IL KOMOREBI E I CESSI DI TOKYO

Io sono uno che di norma guarda su YouTube video di una o due ore intitolati “Walking around in Tokyo under the Rain ASMR” o “Driving in Shibuya with Local Radio” e resta ipnotizzato in un’estasi zen di fronte allo schermo.

Inoltre, sono anche uno che – folgorato a quattordici anni proprio da un double feature Tokyo Ga / Paris Texas organizzato dal cineclub di quartiere – ama Wim Wenders di un amore solido e pacato, sfociato in una tesi di laurea su Im Lauf der Zeit e scemato un po’ negli ultimi dieci anni per sopraggiunta noia nella nostra relazione. Mi sembrava che Wim non avesse più molto da dirmi.

E invece lui è tornato con Perfect Days, un film che è molto più vicino a Summer in the City o Alice in den Stadten che non a Palermo Shooting o Everything Will Be Fine. Un film girato interamente per le strade di Tokyo, con un gigantesco Kōji Yakusho (che confesso, era fuori dai miei radar finora e meritatamente ha vinto il premio per il miglior attore a Cannes 2023) in cui non si parla quasi mai ma si guida e si passeggia molto, con una colonna sonora che è puro Wenders anni ’70 (Animals, Patti Smith Group, Lou Reed, Otis Redding, Kinks, Van Morrison e una folgorante Nina Simone sul finale).

In Perfect Days non succede nulla, se non la ripetitività delle giornate (ne ho contate mi pare dieci) di un uomo di mezza età che di lavoro pulisce i cessi pubblici di Tokyo. Ovviamente lo fa con grandissima scrupolosità, poi fa le sue pause pranzo in parchi pubblici ammirando il komorebi (la luce che filtra attraverso le foglie degli alberi) e fotografa le suddette foglie con una Olympus compatta anni ’80.

Guida il suo furgoncino dotato di mangianastri sul quale fa suonare rigorosamente cassette anni ’70 e ’80, non parla quasi mai, nemmeno se interpellato dal suo collega fancazzista, e ogni giorno dopo il lavoro va al bagno pubblico, poi a mangiare qualcosa sempre nello stesso locale, poi va a casa, legge un po’ di Faulkner o di Patricia Highsmith a letto, spegne la luce, si addormenta, sogna in bianco e nero (i sogni che punteggiano tutto il film sono girati da Donata Wenders).

La mattina dopo si risveglia e tutto ricomincia da capo, con minime variazioni. Perfect Days è veramente un film minimalista nel senso che è come un pezzo di Philip Glass o Terry Riley messo in immagini, non riesci a smettere di guardarlo in attesa dell’impercettibile variazione che sai che succederà, dura 124 minuti ma ne vorresti ancora almeno 90, non puoi staccare gli occhi.

È girato in 4:3 perché quella è la proporzione giusta per il primo piano, e infatti siamo spessissimo sul volto di Yakusho a sondare ogni sua ruga e ogni sua espressione. A poco a poco entriamo nella vita monacale di quest’uomo che evidentemente ha un passato difficile che possiamo solo immaginare e ci innamoriamo di lui.

Perfect Days è come un bagno rilassante in acque calme e riesce a lavar via l’accumulo di immagini “non necessarie” che ci bombardano ogni giorno per raggiungere l’essenziale, che come diceva quello, “è invisibile agli occhi”. Un film che emoziona tantissimo con poche pennellate e che sul finale colpisce al cuore con un semplice primo piano su cui passa un’intera vita di gioie e rimpianti.

BRADLEY COOPER HA NASO (HAHA)

Che dire di Maestro, l’ultima faticaccia di Bradley Cooper, prodotta da Scorsese e Spielberg? Il biopic di Leonard Bernstein e di sua moglie Felicia Montalegre è coinvolgente, ben costruito, sopra le righe esattamente quanto lo era Bernstein stesso, (quasi) mai noioso soprattutto se si è appassionati di musica / di musical.

Ovviamente all’inizio ci si fa subito distrarre dal naso di Bradley Cooper che ruba la scena un po’ come i denti di Rami Malek in Bohemian Rhapsody (il paragone è solo sulla protesi perché per il resto non vorrei confrontare la merda con il risotto).

Poi però entra in scena Carey Mulligan nel ruolo di Felicia – oserei dire per la Mulligan il ruolo della vita, lei è bravissima – e il film da biopic diventa la storia di un matrimonio e di una famiglia in cui il padre ingombrante dalla doppia personalità estroversa (direttore) e introversa (compositore) è anche bisessuale, e con la benedizione della moglie sta anche con il clarinettista interpretato da Matt Bomer e con altri uomini.

È tutta una ridda selvaggia di formati diversi, colore e bianco e nero, illuminazioni geniali, stacchi di montaggio furbissimi che portano avanti la narrazione in modi inaspettati e insomma, bello.

Vorrei dire ho pianto tanto ma ho pianto solo in un punto.

MAY DECEMBER: DAI TABLOID AL CINEMA

Non è facile inquadrare May December di Todd Haynes (a partire dal titolo che sinceramente non ho capito): Netflix lo presenta come una commedia, a tratti si comporta come un thriller, è pieno di riferimenti sirkiani (gli specchi in ogni dove, i primi piani paralleli, gli amori impossibili) come molti altri film di Todd Haynes.

In questo caso specifico, però, è abbastanza chiaro che Haynes ci prende un po’ in giro, o come direbbero i giovani, ci trolla, con un film che ha tutte le carte in regola per essere un capolavoro del camp: storiaccia da tabloid, esagerazioni infinite, musica completamente dissociata (presa di peso da Messaggero d’Amore di Losey, si legge nei titoli di coda), battute fulminanti come “Mi sa che non abbiamo abbastanza würstel” (non sto a spiegare, ma è un momento chiave per capire la cifra del film).

Comunque sia: la storia è ispirata (letteralmente copiata) da quella di un caso di cronaca degli anni ’90. Donna di 36 anni fa sesso con ragazzino di 12 anni, finisce in galera, partorisce dietro le sbarre, esce quando lui ha 18 anni, lo sposa, ci fa altri due figli e vivono tutti felici e contenti (ma davvero?). In May December la donna che (detto alla giapponese) è in fissa con gli shota è Julianne Moore, garanzia di sbrocco prima della fine del primo atto quasi quanto Nicolas Cage.

Un’attrice in cerca di “ruolo della vita” (Natalie Portman) vive con la famiglia della donna per qualche giorno, per “studiarla” al fine di interpretarne il personaggio in un film in fase di pre-produzione. Va detto che per Natalie Portman questo è effettivamente un ruolo gigantesco come non ne aveva da anni.

Le cose non vanno esattamente come tutti sperano che vadano, qualcuno si fa male, qualcuno continua come se niente fosse. Non solo il film, ma tutti i personaggi principali sono dissociati: Portman, Moore e il ragazzino ormai cresciuto e sposato (Charles Melton, vero cuore del film). 

May December è uno studio sui personaggi mascherato da thriller alla Patricia Highsmith mascherato da commedia. C’erano molti modi di affrontare una storia del genere, ma Haynes ha optato per il meno ovvio, perciò a me è sembrato un film imperfetto ma molto coinvolgente.