SMILE: SORRIDI E ANNUISCI

Smile di Parker Finn è un thriller con elementi soprannaturali che alla fine vorrebbe essere un horror vero e sbraca, con creature improbabili ed effetti speciali approssimativi. E vabbè, vi ho rovinato il finale. O forse vi ho salvato. Comunque, trailer.

La trama indubbiamente è abbastanza intrigante: la protagonista è una psicoterapeuta che viene a contatto con una sorta di entità malvagia che “sorride” (da cui il titolo del film) e che prende possesso delle persone portandole a suicidarsi in modi fantasiosi e grandguignoleschi. Chi assiste ad uno di questi suicidi viene a sua volta perseguitato dall’entità che “assume le sembianze di amici e conoscenti” facendoti prendere gli spaventoni e dopo 4, massimo 5 giorni entra dentro di te e ti spinge al suicidio creativo. Sempre però avendo cura di farlo davanti ad un testimone, che a sua volta assisterà al suicidio e diventerà la nuova vittima, che vedrà l’entità per 4 o 5 giorni e poi dovrà suicidarsi male… in un ciclo continuo che è già in odore di sequel.

Quello che non è male di questo film è la parte investigativa, sui cold cases rivisitati, e anche la parte psicologica (considerato il mestiere della protagonista) non fa cadere le balle. Dove cade tutto è sulla Creatura MalvagiaTM che sembra uscita da un brutto film anni ’80, non saprei nemmeno descriverla senza scoppiare a ridere. Anche il modo in cui la creatura “prende possesso” del malcapitato è un po’ ridicolo – o meglio, sarebbe figo se alla regia ci fosse Brian Yuzna, per dire. 

Purtroppo quindi Smile resta un horror che non fa paura… e posso apprezzare che non sia l’ennesimo remake, sequel o prequel, ma il fatto che comunque ne genererà non promette nulla di buono.

FORCELLA PARTY TIME

Mixed by Erry di Sidney Sibilia (2023) è il piccolo grande fenomeno commerciale del cinema italiano del momento, prodotto da Groenlandia e Netflix, come anche l’ultimo film di Sibilia sull’Isola delle Rose, a dimostrazione che l’internazionalità e lo stile (due concetti che tornano a mo’ di sfottò nel film) Sibilia e i suoi ce l’hanno di sicuro.

Il film racconta la storia (abbastanza nota ai cinquantenni di tutta italia) dei fratelli Frattasio: Giuseppe, Antonio e soprattutto Enrico/Erry, l’aspirante DJ sognatore che dallo sgabuzzino del negozio di dischi dove fa le pulizie a Forcella comincia a produrre mixtape per la gente del quartiere e a poco a poco costruisce un impero che fa diventare il marchio “Mixed by Erry” la prima casa discografica italiana all’alba degli anni ’90.

Come ha praticamente sempre fatto, anche qui Sibilia racconta il più tipico “sogno italiano”, quello del fuorilegge romantico che si muove ai limiti della legalità e che alla fine (qui già all’inizio) viene fermato dalle forze dell’ordine. Il sogno anarchico e libertario che solletica la pancia di qualsiasi italiano e che trova ovviamente nella Napoli anni ’80 di Maradona e delle guerre di camorra la sua apoteosi, tra whisky falsificato con il tè e cassette duplicate.

Lo stile internazionale (che mancherebbe a Enrico per fare il DJ “serio”) non manca a Sibilia, che – complici attori giovanissimi e tutti perfettamente in parte e un Fabrizio Gifuni da urlo nella parte del CEO bauscia – confeziona una classica gangster story di ascesa e caduta con toni da commedia, senza spargere (troppo) sangue perché in fondo che sarà mai, stiamo parlando solo di contraffazione, mica di omicidi.

Se dovessi trovare un problema al film è che verso la parte centrale confonde un po’ le acque, altalenando un po’ film e riprese d’archivio con l’uso della voce narrante di Enrico (che è simpatico, ma in alcuni casi la scorciatoia dell’odìmo è dietro l’angolo) e calcando un po’ la mano con battute un po’ ovvie sul televideo, la musica latina e via dicendo.

Tutto sommato il film si fa amare, soprattutto perché ha quella patina di nostalgia anni ’80 che fa presa da sempre sul pubblico italiano (e la ricostruzione è perfetta) e ha anche una colonna sonora giustamente da urlo: il brano di Liberato che è anche il tema portante del film lo sto ascoltando a nastro da stanotte).

THE WHALE PER ME È UN NI

Sto ancora cercando di decidere se The Whale mi è piaciuto o no. Normalmente apprezzo Darren Aronofsky, nonostante la sua propensione all’entomologia cinematografica (o forse proprio per quello). Aronofsky a mio avviso fa film molto freddi che coinvolgono testa e stomaco ma quasi mai il cuore (il quasi è per The Wrestler). Anche in The Whale c’è sicuramente “bisogno di cuore”, il film sembra costruito per entrare in empatia con il protagonista e invece… ni. Ma intanto, il trailer.

Brendan Fraser (bravissimo) si porta a casa il ruolo di una vita e ovviamente l’Oscar per una interpretazione in “fat suit” che di solito viene usato per scopi comici e che invece qui è portata all’apice drammatico (il “fat suit” è la tutona + effetti prostetici che sta al fat shaming come la blackface sta al razzismo). Sadie Sink è perfetta nel ruolo della figlia adolescente incattivita e Hong Chau (già vista in The Menu) nel ruolo dell’amica infermiera che accudisce il protagonista.

Il problema forse sta in una messa in scena claustrofobica (ok, ci sta, è comunque un testo teatrale), poco illuminata, virata su colori freddi e sgranata (ok, è un film A24, è pure in 4:3, però questo allontana l’identificazione) e su un’insistenza per me troppo ambigua su tutti gli aspetti più sordidi della condizione di Charlie, il protagonista (lo vediamo sempre che si masturba, che si ingozza, che vomita, che soffoca, che suda, che ondeggia per casa, che si lava con difficoltà) che non capisci se voglia creare empatia (e se l’intento era quello per me è fallito) o stigma (non penso, ma l’ambiguità resta).

Un tempo questo tipo di film si definiva exploitation, nel senso che “sfrutta” un gimmick clamoroso (la grande obesità) per costruirci su una trama tanto semplice quanto diretta: Charlie sta per morire, la figlia Ellie lo va a trovare, lui cerca di riallacciare il rapporto interrotto otto anni prima quando lui ha abbandonato la famiglia per inseguire un amore gay. Tra Charlie e la figlia si inseriscono i personaggi di Liz (l’amica infermiera nonché sorella dell’amante ormai defunto di Charlie) e di Thomas, un ragazzo che vuole far scoprire a Charlie l’amore di Gesù. Entrambi i personaggi di Liz e Thomas sono sostanzialmente delle funzioni narrative che servono a fare gli spiegoni, C’è questo parallelismo con Moby Dick che viene portato avanti per tutto il film fino ad un finale… molto Aronofsky.

Vabbè, sono contento di averlo visto ma non lo rivedrei un’altra volta, diciamo. Sta più sul versante Mother! / Black Swan che sul versante The Wrestler / Requiem for a Dream, per me.