TUTTI SESSATORI DI PULCINI CON MINARI

A partire da gennaio, mi sono imbarcato in una missione: guardare tutti i film A24 che mi mancano, perché sono un fanboy A24 ma sono prevalentemente orientato sull’horror, e ad esempio non avevo visto Minari di Lee Isaac Chung: una saga familiare del 2021 ambientata però negli anni ’80 in un Arkansas ruralissimo.

Minari ha vinto molti premi, ed è un film molto strano, nel senso che non scorre come ci si aspetterebbe. C’è la storia di questa famiglia di immigrati coreani (il film è tutto in coreano pur essendo prodotto in USA) in cui il padre (Steven Yeun) vuole fare il salto di qualità e diventare, da pur abilissimo sessatore di pulcini (un mestiere che ho scoperto guardando questo film) un imprenditore agricolo che coltiva e rivende prodotti coreani ai suoi connazionali immigrati.

La moglie non ci crede troppo, i figli vanno a scuola e il figlio minore ha pure un soffio al cuore difficile da curare. A un certo punto entra in scena la nonna (Yoon Yeu Jeong che ha vinto anche il Golden Globe per questa interpretazione) che instaura un rapporto molto particolare col nipotino, prima conflittuale e poi di complicità.

Ti aspetti il tema razziale, ma è solo sfiorato. Ti aspetti la tragedia, tipo che papà e mamma divorzino, la nonna muoia, il bambino muoia, ma no. Tutto è molto slice of life (oddio, la nonna ha un ictus, ma capiamo che si riprenderà). L’unica tragedia, se così si può dire, è nel finale, ma è una tragedia che riunisce tutta la famiglia e la spinge a perseverare. 

Indubbiamente uno dei film top degli ultimi anni, senza “alzare troppo la voce”.

SILENZIO, È TORNATO JOHN WOO

Buongiorno, sono John Woo, ho 77 anni e sono un regista d’azione. Per il mio ritorno dopo praticamente 20 anni al cinema mainstream americano, ho scelto di adottare il trucco del silenzio.

In pratica io me lo figuro così, John Woo, che presenta l’idea per Silent Night, il suo thriller di vendetta tremenda vendetta uscito subito prima delle feste e che io ho visto l’ultimo giorno di feste perché poi non sta bene guardare film con i maglioncini di Rudolph la Renna dal Naso Rosso dopo il 6 gennaio.

In Silent Night nessuno parla, mai. Il protagonista Joel Kinnaman (piacevolmente atterrato qui dopo Suicide Squad) perché all’inizio del film gli sparano in gola e lui invece di morire male si salva ma resta muto. Gli altri perché boh… la moglie due parolette bofonchiate le dice mentre i cattivi del film, che sono i membri delle gang rivali di Las Palomas TX, semplicemente comunicano via SMS.

Gimmick a parte, Silent Night non è come i vecchi film di John Woo – o meglio, ci sono alcune cose che richiamano quegli stilemi, tipo il pappagallino, le palle di Natale riflettenti, le tombe da abbracciare. Ma per il resto il regista cinese ha pensato fosse meglio (forte della collaborazione con i produttori di John Wick) adottare uno stile più brutale e diretto, meno estetizzante.

Il protagonista è un padre di famiglia che il giorno di Natale insegue e tenta di uccidere i membri di una gang – sapremo poi il perché – e gli sparano in gola. Dopo c’è la riabilitazione e dopo ancora – con quella magnifica e ingenua scritta sul calendario nel 24 dicembre dell’anno dopo “KILL THEM ALL” – l’intento di indagare, rintracciare, menare e uccidere dal primo all’ultimo dei cattivi.

Un po’ Giustiziere della notte (c’è un deathwish molto pronunciato, diciamolo) e un po’ John Wick, il nostro impara a scazzottare accoltellare sparare sgommare driftare – in una parola impara a diventare un action hero perdendo a poco a poco la sua umanità e trasformandosi in una sorta di Robocop (altro personaggio interpretato da Joel Kinnaman qualche anno fa).

L’ultima mezz’ora è effettivamente esaltante e il tutto finisce in un bagno di sangue e di poetic justice con un supercattivo che sembra un po’ preso di peso da Il Corvo (cioè è una macchietta assoluta).

Comunque a me è piaciuto assai, e l’ho trovato un ottimo film per accompagnare lo smontaggio dell’albero.

IL KOMOREBI E I CESSI DI TOKYO

Io sono uno che di norma guarda su YouTube video di una o due ore intitolati “Walking around in Tokyo under the Rain ASMR” o “Driving in Shibuya with Local Radio” e resta ipnotizzato in un’estasi zen di fronte allo schermo.

Inoltre, sono anche uno che – folgorato a quattordici anni proprio da un double feature Tokyo Ga / Paris Texas organizzato dal cineclub di quartiere – ama Wim Wenders di un amore solido e pacato, sfociato in una tesi di laurea su Im Lauf der Zeit e scemato un po’ negli ultimi dieci anni per sopraggiunta noia nella nostra relazione. Mi sembrava che Wim non avesse più molto da dirmi.

E invece lui è tornato con Perfect Days, un film che è molto più vicino a Summer in the City o Alice in den Stadten che non a Palermo Shooting o Everything Will Be Fine. Un film girato interamente per le strade di Tokyo, con un gigantesco Kōji Yakusho (che confesso, era fuori dai miei radar finora e meritatamente ha vinto il premio per il miglior attore a Cannes 2023) in cui non si parla quasi mai ma si guida e si passeggia molto, con una colonna sonora che è puro Wenders anni ’70 (Animals, Patti Smith Group, Lou Reed, Otis Redding, Kinks, Van Morrison e una folgorante Nina Simone sul finale).

In Perfect Days non succede nulla, se non la ripetitività delle giornate (ne ho contate mi pare dieci) di un uomo di mezza età che di lavoro pulisce i cessi pubblici di Tokyo. Ovviamente lo fa con grandissima scrupolosità, poi fa le sue pause pranzo in parchi pubblici ammirando il komorebi (la luce che filtra attraverso le foglie degli alberi) e fotografa le suddette foglie con una Olympus compatta anni ’80.

Guida il suo furgoncino dotato di mangianastri sul quale fa suonare rigorosamente cassette anni ’70 e ’80, non parla quasi mai, nemmeno se interpellato dal suo collega fancazzista, e ogni giorno dopo il lavoro va al bagno pubblico, poi a mangiare qualcosa sempre nello stesso locale, poi va a casa, legge un po’ di Faulkner o di Patricia Highsmith a letto, spegne la luce, si addormenta, sogna in bianco e nero (i sogni che punteggiano tutto il film sono girati da Donata Wenders).

La mattina dopo si risveglia e tutto ricomincia da capo, con minime variazioni. Perfect Days è veramente un film minimalista nel senso che è come un pezzo di Philip Glass o Terry Riley messo in immagini, non riesci a smettere di guardarlo in attesa dell’impercettibile variazione che sai che succederà, dura 124 minuti ma ne vorresti ancora almeno 90, non puoi staccare gli occhi.

È girato in 4:3 perché quella è la proporzione giusta per il primo piano, e infatti siamo spessissimo sul volto di Yakusho a sondare ogni sua ruga e ogni sua espressione. A poco a poco entriamo nella vita monacale di quest’uomo che evidentemente ha un passato difficile che possiamo solo immaginare e ci innamoriamo di lui.

Perfect Days è come un bagno rilassante in acque calme e riesce a lavar via l’accumulo di immagini “non necessarie” che ci bombardano ogni giorno per raggiungere l’essenziale, che come diceva quello, “è invisibile agli occhi”. Un film che emoziona tantissimo con poche pennellate e che sul finale colpisce al cuore con un semplice primo piano su cui passa un’intera vita di gioie e rimpianti.