisogno d’aiuto è proprio Steven. Un caso da manuale di PTSD mista ad angoscia esistenziale, paura della solitudine e sindrome del Caregiver. Nel corso degli episodi scopriamo che Rose, la madre di Steven, ha commesso molte più “malefatte” di quelle che già erano note in passato. Il carico di sensi di colpa che Steven si porta dietro per colpa della madre è un tema centrale in tutta la serie, ma qui si ripresenta con maggiore potenza: Steven è destinato a ripercorrere lo stesso percorso di Rose?

La maestria dello storytelling di Rebecca Sugar ha fatto sì che negli anni gli spettatori scoprissero insieme con i protagonisti della serie che il personaggio di Rose, inizialmente idealizzato nella sua assoluta e non scalfibile “bontà”, è in realtà uno dei più complessi, ambigui e “fallati” del mondo di Steven Universe. Un character arc “a ritroso” che in molti casi ha confuso gli spettatori che oggi disprezzano il personaggio come se fosse il villain dello show. Ovviamente non è così. Al di là dei molti antagonisti “esterni”, che bene o male fanno la parte di cattivi “da operetta” o si convertono a rimanere al fianco di Steven, il vero male da combattere in Steven Universe è la refrattarietà ad accogliere dentro di sé anche le emozioni negative e a viverle pienamente come è giusto che sia.

In generale, la scelta di proseguire con una “nuova” serie è stata indicativa di quanto la Sugar sia disposta ad esplorare quello che succede a un eroe dopo che il suo viaggio è finito. Cosa resta dell’avventura? Come può sopravvivere Steven – il salvatore del mondo – quando nessuno ha più veramente bisogno di lui? SUF rischia in alcuni episodi di rasentare il filler (termine vagamente dispregiativo usato per indicare episodi che non portano avanti significativamente la trama orizzontale), ma in altri – come “Volleyball”, “Little Graduation” o “Prickly Pear” – vola altissimo. Steven deve accettare di non essere più necessario, deve lasciar andare i suoi vecchi amici e deve, come si suol dire, voltare pagina. Crescere vuol dire riconoscere i propri bisogni e saperli comunicare. Ma Steven è stato troppo occupato a diventare un eroe e salvare il mondo. Deve ancora imparare a salvare sé stesso.

La seconda metà di Steven Universe Future (gli ultimi 10 episodi, trasmessi a marzo in USA e ancora inediti in Italia) rappresenta il vero e proprio epilogo della saga di Steven. Cento minuti sembrano pochi per imparare a gestire la ridda di emozioni che si agitano nel cuore di Steven, ma Rebecca Sugar e il suo team riescono a chiudere (quasi) tutte le storie rimaste in sospeso. Da qui in poi SPOILER grossi come una casa, quindi continuate a leggere a vostro rischio e pericolo.

Dopo un paio di episodi interlocutori che servono da un lato a completare il quadro dell’estraniamento di Steven da tutto il suo mondo, dall’altro a tratteggiare l’evoluzione di un personaggio come quello di Perla (in “Bismuth Casual”), si arriva al dunque. Negli episodi successivi, in un crescendo altalenante di emozioni, Steven in un certo senso perde gli ultimi due agganci con la realtà e con la sua “umanità” (Connie e Greg) e avvia la sua trasformazione metaforica – ma anche letterale – in “mostro”. Nell’episodio “Growing Pains” vediamo come la crisi psicologica di Steven si rifletta in rigonfiamenti rosa che lo rendono sempre più simile a Rose Quartz / Pink Diamond, la problematica madre aliena e come in modo molto acuto gli venga diagnosticata una sindrome da disturbo post-traumatico. In tutti gli episodi dalla prima alla quinta stagione abbiamo visto Steven combattere con arguzia e leggerezza. Ora capiamo che tutti quegli scontri hanno lasciato un segno, fisico e psichico.

Il punto di non ritorno arriva quando Steven attua l’irreparabile (beh, non proprio così irreparabile, ma qualcosa che lascia un segno indelebile): da quel momento perde la sua umanità e si trasforma… in un enorme kaiju rosa! È buffo da dire, perché sulla carta è una trovata quasi surreale, ma considerando il debito che Steven Universe ha con molti anime tradizionali e l’amore che Rebecca Sugar ha per quel tipo di animazione, ci sta tutto. E la cosa viene trattata molto seriamente dai suoi amici e familiari. Come sempre, il potere dell’amore vincerà su tutto in un episodio finale all’insegna del ritrovato amore di sé, l’unico “potere” che a Steven ancora mancava. È il tema, lo capiamo solo alla fine, della sigla finale della serie – non a caso, “Being human”.

Tutto sommato, anche se del mondo di Steven vorremmo vedere ancora ore e ore di trasmissione, Future ha una chiusura soddisfacente, che non lascia delusi. Ovviamente, si piange moltissimo. Altrettanto ovviamente, non resta che consolarsi con gli art book e il cofanetto celebrativo (ahimè solo USA).

* Acuto com’è nell’analizzare i temi della depressione e dei problemi psicologici dei personaggi (è praticamente un Bojack Horseman per bambini), Steven Universe mi ha inaspettatamente aiutato in momenti molto bui della mia vita, e sono convinto che averlo riguardato con la Creatura abbia contribuito a farlo crescere meno manesco e con il valore dell’empatia e del riconoscimento delle diversità.

** Non so su Cartoon Network Italia, ma su Boing hanno lo stramaledetto vizio di trasmettere blocchi di episodi “a cazzo”, il che è la morte per una serie come Steven Universe che basa il 90% del suo appeal sulla continuity molto forte tra i vari episodi e le varie stagioni.  Su Netflix invece hanno deciso di pubblicare la prima stagione e poi la quarta, senza la seconda e la terza. Insomma, un casino. Su Kimcartoon lo trovate tutto (in inglese). Se cercate il gruppo Steven Universe Italia su Facebook e chiedete lì, qualche dritta ve la danno di certo. Non c’è gioia più grande per un fan di SU di coinvolgere nuovi spettatori ignari…

HITLER, IL KAISER, I CONIGLI E LE MUCCHE

Gennaio è stato un mese in cui ho visto pochi film, più che altro perché mi si sono moltiplicati i lavori sotto il culo e di conseguenza non ho avuto più tempo né di leggere né di vedere cose. Mi sono limitato ai due film “evento” di inizio anno, già in forte odore di Oscar ed entrambi centrati su storie di guerra, che è un genere che a casa mia si pratica poco, perché ho sempre preferito fare l’amore (o mettere dei fiori nei miei cannoni, insomma, avete capito ve’).
Daje, allora.

JOJO RABBIT (Taika Waititi, 2019)
Dannato Taika Waititi, tu mi vuoi morto. Ho visto praticamente tutti i tuoi film, mi fido che sei un ottimo regista di bambini (Boy e Hunt for the Wilderpeople lo confermano), so che se vuoi mi fai ammazzare dalle risate (What We Do in the Shadows, Flight of the Conchords e sì, anche Thor Ragnarok sono lì a dimostrarlo). Come giustamente dice l’Adolf Hitler del tuo film, “falli sentire a proprio agio e poi quando meno se lo aspettano accoltellali al cuore”. Ecco, appunto. Jojo Rabbit parte con un montaggio di immagini da Triumph des Willens accompagnate da I Want to Hold Your Hand dei Beatles (ma ovviamente nella versione tedesca). E già lì ti senti male, perché ti scatta il piedino ritmico e intanto ti viene la nausea. Devo dirlo, a me piacciono i film che stanno sempre sul filo della rovina più totale. Jojo Rabbit è uno di questi. In tutte le scene da sghignazzo stai a disagio perché c’è sempre sotto qualcosa di malato, ma tutto sta in un equilibrio perfetto. È una miscela esplosiva di orrore, violenza, comicità sgangherata, tenerezza, piccoli movimenti del cuore. Non è un cazzo facile tenere insieme tutto questo. Non è un cazzo facile farmi sbottare di risate e qualche minuto dopo farmi piangere in silenzio (due volte, e non mi capitava da diversi anni al cinema, anche se sono superemotivo). E infatti se devo dirla tutta, in alcuni momenti c’è una spinta sull’acceleratore del volemose bene che deve funzionare da collante per tenere tutto insieme. Ma Jojo Rabbit è uno di quei film cui perdoni anche qualche piccolo difetto. Production design e costumi degni di un Wes Anderson in fase paranoia perfezionistica, intere scene che buttano un occhio a Chaplin e uno a Mel Brooks (occhio al momento topico dei multipli Heil Hitler), un protagonista che a dieci anni sa trasmettere con uno sguardo e un’inclinazione della testa diecimila emozioni, un cast di supporto perfetto (criticano la mia amata Scarlett, ma io l’ho trovata molto in botta). Tutto per dimostrare la tesi dei versi di Rilke alla fine del film: “Let everything happen to you / Beauty and terror / Just keep going / No feeling is final”. E a proposito di finale, dannato Taika Waititi, il colpo al cuore di Bowie… maledetto ruffiano. #recensioniflash

1917 (Sam Mendes, 2019)
1917: cosa ne devo pensare? Non è un film de panza, questo va detto subito. Non è nemmeno tanto un film di menare o comunque di sparare. È un film di immagini e di movimento, di quadri e di profondità, di ambienti e di pedinamenti. Seguiamo i due sfigatissimi protagonisti (uno era il povero Tommen di Game of Thrones, l’altro appariva in 11.22.63) in una missione suicida: portare un importante messaggio oltre le linee nemiche. Ma la storia – il “cosa” – non importa, è solo un pretesto. Facile dire che tutto il film è un sontuoso videogame. Nel piano sequenza virtualmente ininterrotto di 1917 c’è l’assegnazione della missione, il percorso a ostacoli, ogni tanto un break come nelle scene di interludio tra un livello e l’altro di un FPS. In ogni break c’è una star di livello che fa un discorsetto, tipo Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch o Andrew Scott (sua l’interpretazione più coinvolgente). Si resta conquistati dal production design (cadaveri che affiorano ovunque, cavalli morti, mucche vive, filo spinato, arti amputati, mosche, sangue, fumo, fiamme, cenere, fango e merda) e ovviamente dalla Tecnica con la T majuscola che francamente distrae un po’ dall’immersione totale che forse Mendes cercava di offrirci. Ci sono scene memorabili, come quella del dormitorio tedesco sotterraneo (che è una trappola), del fienile diroccato (che pure è una trappola), dell’edificio sulla riva del fiume (trappolissima), della città distrutta sotto le luci livide dei bombardamenti (trappolandia). Intendiamoci, 1917 ha i suoi bei momenti di tensione e più di un jump scare, ma tutto è sempre ricondotto a un formalismo che lascia un po’ interdetti. Risulta chiaro (anche dalla scelta di due protagonisti semi sconosciuti) che il punto è spogliare di ogni eroismo lo schifo della guerra e mostrare più che altro la paura, la fuga, l’ansia e la depressione. Peccato che anche questa tesi venga contraddetta da una delle sequenze finali (che io tra me e me ho battezzato “la sequenza Chariots of Fire”) che è francamente imbarazzante, come imbarazzanti sono certi dialoghi (almeno in italiano, purtroppo stasera il cinema non proiettava in VO). Quindi in definitiva, mi è piaciuto? Sì, mi è piaciuto di testa, l’ho apprezzato come si apprezza un’opera d’arte classica, una dimostrazione di virtuosismo narrativo. Ma non mi ha coinvolto. Virtuosismo per virtuosismo, ridatemi They Shall Not Grow Old di Peter Jackson. #recensioniflash